La Liquirizia (Glycyrrhiza glabra L. – Fabaceae) è una pianta erbacea perenne caratterizzata da radici ingrossate (rizomi), legnose, lungamente striscianti (stoloni). Presenta fusti eretti, ramificati, alti fino a 1 metro, con foglie pennate, composte da 9-17 foglioline ellittiche, ghiandole-appiccicose nella pagina inferiore. I fiori sono di colore violetto, riuniti in lunghi racemi ascellari. Cresce nei terreni caldi assolati, sabbiosi, nei terreni incolti aridi, lungo i margini delle strade, dal livello del mare fino al piano montano.

Originaria del bacino del Mediterraneo orientale e delle regioni dell'Asia sudoccidentale, in seguito si è naturalizzata nelle zone temperate dell’Europa meridionale. Tra le varietà più pregiate abbiamo la Glycyrrhiza glabra var. typica, ad alto contenuto di principio attivo (glicirizzina), esclusiva delle regioni mediterranee come l’Italia, la Spagna e la Grecia, che attualmente sono i principali produttori commerciali di questa pianta. Nelle aree orientali dell’Europa, Russia meridionale e Asia minore, è diffusa la Glycyrrhiza glabra var. glandulifera (chiamata “liquirizia di Russia”), mentre la Glycyrrhiza glabra var. violacea è tipica della Turchia e della Persia.

In Italia, la Liquirizia viene coltivata principalmente in Calabria, Sicilia e Abruzzo. Nella prima regione si concentra l’80% della produzione nazionale (stimata intorno alle trentamila tonnellate); ciò è dovuto a particolari situazioni socio-culturali e soprattutto a uniche e peculiari condizioni bio-pedo-climatiche, in fatto di composizione del terreno, temperatura, piovosità, umidità e radiazione solare.

Attualmente le aree di produzione della “Liquirizia di Calabria” D.O.P. sono comprese nei territori delle Province di Cosenza, Catanzaro, Crotone, Vibo Valentia e Reggio Calabria. Analisi condotte dal Dipartimento di scienze e tecnologie agroforestali e ambientali dell’Università di Reggio Calabria, e dal Dipartimento di scienze farmaceutiche dell’Università di Salerno, hanno permesso di stabilire che l’intensità delle note dolci e aromatiche che caratterizza la Liquirizia calabrese, rispetto a quella proveniente da altre aree geografiche, è da imputare all’alta percentuale di due specifici composti organici (esanale e 1-esanolo).

La raccolta delle radici avviene scavando in profondità, anche fino a mezzo metro, preferendo piante di almeno tre anni di età. Dopo un accurato lavaggio, per eliminare eventuali residui di terra, e un’attenta ripulitura che permette di rimuovere le radichette laterali, il materiale viene tagliato a pezzi, della lunghezza di 10-15 cm e in seguito essiccato all’ombra, in luoghi chiusi ma ben arieggiati, oppure in forni ventilati, la cui temperatura, non superiore ai 50°C, permette preservare sia i principi attivi sia le qualità aromatiche e organolettiche che caratterizzano questo prodotto. Infine le radici sono sottoposte a macinatura e bollitura: il succo di colore scuro che si ricava da questo processo è caratterizzato da un sapore dolciastro e un aroma particolarmente gradevole.

Tutte le fasi di raccolta ed essiccazione, avvengono in tempi brevi e sono sottoposte a costanti e accurati controlli, soprattutto per evitare eventuali contaminazioni da parte di funghi del genere Aspergillus, Penicillium e Fusarium, responsabili della produzione di micotossine (soprattutto aflatossine e ocratossine) pericolose per la salute dei consumatori.

Storia, miti e leggende

Le prime testimonianze dell’utilizzo medicinale di questa pianta risalgono addirittura a 5000 anni fa, essendo citata nel Pen Ts’ao Ching, un’opera attribuita all’imperatore Shen Nung. Il suo impiego era diffuso anche nell’antico Egitto, tanto che tra i reperti rinvenuti nella tomba del faraone Tutankhamon, sono stati scoperti frammenti di radici di Liquirizia. Indicazioni sull’impiego di questa pianta si trovano nella medicina tradizionale ayurvedica e tibetana, in particolare per quanto riguarda la preparazione di rimedi ad azione afrodisiaca e anti-invecchiamento. Sempre dall’antica tradizione indiana apprendiamo l’esistenza di un suggestivo rituale chiamato il bagno di Buddha: una cerimonia di purificazione in cui una statua di questa divinità veniva immersa in una soluzione acquosa di Liquirizia.

Ippocrate, nel III secolo a.C., ne esaltava le virtù chiamandola "radice dolce", dal greco glykys, dolce, e rhiza, radice, da cui ha trovato ispirazione il nome generico glycyrrhiza; il termine glabra è riferito al fatto che è una pianta quasi completamente priva di peli. Plinio il Vecchio e Dioscoride la impiegavano per le affezioni delle vie respiratorie e come calmante stomachico. I trattati botanici e medici del passato documentano un fiorente commercio di questa radice e i diversi modi di utilizzare il prodotto.

Questa pianta è molto popolare anche nella cultura araba: il suo estratto, diluito in acqua, è chiamato sus e viene venduto in strada da ambulanti vestiti con abiti multicolori, arricchiti da caratteristici sonagli. Nel XII secolo Ildegarda di Bingen, santa, erborista e guaritrice, consigliava la radice di Liquirizia per curare lo stomaco e il cuore e la indicava nella preparazione di numerose ricette tra cui: biscotti con effetti lassativi confezionati con zenzero, liquirizia, artemisia e succo di euforbia; un rimedio contro le affezioni cardiache a base di liquirizia, finocchio, zucchero e miele; una minestra da consumare in caso di disturbi gastrointestinali, preparata con castagne, farina di farro, polvere di liquirizia e di radice di polypodium vulgare L., una felce chiamata “liquirizia dei boschi”; un elisir tonico-rigenerante contenente succo di sanicula (Sanicula europaea L.), liquirizia e miele. Si dice che il colore scuro dei denti di Napoleone Bonaparte fosse legato alla sua abitudine di consumare grandi quantità di questa radice.

In Calabria la Liquirizia è chiamata “cordara”, e la sua coltivazione è legata tradizionalmente ai monaci Benedettini che l’hanno introdotta intorno all'anno Mille come pianta medicinale, la cui radice veniva masticata per alleviare la tosse. La storia, lunga più di tre secoli, della sua produzione e commercializzazione, prende avvio nei decenni a cavallo tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento e vede protagonisti i grandi latifondisti e le famiglie aristocratiche dell’epoca che decidono di investire cospicui capitali nella realizzazione di questo nuovo e lungimirante progetto. Nella Calabria dell’epoca, la coltivazione della Liquirizia copriva tutto il litorale ionico, interessando i confini settentrionali con la Lucania e la piana di Sibari, compreso Crotone e Reggio Calabria, e ampie zone della costa tirrenica.

I fattori che hanno determinato il successo della Liquirizia calabrese sono legati alla sua eccelsa qualità e al grande impegno e professionalità dimostrati negli anni dai tecnici e dalla manodopera locale, impegnati in questa difficile attività. Le fabbriche di Liquirizia si chiamavano “conci” e la prima di esse fu realizzata all’inizio del Settecento dal Duca di Corigliano; ne seguirono subito altre, gestite delle più importanti famiglie dell’alta borghesia calabrese come Amarelli, Abenate, Castriota, Barracco, Compagna, Pignatelli, Martucci; ed è proprio la liquirizia del barone Barracco a ricevere nel 1867 la medaglia d’oro all’esposizione di Parigi e quella d’argento all’esposizione di Torino, nel 1884. Fino agli anni Trenta, in Calabria esistevano numerose fabbriche impegnate in questo tipo di produzione, poi arrivò la crisi e dopo la Seconda guerra mondiale, il grande colosso dolciario americano Mac Forber, dietro lauti compensi, riuscì a convincere i proprietari a vendere le loro attività; l’unica a resistere fu la Ditta Amarelli, tuttora in attività.

Impieghi alimentari e officinali

La radice contiene numerose sostanze, tra cui una saponina triterpenica chiamata glicirrizina (5-10%), flavonoidi e isoflavonoidi (in particolare liquiritina e isoliquiritina), olio essenziale, fitosteroli, saponine, cumarina, amido (30%), asparagina, zuccheri, gommoresine tannini, vitamine del gruppo B e sostanze minerali. Trova impiego nelle preparazioni industriali di caramelle, sciroppi, dolci, gelati, birre, tisane, liquori, tabacco e farmaci; allo stato secco, naturale, è commercializzata anche sotto forma di bastoncini da succhiare. Il suo valore energetico è relativamente modesto: 100 g di estratto forniscono circa 56 calorie.

In cucina, il gusto piacevole e l’aroma delicato, moderatamente amaro, di questa radice, si prestano per arricchire, in maniera davvero speciale, il sapore di molti piatti. Si sposa perfettamente con varie spezie ed erbe aromatiche per accompagnare salse, risotti, zuppe, verdure e vari tipi di carne (maiale, cinghiale, agnello, piccione, anatra, ecc.). È un ottimo ingrediente per la preparazione di creme, budini, dessert (in particolare panna cotta e “tirami su”), torte e biscotti. Da sola o insieme ad altre erbe (in particolare menta, anice, finocchio, zenzero, cannella, curcuma, ecc.) è impiegata per aromatizzare tè, infusi e tisane.

In antichità godeva di uno status particolarmente importante giustificato dalle sue proprietà digestive, cicatrizzanti (protettive della mucosa gastrica), bechico-emollienti, espettoranti, antispasmodiche, antiflogistiche, epatoprotettive, antisettiche, antivirali, diuretiche e corticostimolanti. Purtroppo, con il trascorrere del tempo, l’interesse nei suoi confronti è andato attenuandosi e nell’ambito della fitoterapia moderna, si denota una certa indifferenza o peggio ancora un atteggiamento di contrarietà per la sua indesiderata azione ipertensiva (se si eccede nelle dosi giornaliere).

Questa pianta, sicuramente, meriterebbe maggiore attenzione e un’approfondita conoscenza delle sue potenzialità terapeutiche. Ad esempio è una pianta che entra in facile sinergia con le altre specie officinali: nella medicina cinese, infatti, è impiegata come “mediatrice” degli altri medicamenti con cui è combinata, cioè si comporta come un elemento equilibratore di altre sostanze e per questa ragione, sotto forma di polvere o piccoli pezzi non trattati, trova impiego nella preparazione di numerosi rimedi.

Ricerche nell’ambito della microbiologia hanno confermato l’azione antibatterica e antimicotica della glicirizzina su vari agenti patogeni, soprattutto staphylococcus, streptococcus e candida albicans; quest’ultimo è un fungo saprofita, presente abitualmente sulla pelle e le mucose (soprattutto nelle zone calde e umide come la bocca, l’intestino e la vagina), che in determinate condizioni può causare fastidiose infezioni (mughetto, candidosi vulvovaginale, ecc.).

La Liquirizia, inoltre, sembra in grado di stimolare una risposta immunitaria sufficiente a conferire un’efficacia protezione nei confronti del virus responsabile dell’herpes genitale e labiale. Può essere impiegata sotto forma di decotto, per fare dei gargarismi, in caso di infiammazioni della mucosa della bocca; allo steso modo miscelata con acqua calda, è utile per ridurre o eliminare l’alito cattivo. In passato la polvere di Liquirizia era applicata sulle ferite e le ulcerazioni per evitare infezioni e accelerare il processo di guarigione. Recenti ricerche hanno dimostrato che i fitoestrogeni in essa contenuti possono bilanciare un’eccessiva produzione di estrogeni e indurre una riduzione del testosterone, inibendo l’attività di un precursore di questo ormone.

Lo sciroppo di Liquirizia si può preparare facendo macerare in 1 litro di acqua calda, per 12 ore, 60 gr di radice finemente spezzettata; colare, spremendo bene il residuo e scaldare il liquido a fuoco moderato, sciogliendo 800 gr. di zucchero (si può consumare puro o allungato con acqua). Un vino medicato si realizza facendo macerare in 1 litro di buon vino bianco secco, per 15 giorni, 100 gr di radici triturate; ne vanno assunti cinque cucchiaini al giorno. Per preparare un balsamo lenitivo e ristrutturante per pelli arrossate aggiungere 50 gr. di radice di liquirizia a 2 litri di acqua; portare a ebollizione e mantenere a fuoco medio-basso per 40 minuti; quindi filtrare, lasciare raffreddare e applicare direttamente sulle parti interessate, aiutandosi con una salvietta o un dischetto di ovatta.

Nella medicina ayurvedica, alla Liquirizia sono riconosciute anche proprietà stimolanti e afrodisiache (aumenta la produzione di sukra, sperma). Spesso la radice viene sottoposta a dei particolari trattamenti per ottenere una maggiore biodisponibilità dei principi attivi e la sua somministrazione avviene in combinazione con altre erbe medicinali (per sfruttare al meglio le sinergie), tra cui Ashwagandha (Withania somnifera L.) e Bala, (Sida cordifolia L., denominata malva indiana). È possibile affiancarla anche a piante di uso corrente come eleuterococco (Eleutherococcus senticosus Maxim.), ginseng (Panax ginseng C. A. Meyer), rosmarino (Rosmarinus officinalis L.) o panace (Heracleum spondylium L.). Ad esempio, se si vuole sfruttare al meglio la sua azione tonico-ipertensiva, è utile somministrarla insieme al rosmarino, per mezzo di una breve decozione e una successiva lunga infusione.

L’azione afrodisiaca è particolarmente adatta alle costituzioni vata e kapha (attenzione a un uso prolungato: favorisce l’espansione del kapha: ritenzione di liquidi). È largamente impiegata anche come depurativo del fegato e per migliorare la capacità visiva, spesso miscelata con polvere di triphala (una miscela di tre frutti ricavati da Phyllanthus emblica L., Terminalia chebula Retz. e Terminalia belerica Roxb.), da assumere al mattino, a digiuno, nell’ambito di una corretta alimentazione.

Una ricetta semplice, ad azione ringiovanente, prevede l’uso dei seguenti ingredienti: 2 litri di acqua, 1 litro di latte, un cucchiaio di polvere di liquirizia. Portare a ebollizione fino a ridurre la quantità del liquido a 1/2 litro di decotto; filtrare e dolcificare con miele o zucchero di canna.

Sui possibili effetti collaterali attribuiti a questa pianta, va precisato che è necessario non superare la dose raccomandata che si aggira sui 2-3 grammi al giorno. Il consumo di Liquirizia può alterare l’equilibrio dei sali minerali (con diminuzione del potassio sanguigno), ritenzione idrica, riduzione della funzionalità renale e aumento della pressione sanguigna; la glicirizzina, infatti, blocca l’attività di un enzima preposto alla normale funzione di un ormone (aldosterone) coinvolto nella regolazione della concentrazione salina dell’organismo: questo meccanismo a cascata può generare ipertensione arteriosa. Di conseguenza soggetti già sensibili a queste problematiche e in cura con particolari farmaci (possibili interazioni con ipotensivi, cortisteroidi, antiaritmici, lassativi, pillola anticoncezionale, ecc.), intenzionati ad assumere liquirizia a dosaggi consistenti e per un tempo prolungato, dovrebbero essere consapevoli di queste problematiche e valutare il rapporto rischi/benefici. Resta il fatto che un consumo occasionale o moderato non produce effetti collaterali e non presenta particolari controindicazioni d'uso.

Tratto da Cultura e salute delle piante selvatiche – Le radici, di Maurizio Di Massimo e Sandro Di Massimo, Aboca Edizioni