Time never dies, the circle is not round.

( Milcho Mancevski, Prima della pioggia)

Questo dimenticato film, Leone d'Oro a Venezia nel 1994, frutto di una cooperazione macedone e anglofrancese, torna oggi attuale, non solo perché racconto geopoliticamente profetico sulle divisioni etnico-ideologiche-religiose che sembrano ancora oggi e sempre di più destabilizzare il mondo, allora tragicamente nella guerra che frantumò la Jugoslavia e tutti i Balcani, ma ancor di più quale opera d'arte poetica e mitopoietica dove il tema centrale è il senso del tempo, dimensione che l'attuale società televisiva e mercificatrice sembra provare a erodere, vanificare, obliare, indifferenziare.

Il film inizia con una citazione di Mesa Selimovic, scrittore bosniaco:

Con stridio gli uccelli fuggono nel cielo nero, la gente tace, il sangue (immagine di fuoco) mi duole nell'attesa...

Già dall'inizio, quindi, il tema del tempo emerge in modo decisivo e icastico. Tutta la narrazione, articolata in tre quadri e in tre tempi (con questi titoli: parole, volti, fotografie) avviene “prima della pioggia”, in una dinamica temporale di attesa di un qualcosa di risolutivo, che mai accade coerentemente. Piove solo nella doccia di Anna, a Londra. La pioggia quale scioglimento di una tensione, quale fluidificazione di un'aspettativa, sempre imminente ma mai maturata pienamente. Il tempo quale cerchio che sta per chiudersi ma invano, perché l'inaspettato lo spezza continuamente e allora occorre ricominciare il giro del ciclo. La continua lotta tra la crudeltà di Kronos e l'ellisse fatale di Aiòn. Nell'incrocio la preziosità radicale del kairos, con le sue scelte irreparabili. La scelta quale passaggio da un cerchio in movimento a un altro.

In ciascun quadro viene ripetuta la frase: “Il tempo non muore, il cerchio non è rotondo”. Così accade nei tre racconti, dove la circolarità del tempo sembra chiudersi ma resta alla fine spezzata. All'inizio c'è la storia del giovane monaco Kiril che da due anni vive il suo voto di silenzio in un povero monastero fuori dal mondo in una Macedonia povera e rurale, ma già coinvolta nella divisione di guerra che sta insanguinando la vicina Bosnia e il mondo intero. Qui il tempo appare veramente circolare in quanto tempo sacrale scandito dai cicli naturali e liturgici. Lo conferma il giocare dei bambini vicino al monastero. Qui appaiono due scene ravvicinate che rappresentano dei veri e propri emblemi filosofici: prima i bambini giocano con due tartarughe, come fossero carri armati in conflitto, dentro un cerchio di legnetti posti a terra. Poco dopo appare una sola tartaruga, rivoltata, dentro lo stesso cerchio di legnetti, ora però accesi dal fuoco, dentro il quale i bambini per giocare gettano proiettili, per farli scoppiare. La tartaruga quale segno di Saturno e di Hermes, emblema dell'incontro tra cielo e terra, cuore del tempo curvo, sacrale e cosmico, indicato dal cerchio di legnetti intrecciati. Le due tartarughe usate come gioco in conflitto tra di loro appare immagine contronaturale, epifania di una terra divisa, spezzata dalla guerra, in movimento contro se stessa. Il cerchio di fuoco con un'unica tartaruga centrale ribaltata, che consuma i proiettili, manifesta il senso di un tempo apocalittico finale, finalmente concluso nel segno del fuoco, dove e quando il rapporto tra cielo e terra appare apocalitticamente ribaltato in un ordine superiore e nuovo.

Nuovi Cieli e Nuova Terra nella palingenesi giovannea (Ap.21,1). Medesimo senso espresso dall'antico canone: solve saeclum in favilla, teste David cum Sibilla. Il tempo della storia finirà nel fuoco, attraverserà il fuoco, secondo l'apostolo Pietro (2Pt. 3,7-12) tanto quanto secondo un frammento di Eraclito, come se l'essenza ignea delle cose tendesse a una sua conflagrazione risolutiva finale, escatogonica, che irradiasse in modo esplosivo, estroflesso, il fuoco interno vitale latente.

Il giovane monaco ospita una ragazza albanese in fuga da guerriglieri macedoni, che la vogliono uccidere per rappresaglia della morte di un loro parente. Nel tempo senza tempo monacale irrompe l'imprevisto, il profano, l'invivibile, lo sfuggente nella figura della ragazza fuggiasca e così il cerchio non può chiudersi e il tempo non può morire. Il ragazzo viene espulso dal monastero insieme alla ragazza. Nel tempo della fuga dal mondo non c'è spazio per un ritorno al mondo. Fuggono di notte, come implicitamente “sposati” dall'affetto e dal rammarico dei padri del monastero. Ma la ragazza, salvata dal macedone, verrà poco dopo uccisa dai suoi per il suo non voler abbandonare il suo giovane salvatore, appartenente all'avversa comunità macedone.

Nel secondo quadro narrativo il protagonista sarà invece lo zio del giovane monaco, Alexander, un famoso fotografo di guerra che vive in una Londra attraversata anch'essa dalla violenza. La violenza della guerra in Bosnia spettacolarizzata e narrata nei media occidentali e la violenza che serpeggia dentro la metropoli giungendo dai Balcani, nelle prime avvisaglie di una sorta di “guerra civile mondiale” profeticamente anticipata nel film e, ad oggi, tutt'ora in corso. Alexander sfugge da una pessima esperienza in Bosnia, dove il suo voler fotografare ha indotto un guerrigliero a uccidere un prigioniero, e fugge subito verso la sua Macedonia. Un voler chiudere il cerchio tornando a casa, scacciando Kronos nel tornare nella terra dei padri e dell'infanzia, da cui andò via da giovane. Uno sfuggire alla morte che lo condurrà alla morte. Il cerchio non si chiude in due modi. Alexander non riesce a convincere subito la sua amata Anna a seguirlo. Lei lo raggiugerà dopo, ma trovandolo morto. Scena che viene anticipata nel primo quadro narrativo.

Ma non c'è alcun flash back ma piuttosto tre tempi narrativi di poco sfasati e ritornanti dentro un unico ciclo. Alexander torna a casa ma trova una Macedonia molto diversa dal suo ricordo idealizzato e affettivo, spaccata in due dall'odio etnico e dai fanatismi religiosi. Ha lasciato la Bosnia traumatizzato per ritrovarla in una vicina Macedonia che sognava differente. Ucciso un suo cugino da ignoti avversari i suoi parenti per rappresaglia rapiscono una giovane albanese, Zamira, figlia di un suo giovanile amore. Alexander vuole liberarla ma viene ucciso, come traditore, dal suo clan. La ragazza riesce a scappare, salvata dal suo sacrificio. È la stessa ragazza che Kril nasconderà nel monastero e che viene raccontata, alla fine del terzo quadro del film, mentre corre, viva, verso il monastero, dietro un Kril che, ignaro, sta finendo di raccogliere i pomodori dell'orto dei monaci, all'aria aperta, come nella scena iniziale del film; appena “prima della pioggia”.

Un incrocio di tre cerchi che non si chiudono. Il primo espelle dal silenzio in una controfuga verso il mondo l'inconciliabilità del cerchio con la linea progressiva dell'incontro mondano. Il secondo espelle da Londra chi rifiuta la recita dopo aver sfiorato la morte. L’archetipo richiama e reclama la sostituzione della copia. Non è un caso che Alexander torni in Macedonia passando per Londra, per la sua passione incompleta, invece che viaggiare direttamente dalla vicina Bosnia. Il rifiuto del simulacro per la ricerca della terra, della casa, di una fuga verso un altro mondo. Ma l'amore resta indietro. La fretta porta verso la morte quale conclusione alternativa del tempo circolare. La terra resta divisa e la casa abbandonata e solitaria. Il terzo cerchio corre retto anch'esso dal sacrificio, da un terzo sacrificio, quello di Alexander per Zamira e il fotografo trova la sua casa e la sua terra solo nel suggestivo funerale tradizionale che lo celebra e lo unisce, finalmente, alla sua comunità. Pioverà, infatti, solo alla sua morte, come una liberazione, una benedizione, un lavacro di nuovo oblio. Nel suo feretro l’eroe sembra soddisfatto. Ha pagato il suo tributo al cerchio, si è salvato dall’inconcludenza spezzata della linea. Ogni clan uccide i suoi, contronaturalmente; uccide se stesso, come le due tartarughe una contro l'altra. Il sacrificio regge la ruota del tempo, tiene in vita l'energia del ciclo che corre fatale verso la sua consumazione, sempre rinviata, ma centrale quale eskaton che dà senso e vigore al tutto.