Saranno interamente dedicati alle donne gli spettacoli che a partire dal prossimo 9 maggio verranno allestiti in occasione del 55° Festival della Drammaturgia Antica, e parleranno di guerra. Nessuna voce si alzerà, tuttavia, a magnificare le prodezze degli eroi o a celebrarne la gloria immortale, nessun canto si leverà a consacrare il mito di una “bella morte” inseguita come un premio ambito sul campo di battaglia.

Le innumerevoli figure femminili che di volta in volta calcheranno la scena del meraviglioso teatro siracusano si ergeranno piuttosto a gridare la propria totale e indiscriminata condanna di ogni conflitto, nel tentativo di rivelarne il vero volto e di denunciarne l'indicibile abominio, perché a tutte loro, soggetti non-politici per antonomasia, esclusi da ogni diritto e da ogni partecipazione, i grandi tragediografi del passato avevano riservato il compito di parlare di polemos in un modo nel quale agli uomini del potere mai sarebbe stato concesso di parlare senza il rischio di perdere ogni credibilità.

Era stato Euripide, più degli altri, a cogliere l'urgenza di una profonda riflessione intorno a questi temi. Sull'onda delle ostilità che ormai da quindici anni opponevano Ateniesi e Spartani stringendoli nella morsa dell'instabilità e delle privazioni, egli si era dedicato alla composizione di una serie di drammi tutti variamente incentrati sulla materia troiana, perché fossero un'occasione di profonda e sistematica revisione del passato e insieme anche di coraggiosa e lucida messa in discussione del presente; la spedizione militare più antica e rinomata di tutte, quella che non aveva mai smesso di nutrire di sé ogni immaginario e ogni mitologia, quella che era stata eletta ad archetipo dello scontro epocale tra Greci e Barbari, che per molto tempo aveva dato risposta a precisi bisogni identitari ed era stata invocata a sostegno di puntuali strategie politiche, si trasformava nei versi dell'originale drammaturgo nel più grande inganno mai concepito da mente umana e come nessun altro restituiva orrore e disillusione.

A inaugurare il Festival sarà così l'Elena che Euripide presentò alle Grandi Dionisie del 412 a.C., in un clima di profonda sfiducia per il disastroso esito della spedizione ateniese in Sicilia da poco conclusasi. Un'opera indubbiamente stravagante che la critica stenta persino a far rientrare nel genere della “tragedia”, costruita com'è intorno a un sapiente gioco di equivoci e di riconoscimenti, caratterizzata soprattutto dalla presenza del lieto fine garantito dalla comparsa della divinità quale deus ex machina; nondimeno, un'opera di grande impatto, nella quale si racconta come la vera Elena non fosse mai giunta nella città di Troia al seguito di Paride, ma come fosse stata trasferita in Egitto e lì preservata pura e casta, fino al sopraggiungere dello stesso Menelao, naufrago con i propri compagni sette anni dopo la conquista di Ilio.

Una vicenda sconvolgente, capace di tenere il pubblico col fiato sospeso tra verità e finzione, tra realtà e apparenza; un testo che con pungente acutezza passava in rassegna le violenze pregresse di un passato criminoso smascherandone ogni retorica (cos'altro era stata la guerra di Troia se non un folle e inutile gioco scatenato a difesa di un eidolon evanescente come l'aria, che la dea Era aveva subdolamente affiancato allo sprovveduto Paride?); che metteva sotto accusa senza possibilità di appello alcuno le menzogne di cui si era nutrita l'ideologia della superiorità genericamente ellenica prima, specificamente ateniese poi (in cosa la condotta di Elena e Menelao - che, una volta ricongiuntisi, non avevano esitato a massacrare senza pietà quanti ostacolavano la loro partenza alla volta dell'Ellade - poteva dirsi realmente differente da quella degli altri popoli al di sopra dei quali i Greci si erano sempre vantati di essersi innalzati quali baluardi della ragione e del logos?); che coglieva nel moltiplicarsi degli scandali contemporanei l'inarrestabile perpetuarsi di ciò che da quel passato remotissimo e leggendario era stato pericolosamente legittimato (si potevano immaginare colpe più imperdonabili di quelle di quanti insistevano nel nascondere i beceri interessi di parte e le riprovevoli logiche di potere dietro la maschera di un'ineluttabile necessità?).

Storicamente rappresentata pochissimi anni prima dell'Elena (in quel 415 a.C. che aveva assistito attonito alla violenta repressione perpetrata da un'irriconoscibile polis ai danni degli abitanti dell'isola di Melo e che aveva accolto incredulo la notizia della ripresa delle ostilità sul fronte siciliano), le Troiane rimangono, invece, la tragedia cui Euripide aveva conferito l'impronta più corale. Costantemente accompagnata dagli strazianti lamenti della regina Ecuba, una teoria di principesse ormai ridotte in schiavitù attende di conoscere il proprio destino: ciascuna verrà assegnata come parte del bottino a un eroe greco e con lui sarà costretta a lasciare ciò che resta della propria terra e della propria casa. Eppure, questa parata di madri e figlie, di spose e sorelle sconvolte dal dolore, inermi, e pur tuttavia capaci di conservare contegno e dignità, simbolo di tutti i vinti e i perdenti della storia, non esaurisce il male che trabocca da questo capolavoro; più tremenda ancora appare la china lungo la quale precipitano gli uomini, i combattenti, quei vincitori ai quali il dio Ares ha sconvolto il cuore e ha accecato la mente, al punto da spingerli a precipitare dalle mura della rocca il piccolo Astianatte, figlio del defunto Ettore, crudelmente strappato dalle braccia della propria madre.

Un'accusa precisa che - al di là del dramma familiare che interveniva a sconvolgere il regolare succedersi delle generazioni, al di là delle rivendicazioni del sangue e della co-appartenenza di cui le prigioniere si facevano portatrici - il poeta rivolgeva all'inarrestabile perdita di innocenza di cui i freddi meccanismi politici continuavano inesorabilmente a macchiarsi; un ritratto impietoso delle degenerazioni e dell'abbrutimento cui gli eventi bellici di ogni epoca finiscono inevitabilmente col dare origine.

A chiudere anche questa rassegna (come era stato per le due edizioni precedenti) un testo di Aristofane, la Lisistrata, proposta in occasione delle Lenee del 411 a.C., solo poche settimane prima che un Colpo di Stato oligarchico inverasse l'intuizione quasi profetica che aveva ispirato il commediografo nella stesura di questo suo recente lavoro. Sotto la guida di “Colei che scioglie gli eserciti” (tale è il significato del nome dell'intraprendente eroina dalla quale prende il titolo la commedia), le donne dell'Attica e del Peloponneso, infatti, asserragliatesi all'interno dell'Acropoli, danno inizio a un insolito sciopero del sesso, costringendo gli uomini a stipulare la tanto agognata pace quale indispensabile condizione per poter tornare a godere della compagnia delle proprie spose. Un'utopia, certo, orchestrata e promossa da chi per definizione si era trovato sempre escluso da qualunque dimensione pubblica, una società totalmente sconvolta nei propri equilibri e ribaltata nei propri rapporti di forza; può, nondimeno, il bisogno che una parvenza di normalità venga al più presto ricostituita, apparire più stringente di quando viene urlato attraverso le fantasie allucinate di personaggi quanto mai alienati e grotteschi?