«Sandokan è un uomo in grado di trascinare, è nato capo. Con lui dieci uomini sono un esercito. Dove si arriva dopo giorni di ragionamento lui arriva in un attimo. Lo uccidete e lo rivedete vivo. Riuscite a prenderlo, ma è già scappato. Non combattete solo un uomo, ma una leggenda.» (James Brooke nel film La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa!, 1977)

Lo sceneggiato televisivo Rai del 1976/77 dedicato a Sandokan e tratto dal ciclo malese di Salgari presenta aspetti narrativi, massmediali e culturali meritevoli di studio e di attenzione e tali da farlo ritenere ancor oggi attuale e significativo sia dal punto di vista dei valori della cultura politica sia dal punto di vista dalle strutture di linguaggio. Non è un caso che Sandokan sia stato omaggiato (e reinterpretato) in senso neomarxista dall’autore messicano Paco Ignacio Taibo II nella sua recente opera Ritornano le tigri della Malesia (più antimperialiste che mai). Ovviamente questa opera rappresenta un libero “uso interpretativo”, strumentale, e, per dirla tutta, anche un po’ banale nel suo rivelarsi funzionale a dare un po’ pepe e di poesia a un neomarxismo riemergente che appare di per se stesso non molto fresco e attrattivo. Ma l’operazione culturale di Paco Ignacio nell’usare Sandokan quale nuova icona del ribellismo “antimondialista” dimostra comunque il potenziale narrativo ancora efficace e attuale del mito di Sandokan.

Qui analizzeremo solo lo sceneggiato televisivo che rappresentò il primo kolossal televisivo italiano, girato per la prima volta proprio sui luoghi malesi e indiani dei romanzi e che ebbe uno strepitoso successo di pubblico. Se avessero previsto tale enorme successo non avrebbero certo fatto morire la protagonista femminile dopo poche puntate! Ma anche nei telefilm forse l’eroina migliore e più persistente è quella che vive brevemente, come per gli uomini! Perché è così importante culturalmente questo telefilm su Sandokan? Proprio perché sintetizza in modo abile e sapiente una dimensione mitopoietica che media fra modernità e ancestralità e presenta una struttura e dei moduli comunicativi anch’essi assai interessanti e che uniscono profondità e leggiadria, circolarità ed equilibrio, poesia e ragione. La stessa immagine dell’eroe che combatte sia con le pistole che con la sua amata e inconfondibile scimitarra si pone come emblema di questa persuasiva unione di elementi moderni (esistenzialismo, l’idealizzazione del “pirata”, la suggestione romanzesca della vendetta, l’irredentismo nazionalista ottocentesco contro gli Imperi sovranazionali) con aspetti archetipici assai antichi di tipo eroico (il paladino di un Regno perduto che può rinascere).

Ma non è solo questa connotazione a interessare. La armi tattiche del successo evocativo del racconto televisivo su Sandokan appaiono oggi desuete per la velocità e superficialità eccessiva degli attuali mass media ma si rivelano comunque armi di successo e non certo invecchiate: l’equilibrio dei valori di contesto, la gradualità del processo narrativo, la calibrata gestione del sentimento e l’importanza della comunicazione non verbale. Per quanto riguarda il primo aspetto notiamo il grande rilievo geopolitico della dialettica fra i due grandi avversari: James Brooke e Sandokan. Grazie ai poetici e profondi “quasi monologhi” che ci regala James Brooke quando parla con il colonnello William Fitzgerald appena dopo la presunta morte di Sandokan e quando elogia il ribelle malese con il comandante inglese nel bengala indiano nel sequel, emerge un'aura differente dalle apparenze; emerge cioè una certa vicinanza esistenziale fra i due nemici. Entrambi sono dei “sradicati”: Brooke è inglese ma nato in India e non sente particolare attrazione verso la patria di origine ma semplicemente subisce il fascino dell’idea di un Impero, che, così idealizzato, non pare discostarsi molto dal sogno di Sandokan di una Mompracem che sia non solo il suo regno famigliare rinato ma una patria spirituale (una Patria con la P maiuscola) e sovraetnica per tutti coloro che amano la libertà e si ribellano alle tirannie. Anche Sandokan è uno “sradicato”, una persona con un’identità ambigua e traumatizzata, un pirata, come in sostanza è pirata Brooke in rapporto a certe tattiche spregiudicate di combattimento e di pressione politica utilizzate dalla Compagnia delle Indie, tanto che Brooke non viene stimato dall’esercito regolare britannico, e in rapporto al suo anomalo ruolo di “raja bianco” di Sarawak, terra anch’essa simbolica emanante un certo fascino sia in relazione con l’Occidente, che nei confronti dell’estremo oriente.

Ecco completato un cerchio dialettico perfetto: Brooke mutua moduli orientali in una raffinata diplomazia che sembra mandarina, e Sandokan mostra capacità strategiche e tattiche di combattimento e di partnership simile ai migliori condottieri occidentali. Sia Sandokan che Brooke, possono essere riattualizzati quali leader di network internazionali protagonisti di una guerra totale in quanto asimmetrica. Entrambi sembrano aver fatto tesoro delle lezioni preziose di quel capolavoro inquietante di “filosofia della guerra” che è Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione di Qiao Liang e Wang Xiangsui, opera testuale che a sua volta grazie alla sua ambiguità ed efficacia si è trasformata in un'arma internazionale che destabilizza, mina sicurezze, genera fraintendimenti, confonde, spaventa. Armi di “distrazione di massa” per le quali ha ragione Umberto Eco quando afferma che le cose più nascoste e celate sono quelle proprio esposte in evidenza!

Questo rapporto di antagonismo morale totale fra i due Nemici che tuttavia si lascia tendere, ad allargare lo sguardo, in una circolarità dialettica sia esistenziale che geopolitica dove nessun protagonista viene mai eliminato del tutto ma al massimo contenuto nel suo ambito privilegiato, in una reciproca legittimazione, mi ricorda assai uno dei passaggi più inquietanti di 1984 di Orwell quando il sapiente pensatore parla di quelle poche potenze mondiali che si guerreggiano a distanza in modo asimmetrico e recitato (e non per questo meno effettivo) ma celano in realtà un tacito accordo sulla loro compresenza nel dominio del mondo. Dopotutto anche la recente storia ci riscontra in questo senso: ha forse mai la Guerra fredda (che spesso è stata assai termica!) impedito o ostacolato commerci e affari fra est e ovest? L’importante è che il Mito continui a vivere, per i popoli e per legittimare le dinamiche del potere; il Mito cioè dell’Impero per Brooke e i suoi alleati e stakeholder, e il Mito di Mompracem che Sandokan inventa ma in realtà si limita a slatentizzare dal bacino culturale dell’Oriente, generatori di molte “terre mitiche e sacre”.

Sembra di vedere il rapporto ambiguo e dialettico fra gli Usa e una Cuba il cui l’embargo non ha mai realmente impedito vari commerci! Reciproca legittimazione: gli Usa sono l’Impero della Libertà vs la comunista e misera Cuba e Cuba è il presidio degli utopisti, degli idealisti, e dell’“antiStoria” in quanto isola bella e ribelle. La differenza strutturale fra Sandokan e Brooke, re di due territori di confine, ibridi, instabili, è quindi meno intensa di quanto sembri e si può sintetizzare e ridurre a questo: il Regno indo-anglosassone di Sarawak è un Regno organizzato, gerarchizzato, con una sua rigidità e una sua programmazione di sviluppo tecnocratico, mentre il Regno di Mompracem è un Regno “fluido”, semianarchico, autogestito, che vive più nell’“invisibile” della vita e del racconto, che nel visibile delle realizzazioni e dei fatti. Il Regno dell’“Esperienza” vs il Dominio della produzione.

Se invece vogliamo assimilare i modelli archetipici di questo tipo di scontro fra i due Nemici ai modelli più antichi dell’Occidente, Atene e Sparta, allora al contrario sarà Mompracem a somigliare a Sparta nella sua semplice e povera nudità e nel continuo allenamento guerresco dei suoi abitanti che anche nelle danze ricordano il duello, mentre la ricchezza commerciale della grande Sarawak e la possibilità di accedere alla cultura anglosassone la faranno assimilare più facilmente all’opulenta, cinica e internazionale Atene. Detto in parole rozze oggi geopoliticamente Sandokan rischierebbe di passare per “cattivo” nel suo nazionalismo (o meglio nel suo “Internazionalismo delle piccole etnie e patrie”) rispetto al buonismo retorico dell’Internazionalismo organizzato, tecnocratico, progressivo, di cui Brooke è portavoce ed espressione e che fa la storia con la S maiuscola.

Brooke e Sandokan visti in questi scenari mentali quasi evaporano nell’intensità e vastità dei loro modelli culturali riemergendo quindi non più quali esponenti decisionisti di una guerra personale e romantica ma quali epifenomeni contingenti ed effimeri di una guerra sistematica e totale che si chiama “storia”, che si chiama “vita”, come le maschere della tragedia greca, come la logica che giustifica i delitti del protagonista nel bellissimo drammatico discorso di epilogo in Match Point di Woody Allen. Se scendiamo ad analizzare le strutture narrative del grande sceneggiato, come accennato, si rivela affascinante la tecnica, allora quasi naturale, realistica, e oggi al contrario apparentemente innaturale, artificiale, dello svelare con controllata gradualità la comunicazione emotiva e la gestione del sentimento, anche utilizzando con sapiente forza la comunicazione non verbale. Possiamo ricordare quattro episodi/dettagli di grande suggestione e impatto: Marianna che suona il pianoforte mentre Sandokan è malato (la si sente solo e non la si vede), come per stargli vicino affettivamente quando non lo guarda o cura direttamente (e il senso di quel suonare lo svelerà Marianna direttamente a Sandokan solo nella puntata successiva a quella in cui suona); il gioco silente di sguardi fra l’eroe a cavallo e Marianna che dura ben due minuti, Marianna che scende per la festa del suo diciottesimo compleanno vestita alla malese inscenando quindi uno scandalo britannico (e sorprendente anche per il contesto implicito dello sceneggiato), e la bellissima scena in cui Sandokan si arrende a Brooke per evitare che Marianna rischi la vita in un conflitto navale, vista la netta superiorità militare inglese.

Sono tutti casi in cui prevale la comunicazione non verbale e in cui è la “gestualità della visione” e del contesto a predominare e a dosare abilmente il progredire, sotto e sopratraccia, del percorso emotivo e sentimentale del racconto. Nel primo caso abbiamo come una “colonna sonora” al Sandokan sofferente a letto che è già una sommessa ma decisa dichiarazione di amore che cresce fino a esplodere con il vestito malese con cui si mostra audacemente Marianna, chiaro segnale di pro-vocazione verso Sandokan. Marianna mostra un “sangue freddo”, un coraggio e una spavalderia non inferiore a quella di Sandokan nelle battaglie e nelle scelte decisive (forse complice una parte di suo sangue italiano!). Marianna segue Sandokan come mossa da un'affinità elettiva, da una attrazione alchemica. Nel secondo dettaglio abbiamo un “eroe che fugge” a cavallo, clandestinamente, poco eroicamente, come per sfuggire al fuoco che Marianna ha acceso nel suo cuore e verso il quale si sente sconfitto, vittima.

Il gioco bellissimo di sguardi, da western di Sergio Leone, che avviene presso la capanna del bramino eremita fra un Sandokan fremente che tiene a bada un cavallo scalpitante e una Marianna quasi algida e imperscrutabile, sfingea, si conclude con la sconfitta interiore dell’eroe e con la vittoria di Marianna che ha naturalmente tenuto testa al suo sguardo con non minore intensità, a fronte di un Sandokan che poco dopo ammette con se stesso di voler che questo “incendio” lo bruci del tutto. Una visione dell’innamoramento assai bellica, quasi dolorosa, quasi leopardiana, sebbene la reazione e l’esito sarà virile e positivo. Sandokan ritorna alla sua falsa identità e alla sua convalescenza come Ulisse nel ritorno a Itaca e come Ulisse vuole andare oltre le colonne d’Ercole nella Divina Commedia di Dante, per un gusto totale dell’“avventura della vita”. Un eroe igneo che viene bruciato dal fuoco d’amore indotto da una donna dall’aspetto diafano, esangue!

Nell’ultima scena citata la comunicazione non verbale diventa intensamente situazionistica. Sandokan è in primo piano, con uno sguardo assai intenso verso chi guarda e in realtà indirizzato verso la cannoniera di Brooke in veloce avvicinamento. Uno sguardo fra il fiero, il deciso e l’irato. Marianna è sul fondo, vestita in un’elegante e sensuale tunica nera, all’alba dopo la sua prima notte d’amore, ferma e silente presso la porta che scende dentro la sua/loro cabina, la cabina di Sandokan, del comandante. Sandokan parla e comanda ai suoi senza voltare il capo e senza distogliere lo sguardo e comunica a Brooke: “la tigre si arrende”. Scena sacrificale, solenne.

Finisce la puntata con il fermo immagine del volto dell’eroe e con la figura quasi fatata, allegorica, di Marianna sullo sfondo come in una comunicazione subliminale. Ancora una volta Sfinge. Pathos ed epos al culmine in un senso paradossale che solo la cultura cristiana può permettere di apprezzare fino in fondo: l’eroe che vince arrendendosi per amore. Fatto inconcepibile per un orientale. Lo sguardo e il primo piano di Sandokan ci dicono che lui resta il vincitore e il protagonista. La posizione e la postura di Marianna sul ponte della nave, come una viva polena, ci narrano però che è lei a dominare ora il cuore di Sandokan che si limita a eseguire i suoi taciti ordini. Sandokan quindi si arrende in realtà a Marianna, non a Brooke. Non c’è soluzione di continuità fra il guerriero e l’“uomo che ama”. Le Muse sono gelose. Voglio tutto. Sandokan si è innamorato di un fantasma, di un’icona che si afferma nel delirio della febbre, mentre sta in bilico fra vita e morte, fra veglia e sonno. Quale migliore immagine dell’innamoramento?

Gli accade quel che accade nel mito greco con Nefele e con il “fantasma” di Elena secondo Stesicoro. Qui viene letteralizzata l’allegoria, la metafora (operazione frequente nel Pinocchio di Collodi). Si passa dalla febbre del corpo alla febbre dell’amore. Guarito nel corpo continua ad ardere l’invisibile fuoco acceso nel cuore che reclama la sua guarigione nella completa consumazione. Sotto il velo di un innocuo perbenismo, di una compassata compostezza agisce in Marianna la malìa ninfica di un'Alcina, di una Morgana, di una Medea. Cattura il cuore del suo uomo con musica e umide pezzuole, lo costringe a dichiararsi, a esporsi, e rifiuta l’anello, segno di vincolo e costrizione, non a caso rifiutato nei riti magici e nei sacrifici antichi.

Marianna accetta invece il duplice sacrificio di Sandokan/Tigre durante il torneo di caccia. Sandokan offrendole la tigre quale pegno di amore compie un duplice rito di iniziatica morte e rinascita: mette sotto controllo il fuoco selvaggio della passione riconquistando una forma di autodominio e di coerenza eroica (non fuggirà più, non tornerà più indietro) e offre se stesso insieme alla tigre al quel “ghiaccio ardente” di nome Marianna (lo stesso nome, Marianna, cioè Miriam, con cui il Bianconiglio chiamerà Alice) la cui fascinazione per Sandokan non è meno pericolosa di una tigre.

Altre citazioni meriterebbe lo sceneggiato per la sua sapienza compositiva, comunicativa e testuale, tanto da farne un'opera autonoma rispetto ai romanzi di Salgari, ma mi limito a due soli ulteriori riferimenti precisi: il ruolo di Tremal Naik e il testo della sigla musicale. L’eroe tribale, il “buon selvaggio”, sfuggente come il mercurio degli alchimisti, simile a una figura di cacciatore/asceta più che a quella di un guerriero, conservatore e reazionario per natura, quanto Brooke è progressista. Salgari quando descrive Tremal Naik non ne nasconde un dettaglio essenziale: “fronte alta, screziata di linee di cenere, segno particolare dei settari di Siva”. Questo significa che spiritualmente non c’è molta differenza fra l’eroe selvaggio e i temibili thugs adoratori di Kalì e sacrificatori umani. La differenza fra Tremal Nik e i thugs è sottile come la differenza fra Sandokan e James Brooke e sta tutta nella distinzione fra organizzazione e non organizzazione. Il potere di Brooke e dei thugs è organizzato, quello di Sandokan e di Tremal Naik non è organizzato. Sandokan è un Brooke anarchico e Tremal Naik è un thugs pacifico e solitario, autarchico, che si muove, secondo Salgari, in compagnia di una tigre, emblema shivaico, come Sandokan si muove accompagnato dalla bandiera vermiglia con l’immagine totemica della tigre.

Dopotutto la stessa Marianna non è un insospettabile avatar della dea Kalì? Non sparge molto sangue per lei Sandokan come costretto da un fuoco più forte della sua volontà? Decine di soldati vengono uccisi rapidamente nei due “rapimenti” che vedono Marianna la vera protagonista e la Tigre della Malesia semplice succube, lui stesso il vero “rapito”. Marianna non è affascinata e attratta dal colore più scuro della pelle di Sandokan, dal carattere più “sanguigno” dei popoli malesi? Il tributo di sangue versato per Marianna non è come un sacrificio umano che serve a liberare la Dea dalle costrizioni borghesi per donarle un Regno, per rivelarla qual è, cioè Regina sacra, fatale? La tigre durante il torneo di caccia non sta andando verso Marianna quando il nostro eroe la intercetta e la uccide, come sostituendosi all’animale in un perfetto transfert psicosacrificale?

Forse l’eroe uccidendo la tigre voleva evitare che la sua forza totemica si indebolisse? Voleva evitare che Marianna capisse che la tigre non voleva divorarla ma omaggiarla? Il sangue versato e fatto versare dall’eroe per restare l’unico che può possedere Marianna non sembra spaventare più di tanto la fatata/fatale fanciulla e nel “non detto” archetipico emerge come per evocazione la strage dei Proci compiuta da Ulisse quale ultima fra le molte prove mortali che l’eroe greco, come Sandokan, ha dovuto subire per poter essere degno di unirsi e di accompagnarsi alla sacra Regina/Ninfa Penelope/Elena/Marianna.

La fanciulla inglese involontariamente causa la perdita di Mompracem, come Elena di Sparta causò la distruzione di Troia, nonché l’esilio dell’eroe nel Bengala, terra di celebri tigri. La circolarità dell’anello rifiutato torna nel segno dell’“armonica” che compare all’inizio, preda di guerra, nella mitica grotta di Sandokan. L’eroe non sa suonarla ed era destinata a Marianna la quale la suonerà proprio a Mompracem dentro quella misteriosa e ninfica grotta. Questo segno è tipico delle Muse/Ninfe che suonano nelle loro grotte, come la pleiade Maia e come le ninfe dell’antro di Itaca dell’Odissea, e induce lo strano pensiero che tutte le vicende siano accadute per far ricongiungere Marianna alla sua armonica che ne completa l’aura come l’arpa con Davide, estensioni animiche. Tremal Naik riconosce Sandokan dal suo affrontare la tigre. Tornando al tema del rapporto di simbiosi fra i due Nemici non possiamo non notare come l’ammirazione di Brooke per Sandokan è sincera e la manifesti più volte. Sembra capirlo più degli altri e non festeggia quando crede che sia morto, sepolto dagli inglesi in mare. Anzi si irrita per le feste notturne a cui assiste paragonando chi vi partecipa alle iene. Addirittura dichiara che una parte di se stesso muore con la morte di Sandokan nonché dichiara a Marianna sulla nave inglese, appena dopo la morte apparente di Sandokan che “se avessi potuto uccidere il mito di Sandokan senza uccidere Sandokan lo avrei fatto”.

Quando fu ucciso Bin Laden, ma non si vide più di tanto in Tv il suo corpo, mi venne in mente questa scena del telefilm con un Brooke politicamente e razionalmente ineccepibile. Temevo infatti che senza la visione adeguata del corpo morto di Bin Laden ne sopravvivesse il mito, che invece, oggi sembra già obsoleto grazie alla potenza di oblio dei mass media (o è così solo per noi occidentali?) Un nemico curioso questo Brooke, che sembra possedere una delicatezza e una sensibilità interiore verso il Nemico che Sandokan non possiede o non può permettersi di coltivare. Brooke stesso sintetizzerà questa differenza fra lui e Sandokan: l’eroe malese è l’uomo delle certezze mentre Brooke è l’uomo delle trattative, del compromesso, degli affari, del ragionamento, della perplessità, del distacco. Per questo è facile simpatizzare emotivamente per Sandokan come è facile detestare il razionale e apparentemente cinico Brooke.

In realtà il raja bianco di Sarawak non è meno sentimentale, romantico e idealista di Sandokan, tanto che si inventa questo “sultanato fantoccio”, che rappresenta comunque una dimensione lirica e simbolico/estetica del potere. Brooke resiste quasi all’Inghilterra nel difendere il Mito dell’Impero e l’Impero quale Mito dalla concezione laicizzata e burocratica del Potere veicolata dal Governo britannico. Tutto ciò viene dimostrato nella diffidenza e nella disistima che il colonnello William Fitzgerald manifesta verso Brooke, il quale sembra quasi voler rallentare e attenuare le smanie normalizzatrici di Londra e dello zelante e impeccabile colonnello verso la Compagnia delle Indie e verso il loro stesso loro anomalo servitore. Rispetto alla voce ufficiale di Londra, scandalizzata ad esempio dall’uso dei dayaki come boia, il raja di Sarawak appare condividere l’ethos semiselvaggio di Sandokan e non a caso entrambi condividono anche le alleanze con gli stessi dayaki, crudeli tagliatori di teste (e cannibali fino a pochi decenni fa). Brooke con i suoi sistemi semiorientali che uniscono l’astuzia mandarina, la saggezza indiana e la disinvolta diplomazia britannica si è ritagliato creativamente, da self made man, un suo spazio di relativa libertà all’interno dell’Impero di Londra. Se Sandokan è la marea, Brooke resiste chiuso nel suo sogno autarchico.

Fitzgerald dall’altro canto è anche un cavaliere poetico, superato e obsoleto nonostante la sua giovinezza, che sogna una guerra da operetta o da manuale con eserciti regolari e di pari livello. Non capisce la guerra totale e asimmetrica di Brooke e di Sandokan e finirà ingloriosamente scannato dalla scimitarra dell’eroe malese, di fronte a una esterefatta ma assai fatalista Marianna. La crudeltà di Sandokan contro Fitzgerald stupisce. Ma la capiamo se riflettiamo che il colonnello è il vero antagonista di Sandokan perché contende il cuore di Marianna ed è figura affettiva, quindi temibile concorrente dell’eroe malese. Marianna non può amare il colonnello perché a lei troppo simile. Sembrano fratelli. Al contrario le analogie fra i due maggiori nemici non sono finite.

Tanto appassionata è la Tigre della Malesia nel combattere contro gli inglesi quanto Brooke è totalmente dedito alla causa dell’Impero, senza interporre interessi personali. Lo dimostra il suo perfetto ragionamento sulla necessità di impiccare pubblicamente il corpo morto di Sandokan per distruggerne il mito agli occhi delle popolazioni malesi e indiane. Solo un appassionato e sincero servitore dell’Impero può pensare in questo modo. Da questo punto di vista Brooke è più “morbido” di Sandokan la cui crudeltà contro il Nemico è inflessibile. Un leggero cedimento sembra averlo quando cattura Brooke dopo aver rapito per la seconda volta Marianna. Qui Sandokan improvvisa una sorta di “Tribunale del popolo” in modo che l’immediata esecuzione di Brooke, che non tenta neppure di difendersi, sia condivisa anche dagli altri capi guerriglieri.

Qui abbiamo un Sandokan più “politico” che può ricordare Che Guevara o i capi partigiani italiani della seconda guerra mondiale. Sandokan vuole che la morte di Brooke non sia vista come effetto di una sua vendetta o rancore personale ma sia il frutto di una scelta politica collettiva, popolare, unanime. Non si sente sicuro? Ambisce a una legittimazione superiore? E in questo contesto Brooke prova un tentativo estremo per contagiare la mente di Sandokan con la sua mentalità dialettica che rappresenta un concentrato corrosivo di liberalismo filosofico. Ma l’eroe malese non cede: per lui non esiste alcuna consapevolezza del rapporto dialettico con il Nemico, in cui pure è strutturalmente e storicamente avvolto.

Il pensiero di Sandokan sembra rozzo rispetto alle raffinatezze relativisite e manichee della filosofia di Brooke ma in realtà ha radici profonde nella sua concezione oggettivista e ontologica del bene. Ricorda il pensiero di sant’Agostino nel ritenere il bene indipendente rispetto al male, che è pure “carenza d’Essere”. A Sandokan non mancherà il Nemico una volta giustiziato. La sua vitalità si espanderà ancora più libera e vitale senza il Nemico. E’ a Brooke che mancherà Sandokan una volta che lo avrà fatto uccidere. Questa è la forza di Sandokan: l’inconsapevolezza della propria debolezza storica. Brooke è un eroe politico, dialettico, quindi nel breve periodo più debole, meno resistente e meno affascinante, mentre Sandokan è l’eroe del sogno, della passione, quindi deve respingere qualsiasi contaminazione con gli aspetti mentali, calcolatori e programmatori dell’esistenza.

Ma nel lungo periodo Sandokan è destinato alla sconfitta personale. Il Mito dell’Impero liberale ha bisogno di sacrifici umani di popoli perché è Impero di governo, mentre il Mito dell’eroe e del suo Regno ideale ha bisogno del sacrificio dell’eroe stesso, perché è Impero onirico. Entrambi mirano alla distruzione totale del Nemico anche se sanno che mai ci riusciranno. Brooke sa che la forza/debolezza di Sandokan è la “non integrazione” e quindi non riuscirà mai ad “assorbirlo” e viceversa Sandokan sa che Brooke non può fermarsi nella sua avanzata, anche volesse, perché serve l’Impero e ogni Impero è universale e implacabile contro chi non ne accetta l’esistenza. In questo ragionamento tutto torna.

Tornano le riflessioni di Cacciari sullo scenario totalizzante del Liberalismo e torna lo schema di Matrix con una Zion già prevista che si restringe e ri-espande ciclicamente. Entrambi i Nemici regnano, ma per un tempo effimero. Sandokan sarà travolto dal suo stesso Mito che alimenta e Brooke sarà travolto dal peso dell’Impero che serve e che, come Saturno, un giorno divorerà anche i suoi migliori servitori. Entrambi sono di passaggio: altri Sandokan nasceranno e altri Brooke verranno allevati dal/nell’Impero. I due Nemici possono anche ricondursi all’alternanza e all’incontro/scontro fra Tecnica e Natura. La bella sigla del telefilm ci evoca un eroe che sintetizza le forze della Natura: è come il sole, il tuono, il vento, l’albero, la marea. Il suo ritmo è come quello del sangue. E’ questo che affascina Marianna in Sandokan. E’ un eroe igneo. Se Brooke domina i mari e i suoi commerci Sandokan è la rivincita di tutti gli elementi naturali contro la tecnocrazia e l’omologazione. L’eroe malese segue un ritmo naturale, ciclico. Brooke invece segue la linea progressiva della Modernità e dei suoi miti di Progresso.

Il “Regno di Mompracem” resta però una creazione ideale di Sandokan che deriva tutta da Marianna la quale riproduce in salsa esotica il classico ruolo borghese dell’“angelo del focolare” riservato alla donna. A Mompracem Marianna cura e insegna. Sembra la Fata turchina presso l'Isola delle api operose in Pinocchio o Biancaneve per i sette nani bisognosi di una figura materna e femminile di riferimento. E’ Marianna che trasforma un covo di pirati in un Regno ideale emblematico, senza confini, dove l’insularità viene assorbita in una dimensione simbolica, edenica. Il Regno di Mompracem quindi appare contaminato di occidentalità tanto quanto lo è di orientalità il sultanato di Sarawak. Brooke è un perfetto raja indiano: raffinato, elegante, colto, intelligente, astuto e imperscrutabile. Brooke sembra un Sandokan anziano che non ha subito traumi famigliari né giovanili perdite di ruolo e di potere. L’unica differenza fra i due è una differenza genetica di contesto educativo e politico: essere nato dentro l’Impero o fuori dell’Impero.

Brooke avrebbe voluto essere Sandokan o vorrebbe avere un Sandokan al suo servizio. Sandokan dopo la sconfitta e l’occupazione di Mompracem intelligentemente alza il livello del conflitto e lo muta moltiplicandolo ed esportandolo a macchia di leopardo in due sensi: traslandolo nel Bengala angloindiano, portandolo nel folto della jungla e in zone di confine, e allargandolo associando alla propria battaglia i selvaggi dajaki, cacciatori di teste, figli di quelle foreste buie di cui emblema buonista idealizzato, quasi junghiano puer aeternus è Tremal Naik. Lo stesso Yanez seguirà questa abile strategia di occultamento/penetrazione ma per via più dolce, tramite il suo matrimonio con una regina di un piccolo regno.

Viene omesso ovviamente che i dayaki erano anche cannibali e abbiamo un Sandokan che fugge nell’intrico delle foreste come per rimarginare le proprie ferite interiori e per ricaricare le proprie energie. Tremal Naik è una versione aggiornata del “buon selvaggio” di Rosseau. Figura ambientalista, in realtà pacifica e conservatrice, più simile a un cacciatore/asceta che a un guerriero, viene convinto da Sandokan a scendere in campo contro gli inglesi da un ragionamento squisitamente geopolitico "per quanto tempo la tua jungla terrò lontana la penetrazione occidentale?".

La battaglia del buon selvaggio è molto diversa da quella dell’eroe malese anche se si incontrano tatticamente e temporaneamente: il primo combatte per l’integrità della sua jungla, il secondo per ricostruire, o meglio per fondare ex novo, un regno mitizzante. Il presupposto di Sandokan è romantico e nazionalista, antropocentrico, quello di Tremal Naik è tribale e anarchico, cosmocentrico. Li lega la “Tigre”, cioè la dimensione ancestrale e istintiva della vita. La guerra di Sandokan è dichiarata, quella di Tremal Naik è implicita. Entrambe sono forme di guerriglia, di guerra asimmetrica totale, continua. Sandokan combatte perché “ama”, per un ideale, Tremal Naik combatte per sopravvivere come specie umana, come fenotipo etnico, come biodiversità rispetto all’omologazione liberal-imperiale, che tutto assorbe nel proprio sistema così fluido da garantire anche spazi di libertà “condizionata”.

La battaglia di Tremal Naik è il primo caso di guerra “preventiva”. Lui poi non ama gli uomini come confessa all’eroe malese quindi non combatte in senso redentivo ma puramente conservativo del proprio ambiente. Non combatte per un obiettivo di libertà, ma solo per difendere il suo habitat vitale nella sua purezza anarchica. Entrambi sanno che il Nemico non sarà mai sconfitto ma deve essere “arginato” perché è un Nemico che, come il Nulla nella Storia Infinita di M.Ende, non si ferma, è onnivoro, assorbe tutto come un infinito vorace blob. In questo abbiamo una consonanza fra Tremal Naik, Sandokan, Rhett Buttler e Leonida: sono eroi che sanno che saranno sconfitti, ma pure sanno che il loro contributo continuerà a operare come un agente catalizzante, biochimico, come un profumo persistente.

Gli eroi e i Nemici della Modernitas sono tutti postdarwiniani nel loro continuo e organico adattamento rispetto a un unico processo vitale olistico. I Nemici si condizionano reciprocamente come nel rapporto fra la lama della scure e gli intagli nel tronco rispetto al prossimo colpo del boscaiolo (Questa metafora del boscaiolo me la insegnò il mio luminoso professore di filosofia del diritto: Amedeo Giorgio Conte dell’Università di Pavia, che considero un nuovo Wittgenstein). C’è una componente nichilista nel loro eroismo, una componente di origine romantica ma già post-moderna. E’ la stessa cupio dissolvi che la Tigre della Malesia confessa quando dichiara che non fuggirà da Labuan perché vuole che l’incendio che Marianna gli ha posto nel cuore lo bruci del tutto. Il presupposto archetipico della bandiera di Mompracem è un presupposto olistico che rinvia a un'idea di totalità selvaggia, di integralità incorrotta.

La “Tigre” della Malesia non è una vera tigre. Non è solo ferocia e forza. Inizialmente non capivo molto la bellezza di questa immagine, abituato com’ero alla nobiltà del Leone, che preferivo. Poi ho capito: la Tigre di Mompracem, la Tigre della Malesia libera è la “Pantera”, la pan theros ancestrale da cui deriva anche il “leopardo” dei Plantageneti, lo stemma della Stiria, il drago di Merlino e dell’Imperatore Sigismondo, il gallo/serpente dell’alchimia, i mantelli dei sacerdoti egiziani e dei cultori di Dioniso; l’Animale Totale, cosmico, le cui strisce sono il sistema binario, le onde della luce, il fondo universale di microonde, i superconduttori cuprati, le scie brillanti di Encelado, il glitter delle aurore borerali, lo spettro elettromagnetico, le stringhe quantistiche.

Dopotutto l’ideale di Sandokan non è solo un ideale di libertà mitizzata e mitizzante ma pure presuppone un'idea di unità e di purezza, come pure accade per l’ideale di Brooke. Una purezza e un'unità “naturalistica” non meno utopistica della purezza e unità “imperiale” del raja bianco. Tutto questo ci dimostra la ricchezza culturale e narrativa profonda di questi romanzi e dell’ottimo telefilm che li ha sintetizzati mirabilmente. E il Mito richiama sempre altro Mito. Non so perché ma quando nella scena finale del sequel del 1977 Sandokan grida dalla collina di una Mompracem riconquistata contro un Brooke che fugge vile e vergognoso sulla nave da guerra inglese mi viene in mente, come in un'associazione istintiva di immagini ancestrali, la scena, altra, di un Ulisse che fugge dall’isola dei Ciclopi mentre Polifemo, cieco, gli grida contro e gli lancia furente una grande masso.