Sappiamo tutti, empiricamente, come la velocità sia un fattore rilevante in un incidente. Un’auto che urta un pedone a 10 km/h è cosa ben diversa da una che lo investe a 100 km/h; nel caso di un incidente automobilistico, la velocità è ciò che moltiplica la spinta. Ma, fondamentalmente, la velocità è il fattore che determina il tempo in cui viene ‘consumato’ lo spazio (tra l’auto ed il pedone).

Qualcosa di simile avviene, su una scala infinitamente più grande, al pianeta. La ‘storia’ (il termine qui è improprio...) della Terra è, come sappiamo, un susseguirsi di trasformazioni di gigantesca portata, spesso anche di grande ‘violenza’. Anche in epoche relativamente più recenti, successive all’apparire di forme complesse di vita, si sono manifestate alcune di queste trasformazioni - basti pensare alla famosa estinzione dei dinosauri. Quali che ne siano state le cause, due sono le cose che possiamo affermare con sufficiente certezza: la combinazione di fattori che ha portato alla scomparsa dei grandi sauri, alla fine dell’era mesozoica, si è manifestata ad una velocità tale da rendere impossibile l’adattamento della specie; la causa di tali fattori è stata esogena ai sauri stessi.

Qualcosa di simile è ciò con cui dobbiamo confrontarci oggi. Una combinazione di fattori sta determinando un mutamento delle condizioni di vita sul pianeta, ad una velocità tale da rendere problematica la sopravvivenza delle varie specie viventi, in particolare di quella umana - quanto meno, alle condizioni attuali - poiché tale processo avviene troppo velocemente perché le specie possano adattarvisi. Con la differenza, però, che stavolta la causa dei fattori di cambiamento è endogena alla specie umana. Saremo forse noi, a scomparire alla fine dell’antropocene? Certamente, l’accelerazione che abbiamo imposto ai mutamenti planetari, almeno a partire dagli ultimi 200 anni, ha determinato mutamenti - verrebbe da dire mutazioni - irreversibili. O quanto meno, tali in una ragionevole prospettiva umana.

Secondo il Goddard Institute for Space Studies, il 75% degli effetti del riscaldamento globale persisterà per i prossimi cinquecento anni. Il 7% per centomila anni. 100.000.

Il plutonio-239 resta attivo per oltre 24.000 anni. Tra trentamila anni, il 25% dei composti di carbonio sarà ancora nell’atmosfera. Giusto per mettere le cose in prospettiva, le pitture rupestri della grotta di Lascaux risalgono al paleolitico superiore, circa 17.500 anni fa. In buona misura, quindi, la questione - per la specie umana - non è ripristinare le condizioni ambientali precedenti all’avvento dell’industrializzazione, ma (molto più semplicemente, e molto più drammaticamente) ‘frenare’ il più rapidamente possibile, per arrestare il processo di mutazione della biosfera - di cui il climate change non è che l’epifenomeno più appariscente.

Ovviamente, quel “più rapidamente possibile” deve fare i conti con le difficoltà oggettive e soggettive, e che rendono tale rapidità assolutamente relativa. Gli ostacoli non sono semplicemente (e semplicisticamente) nell’attuale modo di produzione, basato sul consumo indiscriminato - e variamente determinato - degli elementi della biosfera, né tantomeno in chi, da tale modo di produzione, ricava enormi benefici ‘a breve termine’. C’è un’idea dello sviluppo come mantra del progresso, che va rimessa in discussione. E c’è, quindi, una enorme battaglia culturale che va affrontata, e che riguarda le intere società contemporanee. Senza di questa, senza l’emergere di una consapevolezza piena e profonda del ‘punto di non ritorno’ che abbiamo raggiunto, e quindi senza l’emergere di una determinazione conseguente, la ‘frenata’ non potrà che essere un processo troppo lento, caratterizzato da misure palliative. In questa prospettiva, l’apparire di un ‘movimento’ come Friday For Future, che si è collocato ‘fortunatamente’ in coincidenza con alcune grandi crisi ambientali (Amazzonia, Siberia...), può essere un elemento di innesco per il necessario processo di ‘revisione culturale’.

Opporsi all’evidenza empirica e scientifica delle mutazioni in atto sul pianeta, magari ‘scansando’ le argomentazioni e concentrandosi sul dileggio di un personaggio-simbolo come Greta Thunberg, al solo scopo di mantenere uno ‘stile di vita’ ed il sistema socio-economico in cui si colloca, è a tutti gli effetti una manifestazione di gravissima irresponsabilità.

E che non può pervenire altro che da Homosauri: vecchi, e destinati - loro sì! - all’estinzione.