Questo articolo è frutto dello sconcerto per gli innumerevoli fenomeni di violenza che quotidianamente vediamo ripetersi e che la cronaca documenta con dovizia di particolari che talvolta sconfina nel sadismo.

Questo vuole essere un messaggio da parte di chi, come me, da tanti anni lavora con le persone in difficoltà, per ristabilire un equilibrio là dove il disagio psichico non rappresenta null’altro se non il segnale di uno scompenso psico-fisico.

La comunità scientifica si è già espressa in maniera chiara: il vissuto traumatico è spesso alla base di comportamenti di aggressività e di violenze, oltre che di patologie svariate. Il lavoro sul trauma – come la scuola EMDR insegna in tutto il mondo – è ad oggi una soluzione estremamente efficace non soltanto per il trattamento e il superamento di un disturbo da stress post-traumatico, ma anche per evitarne le conseguenze, quindi, anche gli agiti.

La comunità dei clinici deve intervenire, rispetto al dilagare di reazioni xenofobe o marcatamente razziste, rispetto alle prese di posizione chiuse, ottuse in senso letterale, cioè che mancano di penetrazione nei problemi, bloccate a qualsiasi ragionamento.

I clinici devono dire la loro anche e soprattutto di fronte alle pseudo-soluzioni, alle barriere, ai confini, ai contro-attacchi incontrollati da parte di chi si lascia trascinare da interpretazioni e soluzioni parziali, troppo semplici per poter affrontare un problema complesso, soluzioni francamente limitate.

Anche se sono una professionista che lavora in campo clinico, vorrei uscire dallo studio e trasmettere all’esterno, anche a chi non è psicologo, la situazione clinica che oggi è legata ai fenomeni delle migrazioni di massa.

Come prima cosa, proviamo a immaginare – perché non lo possiamo sapere con esattezza, ma soltanto immaginare – che cosa può provare una persona che attraversa territori, povertà, guerre e paesi devastati, drammi di ogni tipo, che viaggia su barconi dove vede con i propri occhi morire altre persone, anche i propri figli, mentre lui/lei alla fine “si salva” e arriva a terra. In un posto che non conosce, con una lingua che non capisce, senza i propri cari, magari persi in mare.

La mente rimane sconvolta - in gergo si parla di trauma ripetuto e con la T maiuscola – e quello che si vive è un continuo stress legato alla gestione delle novità che si va a sommare agli effetti dei traumi: disturbi del sonno, flashback, cioè ricordi, visioni improvvise dei momenti peggiori, che ricompaiono anche quando si vorrebbero mettere a tacere, invece riappaiono come fotografie stampate davanti agli occhi. Le fotografie del momento peggiore, così, davanti agli occhi, in continuazione.

E questi sono soltanto alcuni degli effetti di traumi così devastanti non elaborati.

Davanti a una situazione del genere, che rappresenta un dramma collettivo, un dramma che nasce dalle enormi disparità tra i popoli, che significato volete che abbia la costruzione di muri, di barriere, di veti? Che valore può avere un atteggiamento di odio verso lo straniero? Che effetto ulteriore, peggiorativo ovviamente, può determinare la paura, la chiusura, l’atteggiarsi a ricci davanti alla potenza di un qualcosa che non viene gestito?

Ma soprattutto, che valore può avere qualunque decisione politica o sociale che non tenga conto della necessità di un intervento clinico a tappeto, a scopo preventivo, cioè per evitare che gli effetti devastanti del trauma, non gestiti, portino a uno scoppio di violenza all’esterno? Una violenza incontrollata, totalmente irrazionale se non se ne comprende la ragione.

Che cosa si fa e dove si pensa di andare se non si interviene sulla causa?