“Pinne tridimensionali. Brava. Bella idea. Genio!” Questo penso, molto sarcasticamente, mentre tento di cucire delle pinne alle orche del mio ultimo lavoro. A mano. E praticamente a ogni punto l’ago incontra la strenua resistenza della stoffa, seriamente intenzionata a non cedere il passo. Ma poi l’ago, ben invitato dal ditale, ha la meglio e la stoffa infine lascia passare la sua punta. Così. Di colpo. E l’ago allegramente trapassa quilt, pinne, applicazioni e… dito. Ouch!

Scomodo dal paradiso un altro santo e tiro via la mano, velocemente, perché la cosa peggiore per un’artista tessile è vedere una piccola macchiolina rossa allargarsi allegramente sulla stoffa. E ovviamente quando questo accade, per la ben nota Legge di Murphy, è sempre su una stoffa chiarissima, non accade mai che una goccia di sangue cada su una stoffa nera. Mi metto un cerotto e son pronta a ripartire, fino alla prossima involontaria puntura. Ché la verità è che ogni mio lavoro potrebbe esser ricondotto a me con un’analisi del Dna.

Vado avanti nel mio cucire, il lavoro che sto portando avanti si ispira ai miei sogni, come richiesto dal tema del concorso a cui lo farò partecipare… sogni di quando ero ragazzina, e poi giovane donna, piena d’aspirazioni e progetti. Non possono quindi mancare le orche. Ero solo una bambina quando vidi per la prima volta il film Free Willy e la mia immaginazione ne venne colpita così tanto che tornai a casa e dissi “Mamma, da grande voglio fare la biologa marina e studiare le orche!”. Forse pensava scherzassi. Forse credeva fosse un momentaneo capriccio infantile che sarebbe passato col tempo. Non mi disse mai di no.

Il tempo passò e anno dopo anno dovette ricredersi, già da bambina dicevo proprio sul serio. Sarebbe potuto cadere il mondo ma io sarei diventata una biologa marina e avrei studiato le orche. O quasi. Scelsi di non frequentare il liceo, bensì un istituto tecnico. Certo il liceo sarebbe stato più prestigioso, ma l’istituto tecnico a indirizzo biologico mi permise di metter da subito le mani in pasta in una moltitudine di materie scientifiche e mi consentì di capire che sì, quella era proprio la mia strada.

D’altra parte di una cosa son convinta: biologi si nasce, non si diventa. E’ proprio scritto nei geni. E accanto al gene biologico, come avrei capito più tardi, c’è il gene sartoriale. Si esce dalle scuole superiori a 18 anni, con la vita davanti e in molti casi enormi punti interrogativi sulla testa. E ora? Fortunatamente sulla mia testa i punti erano esclamativi, già avevo scelto. Avevo cercato l’università che più di tutte si adeguava ai miei grandi sogni e l’avevo trovata. L’Università Politecnica delle Marche, ad Ancona, facoltà di, indovinate un po’, Biologia Marina.

Non era grande, né vicino a casa, ma tanto fu l’appoggio della famiglia che mi iscrissi lì, vivendo per 5 anni da sola come studente fuori sede. E dato che non son mai stata una che s’accontenta, tanto dissi e tanto feci che riuscii a trovare un argomento di tesi inerente il mio interesse per i cetacei. Dovete sapere che proprio quando stavo iniziando il terzo anno, nel vicino delfinario di Rimini, una delfina, Alpha, rimase gravida. In teoria sarebbe stato troppo presto per entrare in tesi, ma il mio professore probabilmente capii che non mi sarei fermata davanti a niente, così con grande anticipo sui tempi iniziai la raccolta dati per la tesi.

Per tutta la durata della gravidanza di Alpha fu mio compito registrare le vocalizzazioni in vasca e studiare come la presenza di una delfina gravida influisse sulle modalità comunicative di tutto il branco. Fui inoltre in grado di registrare i primi versi, in gergo “click”, del piccolo delfino neonato e di seguirne l’evoluzione con la sua crescita. In poche parole, studiai come un delfino impara a “parlare”. Avevo appena compiuto 24 anni, quando mi laureai, e tutto andava secondo i piani, ero diventata una Biologa Marina.

Purtroppo non fu però possibile continuare per quella strada, la mia collaborazione col centro ricerche si interruppe e uscii dall’università coi miei bravi punti interrogativi giganti sulla testa. E ora? Un’occasione si presentò quasi subito, un master che mi avrebbe permesso di apprendere le basi della divulgazione scientifica e di ricoprire il ruolo di biologo marino nei parchi, nelle riserve naturali, a contatto con le persone, cercando di trasmettere loro l’amore e il rispetto per il mare e il senso di sacro e misterioso che lo avvolge.

Grazie alle competenze acquisite riuscii a lavorare in posti meravigliosi, dalla Grecia al Mar Rosso, e a trovare uno dei lavori che tutt’ora svolgo, come guida naturalistica in un parco ittico. Al contempo, non ancora appagata la mia sete di sapere, ecco un’altra idea balzana affacciarsi alla mia mente. “Sai che c’è?” mi son detta una mattina “perché non provare il test d’ingresso a veterinaria?”. Così, per sport.

Lo provai. E caspita, lo passai con un ottimo punteggio. Ecco aprirsi di nuovo le porte dell’università e la mia vita divenne più piena che mai.
I corsi da seguire, la nuova tesi da fare con le conseguenti ore passate, con una certa gioia e grande soddisfazione, in laboratorio, e poi fare la guida naturalistica nel parco ittico e nel Museo di Storia Naturale, e nel mentre anche sposarmi e metter su casa. Molte, forse troppe cose, ma così soddisfacenti. E poi avvenne. Quel singolo evento capace di farti cambiare prospettiva, di farti mettere tutto in discussione in 5 fatali secondi. Un incidente. Uno di quelli che fan dire “Se l’autista è viva è perché qualcuno ha guardato giù”.

Mi sono svegliata in elicottero, poi in ospedale, e quel poco che ricordo è annebbiato, frammentato. Un frontale, mi hanno detto. Con 3 auto.
Considerando questo, considerando che mi sono rotta solo qualche osso, posso dire che mi sia andata proprio di lusso. Però improvvisamente succede qualcosa, proprio a livello psicologico. Tutto cambia. E quel che pareva così importante, così essenziale prima, ora non lo è più. Le priorità cambiano e ci si rende conto che non si stava davvero vivendo la propria vita, impegnati a correre qua e là, passando da una cosa da fare all’altra.

E’ stato in questo frangente che tutto è cambiato. Bloccata a casa, impedita a uscire, men che meno a lavorare, ecco che in mio aiuto, nel tentativo di combattere la noia, venne la macchina per cucire. E il piccolo gene sartoriale a cui ho accennato prima ha iniziato ad attivarsi. Ma perché mai una biologa marina avrebbe dovuto avere in casa, accanto ai suoi 3 microscopi, una macchina per cucire? Ma è semplice, per abitudine. Consuetudine. Avendo entrambe le nonne sarte la macchina per cucire è sempre stata per me parte integrante dell’arredo di una casa, e il suo ritmico rumore è nelle mie orecchie fin da che ero piccolissima. Non ho mai vissuto in una casa senza macchina per cucire così è stato naturale, per me, comprarne una andando a vivere da sola.

Saper cucire mi aveva già aiutata in tante piccole occasioni e avevo avuto qualche piccola soddisfazione fin da ragazzina, quando ad esempio vinsi, in coppia con un mio amico, un premio per la miglior maschera carnevalesca a un concorso paesano. Ma ora, in questa situazione di confusione e fermo obbligato, la macchina venne in mio soccorso, era l’occasione giusta per cercare d’imparare una tecnica che da tempo sentivo nominare ma sulla quale non mi ero mai cimentata: il patchwork.

I primi passi nel mondo del patchwork li ho quindi mossi per curiosità e per distrarre la mente. Il problema è che ci ho preso gusto. Molto gusto. Così grazie a internet, immensa banca di ogni sapere, iniziai ad addentrarmi sempre più in questo nuovo mondo fatto di stoffe, fili, aghi e tecniche e stili. Molte più tecniche e stili di quanti avessi mai potuto immaginare. Ho scoperto che quelle coperte che noi chiamiamo “trapunte” nel mondo del patchwork si chiamano invece “quilt” e che questi possono raggiungere gradi di complessità inesplicabili. Ho scoperto che un quilt è molto più che una coperta, nel mondo del patchwork. Quilt è infatti qualsiasi manufatto composto da strati, tenuti insieme da cuciture e trapuntature funzionali e decorative. E questi possono abbandonare la funzione di copriletto per migrare su un tavolo e diventare complementi d’arredo, oppure possono arrampicarsi su un muro e divenire mirabili quadri tessili, vere opere d’arte di grande complessità e alla costruzione delle quali sottende un grande studio sia stilistico che tecnico.

Ho poi imparato che un quilt non è fatto solo di stoffe cucite insieme, ma anche di decorazioni, ricami, abbellimenti, e perfino il materiale può essere dei più inusuali. Vengono usate stoffe tinte a mano, tessuti tecnologici, ma anche pelle, plastiche, fibre in fiocchi. Un nuovo mondo si è aperto davanti ai miei occhi e ne sono stata improvvisamente rapita. Era il febbraio del 2008 e la mia vita aveva preso un’altra direzione. Ma su tutto quello che era stato non potevo certo mettere una pietra sopra, perché tutte quelle esperienze passate eran parte di me, mi avevano forgiata e portata fino a questo punto. Il mio amore per la biologia marina e i cetacei, e per la divulgazione scientifica, era sempre lì. Solo trasformato, sublimato, tradotto in un altro linguaggio. Non più il linguaggio della scienza, ma il linguaggio dell’arte e delle emozioni.

Così, se da scienziata in erba mi ero trovata a descrivere la fisiologia e il comportamento dei delfini, il mio intento divenne trasmettere l’emozione che si prova ad assistere a tale spettacolo della natura, vedere un delfino, guardarlo negli occhi e rendersi conto di essere a propria volta osservati e studiati. Il mondo naturale in generale, e marino in particolare, è quindi diventato un tema ricorrente nei miei lavori, soprattutto in quelli di stampo più artistico, i cosiddetti “art-quilt”. Ma pur amando il lato più creativo dell’arte tessile, non rinnego le sue basi tradizionali e ancor oggi, dopo anni di pratica, non disdegno di creare un copriletto trapuntato interamente a mano, la tecnica più tradizionale che esista, oppure un centro-tavola di gusto country, come detta la moda di oggi.

Certo ideare un art-quilt è ben diverso dal realizzare un modello tradizionale, i neuroni devono lavorare per ideare il progetto, accostare i colori, bilanciare la composizione, trovare il modo di veicolare il messaggio con le immagini. Poi c’è la preparazione dei materiali, perché in questi lavori spesso uso stoffe che io stessa tingo, e lo studio delle tecniche più adatte a dare profondità al lavoro e coinvolgere l’osservatore. E dopo tutto questo studio comincia la realizzazione vera e propria.

Pazienza. Ci vuole pazienza. E perizia. E perseveranza. E così eccomi qui, a pensare al mio percorso, alla mia crescita, e a pensare accidentaccio a me quando m’è venuto in mente di fare le pinne in rilievo! Solo quel rilievo potrebbe attirare l’attenzione dell’osservatore in modo discreto ma insistente, la gente si fermerà a guardare il mio lavoro e si avvicinerà, pensando di aver visto male, perché in un quilt altrimenti piatto, i dettagli in rilievo costituiscono un elemento inaspettato che incuriosisce, attira, cattura. Ed ecco allora l’osservatore entrare nel mio sogno. Ricordate? Era il tema del concorso. E son qui a cucire pinne che cattureranno i miei spettatori e li attireranno all’interno del vortice blu e viola della mia immaginazione, del mio profondo amore per il profondo.

E’ il 2009 e il mio quilt Orka Vortex vede la luce, in un caldo giorno di giugno. Subito prende il volo per il concorso, ed ecco un altro evento che mi spingerà ancor più dentro il mondo dell’arte tessile; Orka Vortex vince il secondo premio nella sua categoria, "quilt moderni". L’arte tessile diventa un chiodo fisso, quasi un’ossessione, imparare nuove tecniche e cercare di sviluppare un mio stile unico diventano la mia nuova priorità e la partecipazione ai concorsi diventa un appuntamento fisso.

E la scienza? La divulgazione? Oh, loro sono sempre con me, fanno parte di me e delle mie creazioni. Continuo a diffondere l’interesse per la biologia collaborando con un gruppo di microscopisti e divulgo l’amore per il mare e i pesci lavorando come guida naturalistica in un parco. Ittico naturalmente.

Testo di Silvia Dell'Aere