Un bianco coniglio esce sgambettando da un lucido cilindro di seta nera e la magia si compie: è l’imprevedibile e misteriosa creatività del pensiero che si sprigiona dalla testa che il cappello copre quasi a proteggere la delicata e sottile materia di cui sono fatte le idee. Non appena il cappello le lascia libere esse fuggono lontano, si fatica ad acciuffarle, a tenerle strette. I pensieri sono preziosi, meglio custodirli con cura sotto la rassicurante cupola di un bel copricapo. [1]

Quella del cappello è una vita lunga quanto quella dell’uomo che lo ha ospitato sulla propria testa; dalle origini più lontane in Egitto, in Grecia, in Asia fino all’epoca più moderna quando in Europa si diffonde la moda del cappello elegante, a partire dalla Francia e dall’Inghilterra per arrivare alla grande produzione italiana dell’Ottocento e del Novecento.

Presente in tutte le civiltà è un simbolo dalle molte valenze, culturali, sociali, individuali; influenza i codici comunicativi, rappresenta visioni del mondo, è metafora della creatività che si sprigiona dalla sede del pensiero sulla quale sta appoggiato.

Il cappello cela il capo ma sotto di lui anche il volto muta il proprio aspetto in un giuoco di ammiccamento, seduzione, provocazione che lo rende davvero strumento di magia. La forma del cappello segue la forma della testa ma al tempo stesso la trascende e parla una lingua propria capace di amplificare le relazioni comunicative. Mettersi il cappello, togliersi il cappello, cambiare cappello: gesti che si compiono sul palcoscenico quotidiano per assumere ruoli diversi, per cambiare la propria immagine e forse le proprie idee, uno spettacolo di complicità in cui uomo e cappello sono entrambi primi attori.

È una nobile arte quella della cappelleria, che conduce la sua battaglia per custodire e valorizzare la tradizione di questo complemento d’eleganza messo a dura prova dalle mode “globalizzate” e dalla mancanza di ritualità del vivere contemporaneo.

Eppure non si esagera affermando che si può scrivere una storia dell’uomo attraverso la storia dei suoi cappelli se ripensiamo al fatto che i protagonisti dei grandi avvenimenti storici arrivano a noi quasi sempre accompagnati da un copricapo che ne diventa spesso inseparabile elemento di identificazione.

Come si può disgiungere Napoleone dal suo bicorno indossato, e fu una piccola rivoluzione, con le punte laterali? Come pensare ai Giacobini senza il bonnet phrjgien, il “cappello frigio” divenuto emblema di libertà? Come non ricordare la bombetta sul capo di Chaplin o quella con la quale Churchill si presenta alla storia? Si può forse togliere a Sherlock Holmes il suo cappello quadrettato o a Bogart quello “a bandeau” portato basso sugli occhi per accrescerne il fascino tenebroso? Con un raffinato cappello è ritratto Oscar Wilde in una delle sue immagini più famose.

Quanto a me devo dire che ho un rapporto assai familiare con questo protagonista dal momento che condivido la vita con un “indossatore” di cappelli e io stessa ho un rapporto confidenziale, affettuoso con questo oggetto che intreccia la sua immagine con quella delle donne e degli uomini della mia famiglia e quindi con la mia storia.

La memoria mi restituisce sagome di nonne, zie, bisnonne ritratte con eleganti cappelli confezionati per loro dalla modista di casa. In posa accanto a loro gli uomini dal portamento altero, reso ancora più imponente da importanti feltri o finissime paglie: in viaggio a Venezia, a passeggio in centro, nello studio del fotografo, d’inverno, d’estate sulle loro teste antenate sempre si poggiava questo immancabile complemento d’eleganza. Io stessa sono stata una bambina e poi una donna con cappello. È questo destino “incrociato” che mi ha condotto ad intraprendere il viaggio per seguire le tracce di questo altolocato personaggio.

Quello di coprirsi la testa è un uso antico, anzi antichissimo se già nel Neolitico l’uomo usava larghi cappelli di paglia per ripararsi dal sole. Ne troviamo ampia testimonianza nei dipinti, nella scultura, nei mosaici nonché in monete e documenti scritti.

Inizialmente il copricapo aveva certo una funzione pratica: doveva preservare la testa negli scontri e difendere dal freddo e dalle intemperie, ma i confini tra funzione utilitaria e simbolica non sono sempre facilmente delineabili. La testa come sede dell’anima e della vita assume fin dalla preistoria potenti qualità magiche. Per questo il gesto di coprire il capo esprime innanzi tutto il bisogno di proteggere questa parte del corpo da forze ostili o anche di evidenziarla dandole rilievo e visibilità quasi a richiamare l’attenzione del divino.

Nella tradizione romana più antica qualunque sacrificio o rituale religioso doveva essere compiuto velato capite, ossia con la testa coperta e la copertura avveniva con il lembo della toga. Secondo gli Indiani d’America il cappello della grande medicina, se portato in battaglia aveva il potere di deviare frecce, lance e proiettili. Fatto di pelle di bisonte con attaccate le corna era al centro di un importante cerimoniale presso gli Cheyennes.

I sacerdoti greci e poi quelli romani durante i sacrifici si cingevano il capo con l’infula, la benda di lana bianca o rossa che ritroviamo nelle strisce pendenti della mitra dei vescovi, l’originario copricapo di re e dignitari persiani penetrato in Occidente attraverso i culti misterici. I Galli che celebravano la dea Cibele indossavano una mitra con bende ricadenti sulle spalle. Le Vestali portavano il tutulo, un copricapo di forma conica, a pan di zucchero che ritroviamo in monumenti etruschi come quello al dio Vertumno raffigurato in una statuetta conservata al Museo archeologico di Firenze.

L’apex, un berretto fatto con la pelle dell’animale sacrificato era indossato a Roma dal flamen dialis, ministro del culto di Giove. Già Erodoto conosce le tiare indossate dai sacerdoti iranici durante i sacrifici mentre molti monumenti ci hanno lasciato rappresentazioni degli alti cappelli conici portati in Mesopotamia.

Gli Ebrei di epoca biblica indossavano probabilmente dei copricapo rituali a forma di turbante o di mitra simili a quelli dei re assiri. L’uso recente di coprirsi con la chippa rimanda all’idea della presenza di Dio sul capo dell’uomo. Il turbante di origine persiana è stato per secoli copricapo caratteristico delle popolazioni islamiche e lo stesso Maometto prima della sua conversione commerciava turbanti in Siria.

Possiamo certamente affermare che in tutte le culture il copricapo fa parte di quel “codice corporeo” che, come altre forme di linguaggio, serve a lanciare messaggi, a comunicare. E’ una rappresentazione simbolica che assume significati molteplici: potere, seduzione, minaccia come nel caso degli elmi creati per incutere paura, ma anche appartenenza ad una cultura, ad un ambito sociale, ad una categoria professionale. Identifica persino una divinità come nel caso di Mercurio, il dio pellegrino legato agli spostamenti e alla velocità, che porta sulla testa un morbido copricapo a falde larghe (per i Greci petasos) munito di alette laterali.

A Roma lo schiavo liberato in occasione della cerimonia di emancipazione riceveva il pileus come segno della riacquistata dignità: un copricapo a calotta che anche gli uomini liberi indossavano durante banchetti e spettacoli quasi come uno scherzoso segno di trasgressione.

Spesso la storia non ha dato ai prodotti della civiltà e della cultura materiale lo stesso valore attribuito ad un’opera d’arte o ad una scoperta scientifica eppure ogni oggetto realizzato dall’uomo ci permette di scoprire e di leggere il mondo, e certo l’oggetto-cappello ha un ruolo di assoluto protagonista in questo viaggio di scoperta e di conoscenza.

Nella cultura del cappello si entra quando si passa dalla funzione pratica a quella estetica ed è questo che accade alla fine del 1300 quando esso diventa un oggetto di moda sul quale si sbizzarriscono le classi nobili. Nel Medioevo il suo progenitore per eccellenza è stata la cappa ma nel Rinascimento trionfa il cappello di feltro, la più antica forma di “panno” di cui la leggenda attribuisce l’invenzione all’apostolo Giacomo che l’iconografia rappresenta come un viandante che porta in testa un feltro a larghe tese su cui è applicata una conchiglia. La ritrattistica offre raffinata testimonianza dello sfarzoso abbigliamento rinascimentale.

Sui cappelli abbondano nastri, piume e fibbie mentre continuano ad essere usati morbidi velluti trapuntati d’oro per i grandi berretti imbottiti. Nel 1600 i rigidi cappelli di feltro devono fare i conti con la parrucca che costringe spesso a tenerli sottobraccio; eppure in ogni occasione non può mancare questo azzimato “cortigiano” che ben si accorda con le note leziose del minuetto. Dopo la grande bufera della Rivoluzione l’Ottocento torna a parlare di eleganza maschile di cui il cilindro diviene l’emblema. Originario della Cina, arriva attraverso la Francia, ma la sua consacrazione avviene in Inghilterra quando il signor Harrington, il più famoso cappellaio di Londra, ne confeziona il primo esemplare: è il 1805.

Nel Novecento il cappello accentua la sua funzione sociale, il suo valore simbolico, si fa segno di distinzione e persino espressione di diversa appartenenza politica. I vecchi socialisti portano cappelli tondi e flosci con tesa piccola, mentre i mazziniani indossano morbidi cappelli neri a larghe tese. Il cappello è anche una concessione alla vanità: i gentiluomini eleganti si fanno notare all’Esposizione di Torino del 1900 per le raffinate bombette color tortora bordate di raso.

È l’aprile del 1907 quando viene varata la corazzata Roma ed in quell’occasione fanno mostra di sé i cappelli estivi. La paglietta è una gloria italiana visto che l’industria della paglia è attiva in Toscana fin dal Settecento. Chiamata anche magiostrina trova la sua consacrazione artistica nei dipinti degli impressionisti francesi: Renoir e Manet ci rimandano le immagini dei signori di inizio secolo che vanno in barca sul fiume e frequentano i locali all’aperto indossando appunto quella che chiamano canotier.

Dall’America arriva fresco fresco il Panama, molto elegante, che avrà la sua passerella negli stabilimenti termali dove la moda impone che il bel mondo vada a trascorrere periodi di vacanza e di cura. Dopo la gloriosa stagione ottocentesca il cilindro è ancora insostituibile complemento dell’eleganza maschile. Nella Parigi della Belle époque, spumeggiante di champagne, dove Giovanni Boldini dipinge ritratti che fanno epoca, a Vienna capitale mitteleuropea; nelle tribune delle corse londinesi dove lo si preferisce di colore chiaro con un basso nastro scuro. Per l’ufficialità e le occasioni eleganti è lucido, di morbida seta con la fascia di raso opaco. Benjamin Guggenheim ripeteva agli amici che, come lui, si trovavano imbarcati sullo sventurato Titanic: “Indossate frac e cilindro che almeno moriremo da gentiluomini”.

Anche la bombetta continua ad avere un ruolo da protagonista e fa bella mostra di sé sulla testa di Arturo Toscanini. Gli artisti italiani diventano spesso ambasciatori del gusto nazionale. Puccini si fa fotografare in Lobbia, Enrico Caruso trionfa a New York ed a Pietroburgo dove sfoggia “vestiti eccentrici e cappelli di lusso”. D’Annunzio che a Parigi è modello di eleganza non si separa dal suo cappello in feltro rasato, non molto grande, leggermente arcuato e guarnito da un nastro impunturato. Un tocco raffinato è il bottone ricoperto di raso in tinta con il cordoncino che lo tiene fissato. Il cappello ”alla D’Annunzio” farà moda tra gli intellettuali innamorati dello stile Liberty: con la gardenia all’occhiello, i guanti di capretto, le ghette sulle scarpe splendenti e il bastone con l’impugnatura a muso di levriero.

Carducci, più sobrio e radicato all’anima nazionale, porta un morbido feltro di colore chiaro a tesa larga: è così che lo si vede a Bologna quando a piedi raggiunge l’Università dove insegna letteratura italiana. I cappelli di feltro morbidi e comodi, con nastro di seta sono i preferiti dalla Scapigliatura e dal mondo dell’arte. Il re Vittorio Emanuele nelle partite di caccia indossa un ampio feltro Fedora, un modello lanciato da Sarah Bernhardt nell’0monima commedia di Sardou rappresentata a Parigi.

Il mito della velocità che accomuna i Futuristi assesta duri colpi a bombetta e cilindro: un baschetto di pelle a cui sono fissati gli occhiali sopra la visiera parasole è il copricapo di chi vuole assaporare l’ebbrezza di una corsa in motocicletta. Giacomo Balla che, insieme a Marinetti e Boccioni dà vita al Movimento Futurista, crea il cappello poligonale. I Balletti Russi di Diaghilev inducono a nuove stravaganze e qualcuno indossa il colbacco di astrakan nero.

Finita la Prima guerra mondiale, riprende la vita di tutti i giorni ma anche quella mondana. Sull’Orient express si vedono di nuovo i lucidi cilindri. Si torna alle corse e i più giovani hanno in testa il derby. Siamo negli Anni Venti. Sotto feltri bizzarri si nasconde l’idea artistica dei Dadaisti e intanto la testa di Pirandello è inseparabilmente ricoperta da classici feltri perfetti e rigorosi come la sua scrittura. Tazio Nuvolari alla guida della nuova Alfa Romeo indossa berretto e occhiali che diventeranno corredo imprescindibile per l’automobilista.

Rodolfo Valentino lancia lo sguardo ammaliatore da sotto l’ala del suo feltro maschettato con nastro a borchie. Il 1929 segna il massimo successo del feltro ma anche l’inizio della grande crisi. La bombetta all’americana e l’Homburg emblematici copricapo dei grandi finanzier, sono testimoni del tracollo della Borsa di New York.

Un ritorno all’eleganza raffinata fortemente ispirata allo stile inglese contraddistingue la moda maschile dei primi Anni Trenta. Alle corse si va con il mezzo cilindro. Feltri chiari portati con l’ala abbassata in avanti si accompagnano con il gessato alla Gatsby. Vittorio Emanuele divenuto imperatore d’Etiopia si mostra in casco coloniale. Cominciano a farsi sentire i venti di guerra e il basco blu accompagna i volontari italiani in quella di Spagna. Sulla testa degli “arditi” il Fez è d’obbligo. Nelle occasioni ufficiali Mussolini abbandona il cilindro che chiama con sarcasmo “tubo di stufa”.

Terminata la guerra si sente un gran desiderio di risollevarsi, di cercare di nuovo eleganza, bellezza, lusso. La moda di fine Anni Quaranta riprende rapidamente la sua ascesa. Le vetrine, specie nelle grandi città, tornano a riempirsi di articoli raffinati.

Attraverso il cinema arrivano le immagini dei divi di Hollywood. Cary Grant ammalia la Bergman con il suo lucido e scurissimo feltro nelle inquietanti atmosfere del film “Notorius”. Il berretto nero e rigido con visiera militare accompagna il conturbante Marlon Brando in “Fronte del porto” mentre il tenebroso James Dean lancia i grandi cappelli con larga falda rialzata. Il romanzo di Hemingway “Per chi suona la campana” diventa un film in cui il fascinoso Gary Cooper appare con in testa un feltro di stile americano.

Verso la metà degli anni Cinquanta il cappello sembra perdere il suo posto nella vita di ogni giorno mentre continua ad avere un ruolo di primo piano tra i personaggi che si dividono gli onori della cronaca. Sulla fantasmagorica testa di Federico Fellini si appoggia quello che diventerà per eccellenza il cappello da regista, duttile e maneggevole, in tweed quadrettato o a pied-de-poule, mentre un classico feltro grigio accompagna il divo Gregory Peck nelle sue “Vacanze romane”. Con questa immagine mi piace fantasticare che il cappello, tornato ad essere strumento di fascino e di eleganza, possa di nuovo essere tolto dal capo in segno di reverenza per una signora che sappia apprezzare questo gesto di antica galanteria.

Questo scritto rende omaggio ai fratelli Manzoni, cappellai in Ravenna, che custodiscono con raffinata maestria e incrollabile fede la nobile arte della cappelleria.

A cura di Save the Words®

[1] cfr. G. Berengan, Favolosi Cappelli, Tosi Editore, Ferrara, 2007