Giuseppe Maria Alberto Giorgio de Chirico, ovvero il poeta-pittore-filosofo e signore degli enigmi. Mondi disabitati, silenziosi e immobili; paesaggi racchiusi dentro spazi claustrofobici dove squadre, righelli e strane strutture geometriche si accatastano in forme incomprensibili; corpi umani senza testa, manichini senza volto dagli arti sproporzionati, troppo corti o troppo lunghi, con gli stomaci stracolmi di ruderi e monumenti; tendaggi come sipari che mostrano palcoscenici improbabili popolati di sagome spettrali e oggetti quotidiani accostati senza motivi apparenti.

Sono i deserti della metafisica, le acrobazie della mente trasferite nella pittura, che ci imbarazzano e ci inquietano come potrebbe inquietarci un fantasma. “E cosa amerò se non ciò che è enigma?”, sottolinea de Chirico nel 1911 a margine di uno dei suoi primi autoritratti trascrivendo la celebre frase del suo filosofo preferito, Friedrich Wilhelm Nietzsche. D’altra parte, quel pomeriggio autunnale seduto su una panchina in piazza Santa Croce a Firenze, quando per la prima volta la metafisica gli si rivela, neanche lui riesce a capirne il mistero. L’enigma di un pomeriggio d’autunno è la sua prima visione, come una profezia che l’accompagnerà per tutta la vita.

Siamo nel 1910 e già l’anno successivo de Chirico diventa un mito per il gruppo internazionale di surrealisti che si riunisce a Parigi. “Il pittore più sorprendente della giovane generazione”, lo definisce il poeta e critico Apollinaire. Un sodalizio, quello con i surrealisti e le avanguardie parigine, che durerà alcuni anni per dissolversi, anzi, per rompersi con fragore, quando l’artista italiano catturato dai maestri del Rinascimento, dichiarerà di essere “pronto per altre partenze”.

Per i francesi quel suo ritorno ai classici sarà un vero e proprio voltafaccia. Per de Chirico significherà una battaglia perpetua contro i critici, le gallerie d’arte, gli stessi collezionisti e il mondo intero che lo accusava di aver abbandonato quel mondo fantastico fuori dal mondo per tornare alla tradizione, salvo ‘copiare’ se stesso in quei dipinti di revisione o di continuità con la prima metafisica. “Pictor Optimus”, si definiva lui polemico e senza troppa modestia, nonostante le opere successive al 1920 suscitassero giudizi velenosi.

Proprio per ripensare le tappe dell’intenso percorso di uno degli artisti italiani più importanti e controversi, Genova ha aperto le stanze dell’appartamento del Doge di Palazzo Ducale, ospitando una mostra che propone un’interpretazione delle opere di de Chirico attraverso il tema del viaggio e dell’eterno ritorno, secondo l’antica teoria dell’esistenza che si ripete in un ciclo infinito. Teoria condivisa da Nietzsche e dallo stesso Pictor Optimus. Lui, viaggiatore instancabile, nato in Grecia da genitori italiani, e poi vissuto a Torino, Ferrara, Firenze, città metafisiche per eccellenza, e ancora a Milano, Roma, Parigi, Venezia.

Lui amante di tutti i viaggi, quelli leggendari e quelli metafisici, quelli in barca, simbolo dell’antichità, e quelli in treno, metafora dell’epoca moderna. Per questo la mostra comincia con Ulisse, autoritratto del 1922, e si conclude con Il ritorno di Ulisse, opera del 1968, in cui l’eroe greco rema nel mare di una stanza, compiendo tragitti circolari che tornano sempre al punto di partenza. Oltre all’Ebreo errante e alle varie Piazze d’Italia con i treni che sbuffano in lontananza, anche il peregrinare de Il Figliol prodigo è un vagare dalla perdizione alla salvezza.

L’esposizione di Genova nasce a cento anni dal famoso ‘voltafaccia’ del 1919, quando de Chirico tornò a ispirarsi ai modelli classici, e vuole evidenziare come le opere successive non significarono l’abbandono della Metafisica, ma piuttosto una sua evoluzione sofisticata. La curatrice Victoria Noel-Johnson la chiama ‘metafisica continua’ e la spiega così: “I dipinti dal 1919 in poi – sia ritratti e nudi, sia nature morte e paesaggi – non sono opere ‘tarde’, bensì rappresentano i frutti della sua ricerca sulla tecnica pittorica e costituiscono anche uno sviluppo notevole della sua interpretazione della metafisica. In realtà quel volte-face fu molto meno radicale di quanto non pretendessero i suoi critici più accaniti”.

L’idea, dunque, condivisa anche da Paolo Picozza, presidente della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, è che l’opera dell’artista costituisca un unicum, che il suo valore non debba e non possa essere limitato solo al periodo più celebrato della Metafisica fiorentina, parigina e ferrarese.

Per ‘scoprire’ l’armonia dell’intero processo culturale e di ricerca percorso da de Chirico la mostra è organizzata per temi e non secondo un ordine cronologico. “Cambiando prospettiva emerge un mondo completamente nuovo”, scrive la curatrice. “Qui si possono presentare insoliti accostamenti di oggetti in ambienti inaspettati, così come adottare e rappresentare con tocco modernista generi tradizionali e veder apparire motivi presenti nelle opere dei grandi maestri accanto ai motivi sviluppati da de Chirico durante il primo periodo metafisico”.

Eccoli allora i personaggi-manichini che popolano le sue tele fino agli anni Settanta, ma ecco anche i ritratti con evidenti riferimenti ai maestri del Quattrocento e del Cinquecento. Si passa poi alle nature morte e ai disegni classicheggianti, mentre le città dell’immaginazione e gli interni ferraresi ci riconducono ai temi più riconoscibili della sua arte. Ma dovunque risuona la Metafisica, dovunque è in agguato il mistero e ogni scena potrebbe essere il luogo di un delitto imminente o appena commesso.

D’altronde quella fu un’epoca di incertezze e forse non è un caso che il re della suspence, sir Alfred Joseph Hitchcock, nacque, visse e morì negli stessi anni, dal 1899 al 1980, quasi ricalcando le date di nascita e di morte (1888-1978) dello stesso de Chirico. Ma se il regista inglese, nonostante le molte critiche per l’assoluta improbabilità di certe situazioni da lui create, ottenne apprezzamenti e numerosi Oscar, l’artista italiano ebbe vita più dura e visse momenti meno gloriosi. Come quando alla Biennale di Venezia il suo acerrimo nemico Roberto Longhi, importante critico d’arte, assegnò a Morandi e non a lui il premio per la Metafisica.

De Chirico, comunque, non mollava mai e non risparmiava attacchi e biasimi a nessuno. A Lionello Venturi, altro noto critico d’arte, affibbiò l’epiteto di ‘ardente paladino di tutte le croste, i crostoni e le asinerie dei modernisti d’Italia’. Palma Bucarelli, direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma venne apostrofata come ‘perfida organizzatrice’ e ‘cuoca d’alto bordo’. Entrambi erano ‘rei’ di preferirgli artisti stranieri quali Picasso e Calder, quest’ultimo considerato un ‘fabbricante di giocattoli e di rozze carcasse bullonate’.

Se la prese persino con Cocteau, per i cui poemetti racchiusi in Mythologie lui stesso, il Pictor Optimus, aveva disegnato nel 1934 dieci splendide illustrazioni sul tema dei Bagni misteriosi. Ma negli anni Cinquanta la sua idea sul letterato francese era ormai cambiata, tanto da definirlo uno ‘pseudopoeta che non sa più cosa inventare per restare a galla’. In mostra a Genova quelle litografie ci danno ancora una volta il senso dell’inquietudine e del mistero. E mentre Longhi parlava della pittura di de Chirico come una specie di Frankenstein modernista, lui replicava: “So che il valore di quello che faccio oggi apparirà, presto o tardi, anche ai più ciechi”. Certamente fu un profeta di se stesso e il tempo gli ha dato ragione.