Eike Schmidt, direttore della Galleria degli Uffizi, a inizio d’anno ha lanciato un appello, diffuso anche su internet, per il rientro in Italia di un’opera straordinaria trafugata dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Ha affisso alle pareti della Sala dei Putti di Palazzo Pitti la riproduzione fotografica del Vaso di fiori del pittore olandese Jan van Huysum (Amsterdam 1682-1749), un olio su tela di 47 cmx 35, con l’avviso a caratteri cubitali: RUBATO – GESTOHLEN.

Il dipinto è appartenuto alle collezioni di Palazzo Pitti fino dal 1824, acquistato dal granduca Leopoldo II. Nel 1940 il quadro è trasportato precauzionalmente, per sottrarlo ai pericoli della guerra, prima nella Villa medicea di Poggio a Caiano e poi nella Villa Bossi Pucci di Montagnana di Montespertoli. Da qui è “prelevato” nel 1944 dai tedeschi del Kunstschnutz (Protezione d’arte), reparto incaricato di “proteggere” le opere d’arte dagli eventi bellici.

Il quadro vive un’avventurosa storia di viaggi e di spostamenti lascando perdere le sue tracce fino al 1991, quando si scopre che è finito in una collezione privata in Germania, come ha rilevato una recente indagine del settimanale Der Spiegel. Eike Schmidt ha affremato: “Il mio augurio per il 2019 è che questo capolavoro possa ritornare ed essere restituito al suo posto di appartenenza nella Sala dei Putti a Palazzo Pitti”. Ha successivamente dichiarato, stando a quanto riportato dal giornale on line gonews.it di Firenze: “Il Vaso di fiori si trova in ostaggio da oltre settanta anni di persone che cercano di ottenere un riscatto dall’Italia per un capolavoro che legalmente le appartiene”.

Quello del Vaso di fiori non è certo un caso isolato rispetto alle razzie effettuate dai nazisti attraverso il Kunstschnutz e l’ERR, l’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg, una speciale task force creata nel 1940 da Alfred Rosenberg col compito di saccheggiare e confiscare tutto il materiale che avesse rilevanza culturale nei paesi occupati dalle truppe tedesche. L’ERR operò in Italia, Belgio, Polonia, Grecia, Russia e Francia. Di proporzioni immense la razzia delle opere perpetrata dai nazisti in tutta Europa. Si calcolano in circa seicentomila le opere d’arte trafugate con la forza o con l’inganno fino al 1945, e mai restituite.

In un recente articolo del novembre 2018, apparso su AGI-ESTERO, Roberto Brunelli ha scritto: “La Germania conferma il suo impegno e la sua ‘disponibilità permanente’ per quello che riguarda il complesso processo della restituzione delle opere d’arte trafugate dai nazisti”. E noi tutti attendiamo fiduciosi. Ma c’è ben altro che i nazisti hanno carpito in tutta Europa e che non potrà essere restituito. Hanno sottratto la libertà, la vita e l’umanità dei milioni di di uomini, di donne e bambini, che sono stati segregati, perseguitati, imprigionati, deportati, massacrati. E con la loro inaudita, programmata e fredda crudeltà hanno stravolto la la vita e perfino minato la fede in Dio anche dei sopravvissuti.

“Milioni di persone nel vasto mondo, innamorate del giorno, del sole e della luce, non sanno affatto, non hanno alcuna idea di quanta oscurità e sventura ci abbia portato il sole. Si è trasformato in uno strumento nelle mani degli scellerati, che se ne sono serviti come di un riflettore per scoprire le tracce dei fuggiaschi”. Lo scrive Zvi Kolitz nel potentissimo e allucinante racconto Yossl Rakover si rivolge a Dio, recentemente pubblicato da Adelphi. Yossl Rakover, ebreo polacco, poco prima di finire nelle mani dei suoi aguzzini, rivolge a Dio le sue ultime parole trascritte su un foglio arrotolato e sigillato in una bottiglia, con la speranza che qualcuno potrà ritrovarla e sapere. Parole disperate che trovano l’espressione più tragica nella domanda: “Che cosa ancora, sì, che cosa ancora deve accadere, perché Tu mostri nuovamente il tuo volto al mondo?”.

Ma c’è di più tra quello che i nazisti hanno tolto per sempre. L’agghiacciante efferatezza così sistematicamente dilagante dei lager ha messo i sopravvissuti nella confessata impossibilità di trovare parole adatte ad esprimere quell’inferno. Lo scrittore Carlo De Matteis nel suo Dire l’indicibile, la memoria letteraria della Shoa, pubblicato dieci anni fa da Sellerio, ha raccolto le testimonianze di tanti sopravvissuti e la loro confessata difficoltà di trovare le parole adatte e credibili, per chi leggerà, a raccontare la Shoa e quello che accadeva in quei campi: da Primo Levi a Boris Pahor, da Edith Bruck a Zdena Berger, da Pierre Gascar a Elie Wiesel, per citarne solo alcuni. In questi scritti è tragicamente dominante, come in Zvi Kolitz, il tema atroce dell’indifferenza di Dio di fronte al massacro del suo popolo, col germe insidioso di un dubbio lancinante che assai spesso sfocia nella scomparsa della fede.

Ne La notte, Wiesel si domanda: “Perché scrivo? Forse per non impazzire. O forse, al contrario, per toccare il fondo della follia”. E c’è ne La notte il tragico racconto dell’impiccagione di un bambino in un lager. “Dietro di me – scrive Wiesel – udii un uomo domandare: ‘Dov’è dunque Dio?’ E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: ‘Dov’è? Eccolo: è appeso a quella forca”.

Le opere d’arte trafugate potranno, chissà come e quando, essere restituite. Ma non potrà mai essere restituito quanto è stato tolto a milioni di vittime, oltre che con la segregazione, la tortura e l’assassinio, con l’annientamento di ogni traccia di dignità umana, come denuncia Primo Levi in Se questo è un uomo. Sono razzie irrisarcibili, queste, il cui ricordo, tuttavia, sarà sempre custodito nella memoria di ogni essere umano. Per non dimenticare mai e per essere sempre pronti a arginare sul nascere qualunque deriva razzista.