Quando un albero viene abbattuto, si leva un grido straziante che percorre il mondo da oriente a occidente, ma nessuno lo ode.

(Talmud)

Un vecchio albero, come un vecchio uomo, è inutile, non serve a nessuno. Se si volesse farne una trave, essa si spezzerebbe sotto la prima neve e il tetto crollerebbe sulla casa e i suoi abitanti. Se si volesse farne una barca, il fasciame tratto dal vecchio tronco crivellato dai cerambici, la farebbe affondare. Se si volesse farne attrezzi si spezzerebbero ferendo le mani dei contadini. Se si volesse farne mobili, vacillerebbero e riempirebbero le masserizie della polvere dei tarli.

Un vecchio albero, come un vecchio uomo, disturba il veloce traffico della via, le sue nodose radici sollevano le pietre o l’asfalto rallentando la corsa ai carri e alle persone, i suoi rami, secchi per i troppi inverni, cadono al suolo e fanno inciampare giovani donne nervose sui loro tacchi vertiginosi o impicciano giovanotti che giocano al pallone sotto di esso. Un vecchio albero, come un vecchio uomo, se ne sta solo, isolato, ha perduto secoli fa i suoi compagni che sono caduti sotto la scure dei boscaioli o sotto le bombe di qualche guerra dimenticata ed è rimasto solo lui dell’antica foresta. Un vecchio albero, come un vecchio uomo, incanutisce e il vento frusta i bianchi rami calcinati dagli anni come scompiglia i bianchi capelli ai vecchi, dopo aver loro rubato il cappello.

Il vecchio albero, come il vecchio uomo, ne ha viste di cose passare sotto i suoi rami, amori, tradimenti, guerre combattute da soldati con elmi piumati e spade, con cappelli a tricorno e infine con elmetti e fucili, nella sua carne indurita ne porta le ferite e forse, nascosta sotto la corteccia, qualche pallottola di moschetto si consuma nei decenni come i ricordi dei nostri vecchi. Ogni piega della sua corteccia, come ogni ruga del vecchio uomo, è nata da una gioia o da un dolore vissuto nei secoli o nei decenni della sua lunga vita e ne costituisce l’inestimabile memoria che vuole essere raccontata.

In questo tempo arido che affida alle macchine il carico dei ricordi per lasciare più spazio possibile al futile brusio di individui degradati a fenomeni sociali, il vecchio albero, come il vecchio uomo, racconta in silenzio la sua epopea ma nessuno si ferma ad ascoltarla. Non so se, come alcuni sostengono, gli alberi si parlino o se riconoscano nei più vecchi di loro quella grande bellezza che scaturisce dall’ammirazione e dal rispetto. Io sono soltanto un uomo e come tale così intriso di umanità da essere opaco a me stesso e troppo coinvolto nel fisiologico decadimento della mia specie per riconoscere la “bellezza” nella vecchiaia umana ma il vecchio albero lo trovo bellissimo. A me sembra immortale, le innumerevoli tempeste mi sembrano averne rinforzato la fibra e certamente le sue cicatrici me lo fanno apparire unico, straordinario e magnifico. Lo amo e lo ammiro perché lui è come io vorrei essere.

Come scriveva Hermann Hesse dei grandi alberi “essi hanno sempre rappresentato per me i predicatori più convincenti, io li ammiro quando si ergono isolati, come grandi solitari personaggi, come Beethoven e Nietzsche, nelle loro cime sussurra l’Universo, le loro radici riposano nell’infinito, essi soltanto non vi si sperdono. Niente è più sacro, niente è più esemplare di un grande albero”.

Ebbene qualche giorno fa percorrevo una strada di campagna, una scorciatoia che dalla periferia della mia città porta a un paese dove mi reco spesso per lavoro. Percorro quella stradina per evitare il traffico delle arterie principali e anche semplicemente perché è bella, con le sue case coloniche abbandonate e i campi solcati da pigri canali che scorrono sotto l’occhio vigile degli aironi cinerini, con la dorsale appenninica sullo sfondo.

Una vecchia grande quercia a lato della strada, solcata da una cicatrice che si avvitava lungo il tronco fino alle radici, ricordo di un fulmine durante una lontana tempesta, mi salutava sempre dietro una curva dopo un ponticello. Quel giorno alcuni uomini le stavano segando i rami e un'orrenda catena arrugginita andava dalla sua cima al gancio di traino di un enorme trattore. La scena era estremamente violenta e avrei giurato di sentire il muto grido di terrore della povera pianta straziata.

Chiesi perché la stessero abbattendo e con sguardo ebete mi venne risposto che era “marcia”. Obiettai che non era vero, che la cicatrice era vecchia e consolidata e qualche galleria di cervo volante non la avrebbe certo fatta cadere, ma mi venne risposto con rabbia che se poi fosse caduta chi li avrebbe pagati i danni? Lei? Meglio farne legna da ardere. Furioso e impotente me ne andai augurando, lo ammetto, ogni male a quei bruti.

Non più di una settimana fa, un’altra meravigliosa grande farnia che vedevo durante le mie passeggiate sui colli all’imbocco di una strada privata scompare. Al suo posto un ceppo enorme, sanissimo e senza una carie, su cui ho contato 270 anelli e su cui qualcuno, sdegnato come me, aveva posto una rosa e scritto con vernice rosso sangue: vergognatevi. Suono a una casa di fronte e chiedo se sapessero perché la grande quercia era stata abbattuta e un signore, allargando sconsolato le braccia, mi dice che le radici minacciavano gli allacciamenti di luce e acqua delle due o tre villette della via e quindi i frontisti, con il tacito consenso delle autorità preposte alla tutela del paesaggio, hanno deciso di abbatterla.

Proprio ieri, in tutto il territorio italiano, eventi atmosferici “eccezionali”, in realtà resi tali dalla disgustosa negligenza e imperizia di chi dovrebbe gestire il territorio, hanno causato la caduta di alcuni grandi alberi cittadini con perdita di vite umane. Ovviamente oggi sulle prime pagine dei quotidiani sta scritto a caratteri cubitali: ALBERI ASSASSINI! Come se fosse loro la colpa! L’incuria, il disinteresse per un patrimonio paesaggistico e artistico inestimabile, una manutenzione del verde urbano e delle aree urbanizzate allo sbando no! Quelle non hanno colpe!

I grandi vecchi alberi delle nostre città abbandonati a loro stessi, stravolti nei loro bioritmi da una illuminazione notturna demenziale e intossicati dal traffico, sono loro gli assassini. Chi come me li ama e ama quindi circondarsene sa benissimo che un albero, coltivato fuori dal suo ambiente, lontano dalle sue montagne, di cui però vogliamo ci parli, lontano dalle sue foreste, di cui però vogliamo ci racconti, può crescere e prosperare in sicurezza solo se coltivato ad arte: cioè con profonda conoscenza, con pazienza, amore e rispetto.

La millenaria cultura orientale lo insegna, la parola Bonsai vuole dire: albero coltivato ad arte in un vaso. Ma che sia alto 50 cm in una ciotola di ceramica o che sia alto 20 metri in un aiuola o in un giardino, un albero coltivato fuori dal suo contesto naturale non può essere lasciato a se stesso perché a differenza dei suoi fratelli sulle montagne o nelle foreste non ha vincoli naturali e cresce disarmonico e sproporzionato fino a che un groppo di vento non se lo porta via.

Ma i grandi vecchi alberi delle nostre città, come i nostri vecchi, sono improduttivi e inutili, il loro mantenimento costa e richiede una costanza e una pazienza che solo l’amore e il rispetto, generati da tradizione e cultura, possono nutrire. Il problema dei grandi vecchi alberi verrà probabilmente risolto da una politica asservita a un opinione pubblica meschina e becera, imbarbarita dai social e dai serial tv, in maniera sbrigativa e miope, non con la loro cura e messa in sicurezza ma con il loro abbattimento. Vergogna!