Era un rituale di purificazione quello che apriva il mese di Maggio e aveva inizio con un odore intenso e penetrante: era mia nonna ad aprire la scatola di metallo che conservava, come un antico reliquiario, la cera d’api che, con la sua cremosa sostanza, gialla come l’oro, era destinata ad impregnare ogni venatura dei mobili di legno intarsiato che custodivano la memoria delle antenate che forse avevano compiuto gli stessi gesti, con la stessa cura e con la medesima intenzione di rendere omaggio a Maria, la madre di Cristo, colei che per l’intero mese sarebbe stata al centro di quella devozione che dal suo nome si chiamava appunto “mariana”.

Era un esercizio di pazienza e di concentrazione quello di stendere la cera, non meno prezioso della pulitura del padiglione del the prima del compimento dell’omonima cerimonia.
Si svolgeva con accuratezza estrema così che ogni particolare, anche il più minuscolo, potesse trarne risalto e nutrimento, come a sottolineare, pur se inconsapevolmente, che ogni cosa, anche la più piccola e all’apparenza irrilevante ha un suo posto ed un suo merito nell’armonia del tutto.
Un piccolo pennello veniva usato per i punti più difficili come le piume delle due colombe a rilievo che abbellivano la grande credenza del tinello che era il vanto di mia nonna.

Ricordo con molta tenerezza di averla vista mentre, a lavoro di lucidatura ultimato, sedeva accanto al tavolo in una vera e propria contemplazione, certa di aver portato ancora una volta a compimento un sacro ufficio.
Sì, perché le pulizie di Maggio avevano qualcosa di speciale: pareva che non fosse solo il luogo a dover essere purificato bensì che tale operazione fosse preludio e premessa di una purificazione interiore alla quale tutti eravamo chiamati a partecipare.

A differenza di altri lavori per così dire “domestici” che erano occasione per scambiare racconti, storie, consigli e qualche pettegolezzo, questa impresa si svolgeva in silenzio: era un rito del quale si conoscevano da sempre le regole, scritte in un invisibile codice che ciascuna portava nella memoria del cuore.
Una cerimonia di donne che preparavano se stesse e il luogo all’accoglienza, in una condivisione nella quale il silenzio si faceva preghiera.

Sul comò al quale era riservata una speciale attenzione venivano “esposte” le fotografie di zie, bisnonne e amiche racchiuse in cornici di varia foggia, forse di ottone, tutte sottoposte ad implacabile lucidatura.
Per l’occasione venivano estratte dal primo cassetto dove erano custoditi chissà quali segreti dato che restava chiuso a chiave. Sapevo solo, per aver sbirciato, che ci stavano delle lettere legate con un nastro azzurrino.

Penso che, grazie a questo rituale, anche le donne che, come si diceva, “erano salite in cielo” venissero invitate a celebrare questo mese quasi che la sacralità che rivestiva ogni cosa accorciasse le distanze tra i mondi e aprisse le porte degli universi.

Una gestualità che si ripeteva solenne come sul palcoscenico d’un antico teatro d’Oriente accompagnava la lucidatura degli specchi quasi fossero oggetti magici, portali per spingersi in altri mondi.

Ed è forse attraverso uno di quegli specchi che la memoria riesce a restituire frammenti di quel sapere semplice, forse ingenuo che è rimasto appiccicato al nostro cuore bambino e, quando meno ce lo aspettiamo e più ne abbiamo bisogno, ci rimanda il ricordo di una preghiera che credevamo perduto per sempre, di un profumo, di un sapore che ritorna in tutta la sua vivezza.

Nella nostra mente orgogliosa e corazzata si fa strada un pensiero lieve, delicato, accattivante e in un solo istante ritroviamo emozioni, sentimenti, parole, volti di persone che abbiamo amato.
È un sentire pieno di condivisione e di amorevolezza, un sentire profondo che ci restituisce immagini così pulsanti e ricche di particolari da farci rivivere la nostra memoria come un emozionato ed emozionante racconto che ci porta dentro, ci coinvolge fino a condurci in quello spazio del sacro nel quale il quotidiano e il divino si ritrovano più vicini. In questo luogo del cuore ci lasciamo condurre per mano come bambini. Si insinua nell’animo una dolcezza infinita e possiamo lasciare che ogni cosa fluisca come una voce che crea visioni.

Maggio era il mese dedicato al “fioretto”, una forma di devozione alla Madonna che coinvolgeva le donne, grandi e piccole, della famiglia.
La parola fioretto che suona così dolce e graziosa nascondeva in realtà la richiesta, assai poco gradita a me bambina, di sottoporsi a qualche sacrificio quotidiano per rendere omaggio alla mamma di Gesù, come la chiamava mia nonna quando cercava di rispondere in modo convincente alle mie insistenti domande: perché la vergine Maria avrebbe dovuto essere più contenta se io avessi rinunciato ai dolci? Perché avrebbe dovuto aspettarsi da me qualche altra prestazione eccezionale di bontà e sacrificio visto che la Quaresima non era passata da tanto e i buoni propositi natalizi avevano già avuto corso? Mi sembrava di aver dato un contributo sufficiente e non si poteva pretendere altro da me.
Come sempre quando le argomentazioni non riuscivano ad essere convincenti venivo zittita drasticamente con la solita formula: “Capirai quando sarai grande”. E le parole assolutamente definitive venivano pronunciate da mamma e nonna riunite quasi a sottolineare che dovevo arrendermi senza ribattere a quella sicura certezza tramandata di madre in figlia: erano parole di antiche sacerdotesse che la sapevano lunga su ciò che bisognava ineluttabilmente portare a compimento.
A suggello dell’avvenuto patto mi veniva consegnata una particolare coroncina fatta di coralli che scorrevano dall’alto in basso lungo due fili. Ad ogni fioretto compiuto se ne faceva scendere uno e il lunedì veniva effettuato il controllo della settimana appena passata: dovevano naturalmente essere sette, uno per ogni giorno, domenica compresa.

Quando frequentavo l’asilo al Collegio Sant’Anna era suor Norina che svolgeva questa funzione: piccola di statura e di forma rotonda spettava a lei passare in rassegna le coroncine. Nella sua infantile ingenuità che le veniva dalla lunga frequentazione di bambini, credo non avesse mai avuto il sospetto che qualcuno di noi osasse abbassare tutti i granelli immediatamente prima della sua ispezione.
Fui io a rompere l’incantesimo quando venni colta in flagrante reato per essermi distratta a guardare un giocattolo meccanico chiuso nella vetrinetta che suor Norina apriva solo in rarissime e speciali occasioni.
Lo scimmiotto che suonava un tamburo di latta fu la causa di quella catastrofe: duramente redarguita, punita con l’obbligo di fioretti supplementari e, soprattutto, messa in condizione di sentirmi lambita dalle fiamme dell’Inferno.
Forse in quel momento ho avuto sentore di che cosa significasse la parola penitenza: non mi piaceva affatto e continuavo a pensare che “i grandi” non avessero le idee chiare su che cosa era bene per me.

Del rituale mariano faceva parte anche la recita del rosario fatta in chiesa oppure la sera, in famiglia. “Andare al fioretto” o “fare il fioretto” erano le due espressioni che indicavano la funzione collettiva o quella privata.
In chiesa era molto piacevole: si usciva di casa nel tardo pomeriggio, si incontravano amiche, signore ben vestite; si ascoltavano e si pronunciavano strane parole di incomprensibile significato; si sentiva l’odore delle candele, dell’incenso e di rose recise.
A volte si cantava.
Il rosario recitato in casa era tutt’altra cosa. “Si diceva” di solito prima di andare a dormire e allora la voce cantilenante rendeva faticoso non chiudere gli occhi e, al momento della lettura dei cosiddetti “esempi edificanti”, già si era perduto completamente il controllo.
L’officiante, di solito mia mamma, alzava il tono della voce per richiamarmi all’ordine e sollecitare la mia attenzione senza interrompere il rito. A mia discolpa avevo che da anni sentivo quelle letture, sempre le stesse, tanto che, anche nel dormiveglia, avrei potuto continuare la narrazione da qualunque punto fosse stata interrotta.

Di tanto in tanto mi veniva concesso di sfogliare “il libro”: così si chiamava la Filotea, il libro di meditazioni ed esercizi di pietà da recitare nel corso della giornata. Quello sul quale scorreva la voce di mia madre, con mio assoluto incantamento, era gonfio di preziosi “santini”, le immaginette che si conservavano con la stessa cura che da noi bambini era riservata alle figurine. Servivano a ricordare le “attribuzioni” dei santi che, ammantati di un alone di fiaba, diventavano personaggi fantastici, accompagnati da draghi e rivestiti di lucide armature.

Alla festa di santa Rita, il 22 del mese di maggio, ci si preparava andando a raccogliere le rose in quello che, come un giardino segreto, si apriva oltre l’alto muro dell’antica casa della signora Elodia che le curava con amore così che fossero pronte per essere portate a benedire dopo la processione e poi conservate per l’intero anno in forma di petali in una ciotola di vetro di Murano.
Solo con il tempo ho compreso la speciale devozione di mia nonna per quella santa alla cui protezione le madri affidavano i figli, lei che non aveva mai abbandonato il nero del lutto per quelli perduti ancora bambini.

Per me era una meravigliosa occasione di festa.
Se la stagione lo permetteva e non s’era fatto troppo caldo, alla processione di santa Rita indossavo lo stesso abito rinnovato per la Pasqua. Era una cerimonia di tutto rispetto e la scelta dell’abito lo confermava.
Ma l’attesa più dolce era per la degustazione del primo gelato dell’anno. In realtà si trattava della cassata-semifreddo che veniva preparata nella piccola pasticceria divenuta famosa per questa specialità.
La si raggiungeva a piedi passeggiando per le vie del centro ancora tenendo in mano il mazzo di rose benedette quasi a condividere un sapere e un sentire che era comunione di appartenenza.
Servita sopra un piattino bianco la cassata era appoggiata sopra una carta oleata, come allora si usava dire, che rendeva più agevole raccoglierla con il cucchiaino di metallo.
Lo spazio era angusto e si doveva restare in piedi ma la sensazione di piacevolezza era grande: si cominciava anche a pensare all’estate.

C’era nella visione infantile, ma direi proprio nella ritualità d’un tempo, un legame stretto tra il santo e la festa, una scansione del cerimoniale che era anche scansione del cibo. Se ci ripensiamo ognuno può collegare il sapore di qualche speciale leccornia ad un momento del sacro.
La memoria olfattiva, che è poi la più profonda e radicata, si mischia a quella del gusto e se, come dice un bellissimo frammento di Eraclito:

Il Dio è giorno e notte, sazietà e fame,
inverno e estate

e si mescola a tutte le cose assumendo

di volta in volta il loro aroma

non sarà irriguardoso associare santa Rita al morbido sapore di crema e canditi.

Verso la fine del mese, quando le giornate si erano fatte più lunghe aveva luogo il pellegrinaggio al santuario del Poggetto situato in un piccolo borgo circondato da aperta campagna durante il quale l’utile della devozione si univa al dilettevole della gita en plein air in una primavera già avanzata.
Si raggiungeva in auto, ma c’era chi ci andava in bicicletta, nel primissimo pomeriggio subito dopo la scuola. Appena arrivati si entrava nella piccola chiesa. Nella casa accanto, che faceva anche da sacrestia, si acquistavano le candele da accendere davanti all’immagine di Maria. Mia nonna recitava una preghiera in un improbabile latino e a me diceva: “mandale un bacino”.

Aveva poi inizio un percorso “a stazioni” durante il quale si recitavano le preghiere sostando presso i capitelli che fiancheggiavano la lunga strada alberata che portava ai grandi maceri. Ogni capitello era stato donato da una famiglia il cui nome era scritto sulla colonna di pietra. Alla preghiera si univano i ricordi: qualcuno si conosceva ed era allora l’occasione per far tornare alla mente un episodio, una parentela, un’emozione dimenticata. Di altri non si sapeva nulla ma si leggeva ugualmente il nome ad alta voce affinché arrivasse “lassù”, dove indiscutibilmente si collocava il divino, un pensiero
misericordioso per chi era stato benefattore.
Era questo lo stretto, indissolubile legame tra devozione e quotidianità.
Camminando si annusava l’odore dell’aria e il profumo delle rose piantate in abbondanza attorno al Santuario.
Compiute le pratiche devozionali arrivava il momento più piacevole: quello della merenda con la torta di rose, così chiamata per la sua forma a grandi boccioli di pasta dolce, classicamente avvolta in un grande tovagliolo a quadri bianchi e rossi. La fragranza e la morbidezza inconfondibili sono segnate nella mia memoria, inseparabili dall’ inebriante sensazione di respirare la pienezza della primavera.

Sono molto grata alle mie antenate che mi hanno fatto dono di questa “favola bella” che mi fa ritrovare, di tanto in tanto, la gioia di quella sicura serenità che veniva loro dalla certezza della fede. Una fede che era la capacità di accettare la sfida e il mistero della vita con la semplicità sublime che dà alle creature dell’aria la certezza di poter volare e ai mistici il coraggio di lasciarsi permeare dal divino: un modo così mirabilmente dolce di intendere la trascendenza in una scansione degli eventi che scorrono come altrettanti grani di quel rosario che era corredo imprescindibile per poter celebrare i riti di Maggio.

Anch’io estraggo dal cassetto non più chiuso a chiave i loro ritratti e li espongo con mente devota nella speranza che siano insieme a me a custodire questi ricordi preziosi.

A cura di Save the Words®