Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.

(Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio canto X)

La terzina del sommo poeta che apre questo articolo sembra essere la più efficace descrizione dello spettacolo, non certo edificante, offerto dagli esponenti del governo del cambiamento, nel corso delle roventi giornate ferragostane. Parole in libertà, rumore metallico di fondo quale colonna sonora della rottura del rapporto siglato da un pretenzioso contratto di governo, presto trasformato in aspra contesa verbale tra i cosiddetti contraenti, intenti a guadagnare la scena dei “social”, per esaltare i rispettivi risultati, offerti all’ammirazione dei propri followers. Folate di vento scomposto, che soffiano ora da una parte, ora dall’altra, che solo la direzione dalle quali provengono, serve a dar loro un senso, in mancanza d’altro.

Ognuno dei contraenti rivendica il proprio bottino, reddito di cittadinanza da una parte, quota 100 dall’altra. Peccato che entrambe le riforme abbiano fallito gli obiettivi che si ripromettevano di conseguire. La prima si è esaurita nella mera distribuzione assistenziale di reddito, senza alcun esito sul versante occupazionale (qualcuno ha più sentito parlare dei navigator?); la seconda ha provocato, e provocherà ancora, il pensionamento anticipato di decine di migliaia di dipendenti pubblici e privati, con conseguenze estremamente negative nella pubblica amministrazione, per la inevitabile insufficienza e lentezza del ricambio generazionale che ne dovrebbe seguire.

In compenso, sono state soddisfatte le politiche securitarie del ministro dell’Interno, dalla legge sulla legittima difesa ai due decreti sicurezza, alla chiusura dei porti nei soli confronti delle Ong. Ne abbiamo già parlato nei precedenti articoli e ad essi si rimanda; quel che si può aggiungere è che la legittima difesa si dimostra inutile nella stragrande maggioranza dei casi nei quali risulta legittimamente applicabile, perché già coperti dalla precedente normativa del codice penale; i due decreti sicurezza hanno determinato la trasformazione dello status di decine di migliaia di migranti, da titolari di protezione umanitaria, in irregolari, privi di diritti e di possibilità di integrazione. Di seguito, le sanzioni a carico dei soccorritori in mare dei naufraghi per avere assolto al dovere imprescindibile di salvataggio in mare di naufraghi in pericolo di vita, mentre i veri trafficanti di esseri umani sbarcano quotidianamente centinaia di uomini e donne sulle coste siciliane e calabresi, nel silenzio generale.

Sconcertante è apparso il divario tra le rivendicazioni ministeriali degli arresti di mafiosi e latitanti, frutto invece del lavoro dei tanto vituperati magistrati delle procure e degli organi di polizia giudiziaria, che ne dipendono funzionalmente, organi estranei al ministero dell’interno, mentre nessuna misura di contrasto a mafie, trafficanti di droga e riciclatori risulta inserita nei due decreti sicurezza, come se non fossero questi i reali pericoli per la sicurezza e per la stessa democrazia del nostro paese.

Poi, in una calda serata di agosto, nel lido romagnolo di Papeete, il ministro dell’Interno, in costume da bagno, nel corso della festa della Lega, sulla colonna sonora dell’inno di Mameli, circondato da cubiste con abiti di… scena, annuncia la rottura del patto di governo e la sfiducia al presidente del Consiglio. Sede istituzionale migliore non si poteva trovare. In tempi normali, l’inno nazionale viene eseguito nel corso di cerimonie ufficiali, alla presenza di autorità civili, militari e religiose, oltre che di tanti cittadini, con compostezza di abbigliamento e di partecipazione. Oggi, alla presenza di un ministro nazionalsovranista, che afferma di voler difendere l’identità nazionale, l’inno viene degradato a motivetto pop, sulle cui note contorcersi seminudi sulla spiaggia, con in mano una bibita. Dove è finito l’art. 54 della Costituzione? Dove il dovere per i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche di adempierle con disciplina e onore?

È difficile comprendere le reali ragioni che hanno spinto il vicepresidente del Consiglio, nonché ministro dell’Interno, a provocare una crisi in una stagione dell’anno del tutto incongrua, accompagnata dalla richiesta di andare a nuove elezioni nel più breve tempo possibile. Forse l’intento era quello, peraltro espressamente enunciato, di assumere al più presto “i pieni poteri”, forse l’idea di potere egli stesso scrivere la prossima manovra di bilancio, con un programma di spese per l’ammontare di cinquanta miliardi di euro, per andare finalmente allo scontro con le istituzioni europee.

Se quel programma, almeno nel momento in cui vengono redatte queste note, non è riuscito è dovuto alla nostra Costituzione ed al suo garante, il Presidente della Repubblica. L’art. 88 della Costituzione assegna, solo ed esclusivamente, al Presidente della Repubblica la possibilità di sciogliere le Camere, prima della loro scadenza elettorale, non certo un partito, peraltro di minoranza, né tantomeno un ministro. Prima di sciogliere le Camere, il Presidente deve fare ogni sforzo per evitare la conclusione anticipata della legislatura, che nella vita democratica del paese deve restare un’eccezione giustificata solo dalla mancata impossibilità di buon funzionamento, non già del Governo, ma delle Camere nella loro attività legislativa. Quando il Governo perde la fiducia del Parlamento se ne può formare uno nuovo, se ce sono le condizioni politiche che lo consentano. Tale soluzione, che ha innumerevoli precedenti nella prassi parlamentare, diviene obbligatoria allorquando, come nella situazione parlamentare presente, vi sia un partito di maggioranza relativa e due con peso parlamentare quasi eguale, ed è evidente che il partito di maggioranza può raggiungere un accordo sia con l’uno che con l’altro. Ne deriva la pretestuosità polemica delle accuse di inciucio, manovra di palazzo, complotto e altro ancora, per definire la formazione di una nuova maggioranza e di un nuovo governo, trattandosi al contrario di un accordo del tutto speculare a quello oggetto del famoso contratto, soprattutto quando segue ad un invito proveniente dal Presidente della Repubblica. Sono le regole di una democrazia parlamentare, piacciano o non piacciano a chi si vedeva già investito di pieni poteri.

Peraltro, i tempi dello scioglimento, dell’avvio della complessa procedura per indire nuove elezioni, lo stallo politico che caratterizza la campagna elettorale, i tempi dell’avvio dell’attività delle Camere, della formazione di un nuovo governo, non apparivano conciliabili con le urgenze della nomina del commissario italiano alla Unione Europea, della formazione della legge di bilancio, delle necessità dell’economia, in fase di stagnazione, delle crisi industriali che minacciano potenzialmente centinaia di migliaia di posti di lavoro, del conseguente sicuro aumento dello spread e della sfiducia degli investitori internazionali. Non a caso non si ricordano elezioni politiche autunnali nella storia della Repubblica, tutte avvenute tra aprile e giugno, con la sola eccezione di elezioni indette a febbraio del 2013.

Potrebbe stupire un dato che andrebbe lasciato agli storici della politica piuttosto che a effimeri commenti giornalistici. Il passaggio da un alleato di governo all’altro, tra tre formazioni politiche, facenti capo a ideologie, principi ispiratori, impegni elettorali, tra loro incompatibili, è reso possibile dalla scomparsa dei tradizionali partiti della prima repubblica (tranne il PD), e la nascita di nuove aggregazioni di tipo fortemente personalistico, trasformazione iniziata in qualche modo da Craxi, divenuta esplicita con la scesa in campo del cavalier Berlusconi ed oggi impersonata dai nuovi leader firmatari del contratto di governo. Sull’onda populista e sul rifiuto delle tradizionali contrapposizioni tra destra e sinistra, il fondamento unificante è la persona del capo; l’uomo solo al comando, in grado di stabilire un rapporto diretto con il suo popolo, senza intermediazioni congressuali, con i messaggi diffusi attraverso i social network, fatti di poche parole in grado di esprimere un intero programma politico (del tipo: la pacchia è finita; la povertà è abolita; per citarne solo i più eleganti). L’impoverimento del linguaggio procede di pari passo con l’accentuazione della volgarità, del disprezzo, dell’intolleranza, della falsa e deformata rappresentazione della realtà. Con un duplice scopo: deviare l’attenzione dai problemi reali del paese: crisi economica, fuga dei giovani dal Meridione e dall’Italia, chiusura delle fabbriche ed aumento della disoccupazione, aumento esponenziale del potere mafioso, in assenza di qualsiasi misura di contenimento e di contrasto; oltre che dai problemi personali, politici e giudiziari dei protagonisti, gli oscuri rapporti con Mosca, mai chiariti, i ruoli altrettanto oscuri di Savoini e Siri, e i conseguenti riflessi sulla collocazione internazionale del paese consapevolmente messa in discussione.

La formazione di un nuovo governo, ha evitato le elezioni anticipate, è servito a ristabilire un rapporto di fiducia con l’Europa per la soluzione comune dei problemi dell’immigrazione, del risanamento del debito pubblico, della ripresa economica, e deve essere sostenuto con grande senso di responsabilità e spirito di servizio; servirà tra l’altro ad evitare al nostro paese il triste primato di essere l’unico dell’Europa occidentale ad essere governato da un governo da chi avrebbe potuto portare il paese fuori dall’Europa e fuori dall’euro, con esiti letteralmente disastrosi per il paese. Brexit docet. Intanto, si è già ottenuta la nomina di un commissario europeo nell’importante ruolo di responsabile degli Affari economici e l’Italia ha ripreso il ruolo che le compete di partner di primo livello dell’Unione europea.