Amo il mese di Giugno così prodigo di attese e caldo di ricordi. Gli si addicono le aspettative gioiose e le speranze di un’estate tutta da immaginare, che ancora non si concede né si manifesta se non nell’attesa, un’immagine di pienezza che invade lo sguardo del cuore e lo inonda come benefica pioggia.

Giugno è un preludio e come tale prepara l’animo all’ascolto delle seducenti melodie che la Natura intona nella pienezza della sua forza vitale, quelle che si sprigionano dai colori intensi, dall’odore denso della terra che, colma di frutti maturi, si apre e ne fa dono dal suo grembo generoso.

È luce speciale quella che accompagna questo mese: quando riempie l’occhio che la accoglie sembra lasciarvi una traccia capace di accendere lentamente l’opacità e l’oscurità che l’inverno ha depositato nell’anima ancor prima che nelle pupille. È una luce semplice, “senza complicazioni “ che sboccia sicura per annunciare un inizio, per alimentare un desiderio di radiosa bellezza.

Le albe sono delicate, ancora timide e velate di lievi brume che sfiorano la terra e sembrano tenerla sospesa in una magica fissità.

L’aria è ancora fresca specie quando il sole si corica pallido e potrebbe piovere.

I tramonti esagerano con le sfumature del rosa e del lilla in attesa di concedersi ai rossi sfrontati della piena estate e i cieli tersi lasciano presto il posto a quelli che si rabbuiano di forme che si mostrano in tutta la loro mutevolezza.

Lo sguardo riprende a vagare in lontananza, la mente lo segue o lo conduce più in là senza una meta precisa, senza andare da qualche parte, osserva ogni cosa come si fa con le nubi leggere che spesso in questo tempo attraversano il cielo che, come un caleidoscopio, dà vita ad infinite creature, animali fantastici, volti, mostri e ricami preziosi: tutto nasce e si distrugge nel tempo impalpabile di cui sono fatti i sogni.

Attendo i fiori esagerati della magnolia, quelli che a Vita Sackville West sembravano “grandi colombe bianche posate tra le foglie scure”. In fretta si schiudono offrendo presto il loro corpo, la densa crema dei loro petali al godimento delle api che si inebriano della loro dolcezza e del loro profumo. [1]

Posso tornare a sentire il soffio del dio Zefiro che spira da occidente: vento di pioggia e di iridato umidore, il Favonio dei Latini che fa crescere (il verbo favere) i germogli con il suo tepore; padre dei veloci cavalli di Achille, sposato alla bellezza di Iride “rugiadosa” che dal sole trae mille colori. La messaggera degli dei scende dal cielo lungo l’arcobaleno che porta il suo nome, per lei fioriscono al plenilunio di maggio gli ireos, i giaggioli cari al principe Siddharta cantati nella poesia di Corrado Govoni:

con quel colore e quell’odor di cielo
mescolato al colore e all’odore
del mare tra gli scogli
con i bocciuoli chiusi nei cornetti
di carta velina
come confetti
[2]

Si respira un tempo di morbida lentezza come quello scandito dall’andare e ritornare del ventaglio che, in questa stagione, inizia ad impreziosire le mani femminili.

Si mettono di nuovo i piedi nell’acqua di fiumi, laghi, ruscelli come a ritrovare il contatto con il fluido scorrere della materia rianimata dal respiro tiepido della primavera che ancora si attarda, come a cercare qualcosa, un ciottolo perfettamente levigato, un segno di rinnovata bellezza. Si intuiscono altre emozioni, si cerca risposta a una delle tante domande che la mente ci pone ad ogni ritorno della vita dopo l’inverno.

Ho appreso che esiste una parola a significare e contenere questa condizione di sentire: è un verbo che appartiene allo wagiman, un dialetto australiano pressoché estinto. La parola suona murr-ma e mi fa piacere prendermene cura e cercare di conservarla ancora per un po’. [3]

Assaporo la pienezza del guardare, la compiutezza del vedere attraverso la memoria che rimanda immagini colme di tenerezza: il racconto di un bagno proibito nel grande macero, lo spettacolo indimenticabile delle lucciole che, nel buio profondo della notte, danzano la loro danza di argentea bellezza, il primo gelato e il gusto aspro e trasgressivo delle piccole prugne ancora acerbe che c’era divieto di mangiare; la contemplazione della grande Orsa e di Orione e la gioia di riconoscere stelle e costellazioni nel grande libro celeste.

È un mese nel quale sento di meritarmi un pensiero felice per potere, come Peter Pan, riuscire a volare così da vedere a distesa i campi coperti dell’oro germogliato dalla Terra nelle spighe che assecondano il vento che le accarezza. È una sensazione di immensa ricchezza alla quale l’anima e il corpo attingono per riempirsi di benefico nutrimento.

Ben si sposa questa visione di opulenza con la dea Giunone che al mese di Giugno dà il proprio nome. Tra tutti i mesi è il solo ad essere consacrato ad una divinità femminile e un tempo veniva scelto per celebrare i matrimoni come ad assicurarsi la benevolenza della dea che, sotto nomi diversi, proteggeva non solo le nozze, ma tutte le fasi dell’esistenza femminile.

Era chiamata Cinxia se sovrintendeva alla prima svestizione della sposa da parte del marito ed era Interduca quando la accompagnava nella nuova casa; con il titolo di Opigia prestava aiuto alle partorienti e come Sospita era accanto a loro nel travaglio. Era Lucina, la dea del parto, per far vedere la luce al neonato e Ilizia l’antica dea pre-ellenica, la tessitrice che creava il filo della vita.

Si trattava in realtà di prerogative che erano appartenute alla dea greca Era con la quale l’italica Giunone era andata identificandosi in quanto entrambe erano dee delle donne. Quando Era dall’Olimpo giunse a Roma ebbe luogo quel processo di assimilazione che finì per identificare le sfere di influenza delle due autorevoli Signore, anche se Giunone assunse col tempo funzioni più ampie entrando a far parte, come grande dea dello Stato, della triade capitolina insieme a Giove e Minerva.

Le donne romane la veneravano alle Calende il primo giorno di ogni ciclo lunare ed ognuna aveva la sua “giunone” che era forza interiore e vivificante della femminilità così come un “genius” sovrintendeva alla forza maschile.

Nessuna meglio di questa Dea potrebbe benedire la sacra unione che si compie nel mese di giugno quando, secondo l’antica mitologia babilonese, il Sole si congiunge in mistiche nozze con la Luna nella notte del solstizio: le acque della Luna, fecondate dal fuoco del Sole generano energia benefica così come le erbe bagnate dalla rugiada che in questa notte assume poteri miracolosi.

In tutte le tradizioni i fuochi che accompagnano i riti del solstizio sono dunque simbolo della forza rigenerante del Sole che scaccia il male. I Berberi dell’Africa settentrionale nella festa detta ànsara li accendono affinché il fumo denso protegga i campi coltivati.

Notte di incantesimi quella tra il 21 e il 22, nella quale si mescolano visibile e invisibile e si traggono prodigi; “notte di mezza estate” quando ogni cosa vive un’altra vita, notte di incontri e di visioni, di sortilegi, miti e meraviglie.

Le donne raccolgono le portentose erbe che terranno lontani i demoni per un anno intero: donne depositarie di antica medicina, un tempo guardate come streghe, che si riuniscono attorno al sacro albero del noce per celebrare rituali di guarigione e d’amore. Iperico scacciadiavoli, verbena e felce maschio, il ribes, rosso come fuoco, l’artemisia consacrata ad Artemide con un forte potere apotropaico, l’acqua di san Giovanni raccolta sulle foglie di quercia che fa bella la pelle.

Sol stat vel Sol sistit
Altus quam maxime altus
in summo caelo
Supremus rex
Potens super omnia
Divina lux supra mundum universum

“Il Sole si ferma, sosta per un attimo al suo punto più alto alla sommità del cielo: supremo re, potente sopra ogni cosa, divina luce che splende sull’universo mondo”. In una fissità sospesa, non sta più salendo nel cielo e ancora non ha iniziato a discendere: fulminea immobilità, simbolo dell’impermanenza della condizione umana.

Ogni cosa raggiunge la sua completezza, il suo apice e di nuovo inizia la sua discesa in un incessante processo di morte e rinascita, in un instancabile andare e ritornare della spola sulla trama della vita, a fare e disfare il disegno sul tessuto dell’esistenza.

Il sole “rotola via” come la testa mozzata di San Giovanni, nome di misericordia e lode, che la tradizione ecclesiastica celebra il 24 di giugno con un’ evidente opera di sostituzione dovuta al Cristianesimo che, come spesso accade, ha riadattato il rituale arcaico, pagano, per farne un’occasione religiosa.

E intanto la ruota dello Zodiaco volge al segno del Cancro, segno d’acqua, governato dalla Luna, carico di immagini femminili e materne aperto all’immaginazione fecondatrice.

Sacro e profano si mischiano: a mezzanotte, narrano gli autori degli erbari, si apre interamente il magico fiore di san Giovanni illuminando di luce intensa tutto ciò che lo circonda. È un fiore misterioso che rende invisibile chi riesce a raccoglierlo e gli permette di resistere agli incantesimi. Vengono accesi i falò che dovranno proteggere il Creato e aiuteranno a conservare i frutti della terra e ad assicurare buoni raccolti.

Un tempo nella notte del 24 le donne staccavano le noci con una falce o una lama di legno per compiere il rito della preparazione del nocino, un’infusione che risale ai Celti della Britannia.

Giano il misterioso dio bifronte della tradizione romana, custode, come dice il suo nome, di tutte le porte sta a guardia anche di quelle solstiziali.

Nell’antica religione greca infatti i due solstizi erano chiamati “porte” ed erano simboli di passaggio, di confine tra due mondi, quello finito e quello trascendente: quella per entrare nell’inverno al 21 di dicembre era la porta degli dei, quella d’estate la porta degli uomini.

Omero nel XIII libro dell’Odissea descrive il misterioso antro dell’isola di Itaca nel quale si aprivano due porte: una per gli uomini volta a Borea, il Nord, l’altra per gli dei a Noto, il sud. Secondo la tradizione orfica il Solstizio d’estate è la soglia attraverso la quale l’anima fa il suo ingresso nel mondo della sua temporanea incarnazione.

È la Grande Porta degli uomini che si apre alle forme della vita fisica e alle leggi della Terra. Attraverso di lei possiamo connetterci profondamente alle motivazioni che ci hanno portato alla nostra presente condizione di esistenza e ritrovare il collegamento con la nostra consapevolezza originaria.

È il trionfo del sole fecondo e mi piace condividerne questa immagine materna:

Di buon’ ora, al mattino,
noi ci svegliamo, noi ci svegliamo, quando la madre Dio-Sole sorge.
Lei ci accoglie con un viso radioso.
Lei ci incontra con un caldo bacio.
Così dolcemente, così dolcemente
[4]

A cura di Save the Words®

[1] cfr. Alfredo Cattabiani, Florario, Mondadori. Milano, 1996
[2] Corrado Govoni, I canti del puro folle, 1959
[3] cfr. Ella F. Sanders, Lost in translation, Marcos y Marcos, Milano, 2015
[4] Inno al Sole degli Zuni