I profumi antichi rimangono per molti versi un mistero. Le fonti principali che li ricordano – soprattutto Teofrasto, allievo di Aristotele (371-287 a.C.), Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) e Dioscoride Pedanio (I secolo d.C.) – ne forniscono la composizione e in alcuni casi le modalità di preparazione, ma tacciono sia sulle dosi dei singoli ingredienti sia sulla qualità, la provenienza precisa, la selezione delle spezie che li componevano, elementi – questi – che caratterizzano i profumi e ne determinano le caratteristiche e la potenza aromatica.

Va da sé, sulla base di questa premessa, che ogni tentativo di ricostruirle risulta del tutto ipotetico. Sulla base delle indagini chimiche dei resti di oli aromatici prelevati dal fondo dei contenitori recuperati dagli archeologi si può certo riprodurre quanto il contenitore ha conservato, ma rimane difficile credere che, a distanza di tanti secoli, una parte del prodotto non si sia alterata o non sia completamente svanita. A questo va aggiunto almeno altri due fattori che invitano a una estrema cautela:

  1. L’unicità della ricetta: ogni profumiere antico seguiva un suo personale procedimento di preparazione e aveva i suoi ‘segreti di mestiere’: elemento, questo, che rendeva una stessa fragranza, pur preparata sulla base di una ricetta comune, diversa da bottega a bottega;
  2. la provenienza degli ingredienti: le spezie, specie quelle provenienti da paesi lontani come incenso, mirra, cinnamomo, cardamomo, zafferano, nardo ecc., non arrivavano sempre dagli stessi posti, e la loro qualità, nonché la loro forza aromatica, variava notevolmente in funzione della stagione nella quale erano state prelevate e dei luoghi dai quali provenivano. Come hanno dimostrato molte relazioni nel recente convegno Sensing Divinity organizzato da Mark Bradley e tenutosi a Roma nel Giugno del 2017, c’erano e ci sono tanti incensi e risulta impossibile determinare a quale di essi le fonti antiche si riferissero quando parlavano di libanos/libanotos o di incensum.

Composto dunque da ingredienti mutevoli per provenienza e qualità, anche uno stesso profumo elaborato e prodotto da uno stesso profumiere poteva variare, anche di molto, nella fragranza. Quanto detto vale per tutti i profumi antichi alcuni dei quali erano indicati dalla nota principale che li componeva (rhòdinon per la rosa; ìrinon per l’iris; narkìssinon per il narciso; mìrtinon per il mirto ecc.), in altri casi dal profumiere che li aveva per primo inventati – ad esempio il megàlleion da Megallo, o il cosmianum da Cosmo – in altri ancora dal paese di provenienza – è il caso dei profumi Aigyption, Mendesion e Metopion tutti nati in Egitto e tutti in vario modo menzionati dalle fonti greche e latine [1].

Proprio all’Egitto si lega un prodotto aromatico utile come fumum nei sacrifici agli dèi, ma anche come medicamento: le fonti lo ricordano sotto il nome di kyphi [2]. A menzionarne le modalità di preparazione e gli usi specifici è soprattutto il medico e botanico Dioscoride Pedanio (I secolo d.C.), seguito dall’erudito Plutarco (I-II secolo d.C.) e dal medico Galeno (II-III secolo d.C.): sia pure fornendo dati differenti, tutti ne forniscono la composizione e concordano sulle proprietà medicamentose del preparato. Certamente sul kyphi sapremmo molto di più se fosse pervenuto lo scritto specifico dello storico Manetone (III secolo a.C.), del quale purtroppo rimane solo una scarna notizia (Manetone (609), Frammento 16 Jacoby). A ricordare per primo la ricetta e gli usi del kyphi è Dioscoride nel primo libro della sua Materia medica. Il botanico afferma quanto segue:

«Il kyphi è un preparato aromatico gradito agli dèi. I sacerdoti egiziani lo impiegano abbondantemente. Il kyphi è mescolato ad antidoti e dato sotto forma di bevande agli asmatici. Esistono vari racconti relativi alla preparazione del kyphi. Tra di essi vi è anche il seguente: ½ sestario di giunco odoroso e uguale quantità di semi grossi di ginepro; 12 mine di uva lucida e senza semi; 5 mine di resina pura; 1 mina rispettivamente di calamo aromatico, aspalato e giunco odoroso; 12 dracme di mirra; 9 sestari di vino vecchio; 2 mine di miele. Dopo aver tolto i semi dagli acini, tagliali e pestali in un mortaio con vino e mirra e, dopo aver pestato e setacciato gli altri ingredienti, uniscili agli acini d’uva e lasciali macerare per 1 giorno. Fai dunque bollire il miele fino a quando non raggiunga una consistenza viscosa e unisci con cura la resina di pino sciolta. Dunque unisci con cura anche gli altri ingredienti e riponi il tutto in un recipiente di terracotta (Materia medica I 25, traduzione di G. Squillace, Le lacrime di Mirra. Miti e luoghi del profumo nel mondo antico, Bologna 2015)».

A distanza di qualche decennio anche Plutarco fornisce la ricetta del kyphi nello scritto Iside e Osiride. A suo dire:

«Il kyphi è un miscuglio composto di 16 ingredienti: miele, vino, uva passa, cipero, resina, mirra, aspalato, seselis; inoltre lentisco, bitume, giunco, lapazio; e, in aggiunta a questi, entrambi i ginepri, l'uno, detto grosso, l'altro, sottile, e infine il cardamomo e la canna. Tutti questi ingredienti vengono mescolati non già a casaccio, ma mentre le sacre scritture sono lette ai profumieri, allorché costoro fanno la miscela. Quanto al numero 16 se pur sembra proprio scelto convenientemente, essendo quadrato di un quadrato e unico, tra i numeri, a formare un quadrato che abbia il perimetro uguale all'area, bisogna dire tuttavia che non contribuisce un bel nulla, almeno per questo scopo; vi contribuiscono, invece, la maggior parte degli ingredienti, che, dotati di virtù aromatiche, diffondono soavi emanazioni e benefiche esalazioni: così l'aria si cambia; e il corpo, ventilato placidamente e blandamente dal suo alito rinnovato, acquista una temperanza che invita al sonno; e allora il kyphi allenta e scioglie, senza dare ebbrezza, le afflizioni e la febbrile tensione delle preoccupazioni quotidiane, come se fossero nodi. Anche il potere fantastico, che è suscettibile di sogni, il kyphi lo fa brillare come uno specchio e lo rende più puro, non meno che le toccate della lira di cui si servivano i Pitagorici, prima di dormire, per incantamento e cura della parte passionale e irrazionale dell'anima. Infatti, i profumi molte volte fanno rinvenire chi ha perduto i sensi e molte volte cullano e addormentano il paziente, allorché le esalazioni si diffondono nel corpo in virtù della loro natura eterea; proprio come alcuni medici asseriscono che il sonno s'insinua, allorché l'esalazione del cibo, quasi serpeggiando blandamente nelle viscere e frugando, produce una specie di solletico.

Gli Egiziani usano il kyphi come bevanda e come balsamo; come bevanda, infatti, sembra che purghi gli organi interni, in quanto è un emolliente. A prescindere da questo, la resina e la mirra sono prodotte dall'azione del sole, allorché gli alberi trasudano al suo calore. Tra gli ingredienti del kyphi, ve ne sono alcuni che a notte deliziano di più, vale a dire quelli che si alimentano naturalmente di venti gelidi, di ombre, di rugiade, d'umidità. Poiché la luce del giorno è unitaria e semplice e il sole è visto, secondo l'espressione di Pindaro “attraverso l'etere deserto” (Pindaro, Olimpica I 6). Ma l'aria notturna è una mescolanza, che risulta dall'unione di varie luci e potenze, come se tanti semi scorressero giù, da ogni stella, confluendo in un unico punto. Giustamente, allora, gli Egiziani bruciano resina e mirra durante il giorno, in quanto che sono sostanze semplici e traggono la loro origine dal sole; il kyphi, per contro, mescolato e vario com'è nelle sue qualità, lo bruciano su gli altari sul far della notte (Iside e Osiride 80 = Opere morali 383e-384c, traduzione di V. Cilento, Plutarco. Iside e Osiride e Dialoghi Delfici, Milano 2002)».

Anche Galeno, nel suo scritto Antidoti, si sofferma sul kyphi inserendolo tra quegli antidoti preparati dal medico Democrate. Secondo Democrate:

«Il kyphi non è un preparato complesso né un preparato semplice. Non è prodotto dalla terra, tanto meno è ricavato dal succo di una pianta. Gli Egiziani lo impiegavano come fumum per onorare alcuni dèi. […]. Lo preparano usando 12 dracme attiche di resina di terebinto, 12 di mirra; 4 di cinnamomo, 12 di giunco odoroso, 1 di zafferano, 3 unghie di bdellio, 2 di semi di aspalato, 3 di spighe di nardo, 3 di cassia pura di buona qualità, 3 di cipero puro; una quantità analoga di bacche resinose e grandi di ginepro. Vi uniscono poi 9 dracme di calamo aromatico, miele e vino quanto basta. Mettono in un mortaio e pestano bdellio, vino e mirra fino a quando il miele non abbia perso la sua compattezza e non si sia liquefatto. Poi aggiungono ancora del miele e vi uniscono gli acini di uva. Alla fine mettono i restanti ingredienti dopo averli pestati. Quindi ricavano delle pastiglie di forma tondeggiante e le offrono agli dèi in forma di fumum (Galeno, Antidoti XIV 117-118 Kühn, traduzione di G. Squillace)».

Ancora Galeno ricorda l’uso del kyphi nella cosiddetta Ambrosia di Filippo il Macedone, un preparato utile a combattere i veleni mortali, i colpi inflitti con violenza, le malattie interne. Il preparato era così composto:

«Storace, galbano, pepe bianco, pepe lungo e cinnamomo in quantità superiore alle 2 dracme; semi di apio, anice, fiori di giunco odoroso, costo, cumino d’Etiopia, seselis, kyphi, rheu del Ponto, cardamomo, amomo, nardo, mirra, cassia in quantità superiore a 4 dracme; noccioli puliti di dattero, polpa di noci in quantità superiore a 6 dracme; zafferano 8 dracme; 12 acini puliti di uva passa; miele Attico quanto basta. Unisci il tutto secondo il procedimento (Galeno, Antidoti XIV 149-150 Kühn, traduzione di G. Squillace, I balsami di Afrodite. Medici, malattie e farmaci nel mondo antico, Bologna 2015)».

Dioscoride, Plutarco e Galeno concordano nel riferire che il kyphi non era un profumo. Del resto fonti come Teofrasto e Plinio il Vecchio, che al tema dedicano rispettivamente il De odoribus e i primi 27 capitoli del libro XIII della Naturalis Historia, non lo menzionano proprio e non lo pongono al fianco di celebri profumi egiziani quali l’Aigyption, il Mendesion e il Metopion. Si trattava dunque di un preparato aromatico, che in forma solida poteva essere bruciato per produrre fumo durante i sacrifici agli dèi, in forma liquida per aspersioni cutanee, o come bevanda per depurarsi.

La natura del kyphi, le varianti nella ricetta fornita dai tre autori, i problemi legati sia all’identificazione di molti degli ingredienti menzionati (ad es. il nardo), sia all’esatta provenienza, e dunque alla forza aromatica, di ingredienti più noti come la mirra, ma anche lo zafferano, rendono arduo riprodurre oggi il preparato così come lo conoscevano Dioscoride, Plutarco e Galeno. Questo certo non impedisce che venga comunque fatto qualche tentativo, come nel convegno Sensing Divinity durante il quale sono stati proposti tre ‘preparati’ fondati sulle ricette di Dioscoride, Plutarco e Galeno), basato tuttavia sulla consapevolezza che esistevano ‘tanti kyphi’ (almeno tre stando alle ricette di Dioscoride, Plutarco e Galeno), e che quanto si cerca con fatica di riprodurre va inteso solo come un’ombra del prodotto/i originale/i. Un modo, questo, comunque utile e certamente suggestivo sia per accostarsi al mondo antico recuperando, laddove possibile, una traccia della sfera olfattiva per larghi tratti completamente ignota, sia per cercare di diradare le tante ombre che per molti versi rendono ancora carichi di mistero tutti i profumi antichi.

[1] L. Manniche, Egyptian luxuries. Fragrance, aromatherapy, and cosmetics in Pharaonic Times, Cairo 1999, 33-46.
[2] Sul kyphi vedi: V. Loret, Le Kyphi: Parfum Sacré des Anciens Égyptiens, «Journal Asiatique» 1887, 11-61; M.C. Betrò, Il kuphi e i suoi ingredienti. Parte I, «Egitto e Vicino Oriente» 14-15, 1991-1992, 43-54; J. Boulogne, Un parfum d’Égypte: le ‘kuphi’ et son pouvoir imaginaire, in P. Carmignani, J.-Y. Laurichesse e J. Thomas (éds.), Saveurs, senteurs. Le goût de la Méditerranée, Actes du colloque, Perpignan 1998, 59-71; K. Vermillion (ed.), Kyphi. The sacred scent, London 2011.