Tra Rarotonga e Aitutaki, dove le palme sono la misura di riferimento degli edifici, la barriera corallina è una spumeggiante corona e la gente ti abbraccia affettuosa. Non ci sono semafori, ascensori né scale mobili alle Isole Cook. Rarotonga, la più grande delle quindici isole di questo arcipelago sparso su due milioni di chilometri, tra l’Equatore e il tropico del Capricorno, si percorre in auto da un capo all’altro in una mezz’ora ed è proibito costruire edifici più alti delle palme. I colori sono esattamente quelli che si immaginano quando si pensa alla Polinesia, in questo caso neozelandese (a quattro ore e mezza di volo da Auckland). Una sinfonia di turchesi, acquamarina, crema, profondo blu oltre la barriera corallina, al di là della quale l’Oceano Pacifico alterna sussurri e ruggiti.

Moana, il suo nome in lingua Maori, richiede rispetto. Avventure epiche e personaggi leggendari nutrono una mitologia che avvolge le isole di un’aura romantica. Il nome, dato da un cartografo russo, evoca il capitano inglese James Cook, qui tra il 1773 e il 1777. A scoprire per primo l’arcipelago fu in realtà il navigatore spagnolo Alvaro de Mendana, nel 1595. A Rarotonga, invece, arrivarono nel 1789, e si fermarono, gli ammutinati del Bounty, resi famosi dall’omonimo film con Marlon Brando. Sia gli uni sia l’altro rimasero incantati dalle fanciulle locali. A quanto si racconta, il fascinoso attore non riuscì però a conquistare il cuore di una delle più attraenti e brave danzatrici dell’isola. L’intraprendente Vara, bella ancora oggi a 75 anni, organizzatrice, insieme alla figlia, del Te Vara Nui Village, dove si assiste a uno degli spettacoli di danza polinesiana più seguiti sull’isola. Serate al ritmo scatenato dei tamburi, forse un po’ turistiche, ma espressione di una tradizione popolare autentica.

Le giovani danzatrici non sono professioniste, imparano a ballare sin da piccole, a casa. L’Ura, nome locale della danza, si trasforma persino in occasione di fitness, con lezioni settimanali durante la pausa pranzo. Le corone - Ei - di fiori freschi di tiarè, che le ballerine esibiscono, sono un elemento portato spesso da tutte nella quotidianità. Bastano venti minuti per confezionare le più semplici e il viso acquista una grazia speciale. Anche le collane floreali con le quali si è accolti non sono riservate solo ai turisti. Chiunque torni a casa da un viaggio viene omaggiato così. In più, in partenza e in arrivo all’aeroporto, c’è lo zio Jack (dopo una certa età qui si è tutti zii o zie), un americano che da anni accoglie i turisti suonando l’ukulele. È il primo Kia Orana - il classico saluto delle Cook - del nostro soggiorno, riportato persino sulle targhe delle auto. Non ci si stringe la mano da queste parti, ci si bacia una volta su una guancia (i Maori si annusavano). Un gesto di sincera, calorosa accoglienza. Il senso dell’amicizia, della famiglia e della comunità da queste parti è fortissimo, così come la religiosità.

La domenica è dedicata alle funzioni nelle chiese di cui l’isola abbonda, con grande sfoggio di cappelli, ornati di fiori o di una conchiglia: sono i Rito Hat, realizzati con germogli di cocco bagnati nell’acqua salata, poi seccati e intrecciati, più flessibili della fibra di palma. Dopo la messa, la giornata festiva prosegue con una grande mangiata comunitaria. Ci sono protestanti, avventisti, apostolici, metodisti e una manciata di cattolici: una conseguenza della presenza nell’800 dei missionari, che imposero severe leggi morali alla popolazione. Non mancano neppure i bahá’i (la più giovane tra le religioni indipendenti), gli spiritualisti, qualche buddhista e i testimoni di Geova. Di contro, è in atto un forte movimento di recupero e valorizzazione delle antiche tradizioni Maori.

C’è grande rispetto per il consiglio dei capi supremi, riuniti nella House of Ariki, e per la discendente della dinastia che regnava sull’isola, la regina Pā Tepaeru Teariki Upokotini Marie Ariki, così autorevole da essere in grado di influenzare il governo. Il suo Pā Ariki’s - Takitumu Palace, è un palazzo-museo aperto al pubblico dal 2014, dove sono esposte una serie di memorabilia e oggetti simbolo della cultura locale, come i Tivaevae, colorati patchwork in versione polinesiana, cuciti a mano. Una tecnica introdotta dai missionari nel XVIII secolo.

Uno dei temi al centro del revival Maori passa attraverso la riscoperta dei tatuaggi tradizionali (Tātatau) e della loro simbologia. Maestro di quest’arte, praticata in “purezza” con martelletti di osso come un tempo, è paradossalmente l’inglese Croc Coulter, allievo di un famoso tatuatore Maori neozelandese (autore dei disegni utilizzati nei tatuaggi del film Once were warriors, del 1994). Profondo conoscitore di tatuaggi, e tatuato egli stesso, anche il capitano Tetini Pekepo, esperto di grandi canoe oceaniche a due alberi (Vaka), antenate degli attuali catamarani, con cui si naviga a vela e ci si orienta con le stelle. Un vero marinaio polinesiano, anche con il cielo nuvoloso, sa sempre dove si trova la Stella del Sud. Le riproduzioni moderne di queste antiche barche rientrano in un programma di promozione di un modello di navigazione ecosostenibile.

Tutto sotto l’egida della Cook Islands Voyaging Society, che al suo attivo ha sei imbarcazioni, dono della Okeanos Foundation di Dieter Paulmann, una comunità internazionale di navigatori oceanici, scienziati e artisti. Navigare fino alla incredibile laguna di Aitutaki con un’imbarcazione di questo tipo è un’esperienza unica. In mancanza di tempo, basta un comodo volo di 50 minuti per essere proiettati in una dimensione paradisiaca, dove dedicarsi allo snorkeling tra pesci colorati e coralli, passeggiare tra candide spiagge e vegetazione tropicale. Consigliata anche la semplice contemplazione seduti nella veranda del proprio bungalow in riva al mare.

La cucina maori fa parte dell’esperienza di viaggio. A cominciare dal tradizionale Umu lunch, ovvero pesce cotto in un forno interrato, accompagnato dal frutto dell’albero del pane cotto alla brace, da ananas, frutti della passione, mango, papaya e noce di cocco, di cui non si butta via nulla. Se ne beve l’acqua, si mangia la polpa, si estrae l’olio, si usa come combustibile, mentre le foglie si utilizzano per intrecciare contenitori e per i tetti (anche se con poca coerenza si fa strada l’uso del Palmex, un prodotto in polietilene, che sostituisce le meno durevoli coperture vegetali). Alcuni chef attingono invece al patrimonio locale per proporre piatti “fusion”. Il neozelandese Michael Fosbender, executive chef al Pacific Resort di Aitutaki, propone, tra altri piatti, un patè di cozze affumicate e sfoglie croccanti di taro, tubero tipico di tutta l’area del Pacifico meridionale. L’Ika Mata, pesce marinato con aggiunta di latte di cocco, si trova invece ovunque ed è una specie di piatto nazionale.

La natura rigogliosa delle isole permette di coltivare quasi tutto, persino i pomodori e il basilico, come fa, proprio ad Aitutaki, Angelo, un italiano sposato a una donna del luogo. Sarà infatti l’atmosfera delle isole, ma sono numerosi i casi di europei, americani e neozelandesi che si trasferiscono alle Cook, soprattutto a Rarotonga. Dalla psicologa americana Amelia Borofsky, vissuta da piccola nella sperduta isola di Pukapuka al seguito del padre antropologo (ci torna ogni anno affrontando un viaggio in cargo di cinque giorni) al Console onorario di Spagna, Susanna Wigmore, giornalista spagnola, che dopo aver viaggiato in tutto il mondo ha deciso di fermarsi qui. C’è poi l’artista neozelandese Kay George che ha aperto una galleria, dove espone i suoi lavori e quelli di altri artisti delle Isole del Pacifico. O il giovane italiano Jacopo Dozzo, che ha trovato lavoro e l’amore con una splendida ragazza del posto.

I residenti stranieri sono spesso i fan più appassionati e i migliori alleati dei locali nella difesa della cultura maori e della natura dell’arcipelago. Sono disposti, come Natavia Furnell di Storytellers Ecocycling, a portarvi nei luoghi più segreti, tali una piscina naturale nel cuore della foresta, ma con la preghiera di non rivelare a nessuno come arrivarvi. C’è persino chi è disposto a passare qualche mese sull’isolotto disabitato di Suwarrow, diventato riserva naturale, per controllare che gli equipaggi delle barche di passaggio non scendano a terra. Un impegno che permette ai comuni viaggiatori di passeggiare sulle spiagge candide e intonse (quelle sul lato Sud di Rarotonga sono le più belle dell’isola), godersi il passaggio delle balene d’estate, fare escursioni in un ambiente incontaminato, acquistare pregiato olio di cocco e perle nere - vanto locale - possibilmente senza lasciare tracce di sé. Come dice un detto maori: “Muovi la tua pagaia silenziosamente nell’acqua”