Chiaro di luna sembra pensata e composta da Beethoven come metafora musicale di un legame d’amore romantico.
Le note si rincorrono acute, dolci, gravi, formano spirali turbinose, è un movimento continuo che tende a non finire mai, sembra raccontare un’impossibilità di separazione che sarebbe lancinante e le note continuano, allora, testarde, c’è volontà nel mantenere il legame e anche quando il flusso tende a morire, sopravvive insistentemente con toni gravi e più lenti, finché si dissolve nel nulla, in un silenzio accompagnato inesorabilmente da due rantoli, ultimo tentativo di vita in questa lenta dispersione nell’infinito, note che si accendono non volendosi arrendere, finché esauste, dopo questa lenta e sublime agonia, tutto tace.

Sull’onda di questa sonata fluisce un amore profondo, viscerale, ma sordo e pericolante tra una Madre e la sua Bambina, è un amore difficile, pieno di nodi, un amore che non trova gesto, né le parole per dirlo, è un amore che non può concedersi, ma rimane muto e prigioniero di fantasmi spaventosi. Quasi che, in quella coppia, ne fosse bloccata l’espressione, come se non ci fosse accessibilità agli affetti, al contatto e la Bambina, terrorizzata dalla solitudine e dal dolore ne rimane ustionata, disorientata, non riesce a trovare nel grembo mentale della madre un’adeguata ospitalità, sembra non esserci un posto per lei, tantomeno può vivere il ristoro di un rifugio e l’esperienza di questo non accoglimento la fa sentire indegna, brutta, forse anche cattiva.

E la cattiveria la sente verso la Madre e la abita pervicace, si installa in lei abbarbicandosi nelle viscere della sua mente infantile, come se fosse un virus difficile da debellare, un parassita che le invade il pensiero e che, come un tormentone, la indurrà a mendicare affetti come per risarcire quell’originaria mancanza, quell’amore congelato, inaccessibile, sentito, a volte, addirittura rifiutante. Un abisso insostenibile.

La Bambina, vestita della fatica di bonificare quell’esperienza traumatica, scoprirà però il piacere di scrivere poesie, una passione che la accompagnerà e la aiuterà a metabolizzare il dolore depositato in lei, attraverso la possibilità di risognarlo, quindi di trasformarlo nelle sue immagini poetiche. In questo modo la funzione narrativa-mitopoietica permette all’impensabile di trovare uno spazio-tempo per poter essere pensato, tessuto in immagini che raccontano memorie prima occluse e che trovano ora dicibilità e rappresentazione in un palcoscenico dove i personaggi danno vita alla sua verità.

Tu che con braccia severe
mi allontanavi
e mi atterrivi con storie di fantasmi
ora t’affacci timida da sopra il muro
per timore di essere schiacciata.
Nevica
e i tuoi piedi freddi in una
vaga foschia di impronte.
Inconsolata mi tendi
la mano, ché la speranza è anche dei morti.
Così madre bambina percorri i viali
tu che dominavi, incerta,
finalmente un sorriso
sulla chiusa falce delle labbra.
Ma nevica e la giornata
volge alla sua fine – nemmeno questa volta apportando il perdono
o l’oblio.

(Anniversario dei morti)

Intanto, la Bambina è diventata una donna forte, coraggiosa, intraprendente, mentre la Madre morta appare come fantasma di bambina spaventata, insicura che le tende la mano, si sono invertiti i ruoli, ma la Bambina interna nella donna è ancora macchiata di rosso sangue, continua a rovistare nel suo dolore e dilaniata dagli strazi dell’esclusione può provare solo risentimento, non può dimenticare, né perdonare.

Solo trent’anni più tardi, con nuove esperienze di vita, incontri, successi, delusioni, la Bambina può mettersi nei panni di sua Madre, e cambiando lo sguardo, riesce ad intravedere lati di lei prima scotomizzati, riesce a percepire una donna molto dotata, apparentemente forte, in realtà insicura, incapace di decollare, ma soprattutto sola, ripiegata su di sé tremante di paura, incastonata nell’impossibilità di accedere alla vita. E questa volta racconterà cosi la loro storia.

Io ero troppo piccola allora
Quando lei ancora suonava
E non voleva nessuno
Nessuno intorno che la sentisse.
Chiudeva la porta del piccolo salotto
Dove stava nero e silenzioso
Il pianoforte verticale.
I suoni oltre la porta di vetro smerigliato
Non si udivano quasi
Le sue bianche mani
Celebravano il mistero
Sui tasti neri e bianchi
A tutti noi precluso.

Solo a volte ero ammessa ad entrare
Quando lei aveva un momento di
Malinconia
E forse ricordava la sua infanzia
Qualcosa
Di perduto per sempre
Lei ricordava e inseguiva
E il dolore le ammorbidiva la voce
Mentre suonava le note le modulava piano.
Si capiva che non era più là, ma altrove.
Si capiva se avessi potuto capire.
Ma io ero troppo felice
felice? Non felice – ero presa da un incanto
là nell’angolo in fondo del salottino in
penombra
accovacciata su una sedia da cui le mie
piccole gambe
pendevano nel vuoto.

Là solo potevo stare – a distanza
ma ecco che nonostante tutto
miracolosamente ero ammessa
allo spettacolo di quel dolore
che a me appariva una sommità di gioia.

Quasi non respiravo – guai se avessi fatto
il benché minimo rumore
subito sarei stata cacciata
e forse per sempre esclusa.

Lei era bella – io la guardavo
in quella penombra in quella musica
ancora oggi mi viene da piangere ma
come allora trattengo le lacrime.
Suonava per me? sì, suonava per me.
Suonava il Chiaro di luna e la sua voce
si levava al di sopra della musica
ecco – diceva- questa è la luna che sale
e io la vedevo bianca oh così bianca
un pallore che il cielo non bastava a
contenere.
Da allora amo la luna fino a starne male.
E queste sono le nuvole – diceva – che
Passano
davanti alla faccia della luna.
E io vedevo quei veli fascinosi e fantastici
Vedevo il mistero dell’apparizione
E della sparizione che compiva.
Lo vedevo tanto bene che non l’ho più visto così bene.

….

E io allora ero riconciliata con lei, mia madre
Che sempre mi respingeva
- ero accolta - ero tutt’uno con lei.
Era la luna, la sua luce bianca,
la sua bellezza che poi si velava -
qualcosa velava – di così indistinto,
indefinito, indefinibile, sfuggente
e io – piccola e brutta –ero parte di lei,
il sogno diventava reale ed era un sogno d’amore.

Poi lei chiudeva il piano di scatto
La musica era finita – riponeva lo spartito
E subito trovava il modo
Di sgridarmi per qualcosa, rimproverare una mia manchevolezza

….

La luna era tramontata.
Il cielo era buio e tempestoso.
Il pianoforte, buio e verticale, taceva.

(Il chiaro di luna di Beethoven)

Un’appassionata storia d’amore, un canto nostalgico e accorato per quel primo irriproducibile, infinito bene, fonte di felicità sublime e, allo stesso tempo, di dolore acuto che risuonano di un’intensità e di una bellezza che commuovono e lasciano senza parole.

Quel desiderio di mamma, quell’anelito di vicinanza, quel bisogno di essere ospitata e resa partecipe del suo mondo che, anche se doloroso, diventa per Bambina un momento paradisiaco, è l’ebbrezza di essere riaccolta nella galassia della “prima dimora” (Freud).

“Al principio c’era l’oggetto estetico, e l’oggetto estetico era il seno e il seno era il mondo” (Meltzer).

E la Madre, scrigno che vela il segreto, sacerdotessa che celebra i riti del mistero, suscita nella Bambina un’intimità passionale procurandole stati di grazia e di strazio, per non sapere cosa cela quel bel volto amato: il fuori è meravigliosamente attraente, ma il dentro è sconosciuto e ambiguo. Lo stato di estasi è nell’essere ammessa nella stanza della Madre, poter assistere al suo accoppiamento intimo e segreto col pianoforte verticale in frac, poter condividere il rito-ritmo della musica, in un unisono di vortice sonoro che scandisce le emozioni primarie, emozioni incarnate che vibrano e si espandono nel corpo ancora prima della parola: il battito del cuore, la danza del respiro, il suono del pianto, il pulsare delle vene, la cadenza della poppata. La musica cattura e tocca il ritmo dell’essere prima ancora del visibile, fin nella vita intrauterina si percepisce il suono di mamma, la sua voce, il gorgoglio degli organi interni, il fruscio dei suoi movimenti.

“Tutto è ritmo, tutto il destino dell’uomo è un solo ritmo celeste, come ogni opera d’arte è un ritmo unico, e tutto oscilla dalle labbra poetanti del dio” (Hölderlin).

È la Madre che la inoltra nel linguaggio musicale, le mostra i paesaggi sonori, le indica i movimenti delle nuvole, le rivela i segreti della luna che, col suo biancore inebriante, trasborda dal cielo e quell’algida luce di perla diventerà un tutt’uno col pallore del volto materno, luce che la allaga e la incanta in una contemplazione muta, proprio come fanno gli indovini col templum, spazio celeste dove possono leggere la verità scrutando il volo degli uccelli.

Le spaziature nel ritmo poetico e musicale aiutano la Bambina a tollerare la separazione e la sua pelle mentale slabbrata dagli strappi dell’allontanamento si riammaglia, a poco a poco, tessendo poesia. La Bambina troverà nella poesia il suo spazio-tempo, la poesia diventerà il luogo dove ospitare e dove ospitarsi, la poesia come metafora materna l’aiuterà a non sentirsi sola, a giocare con le immagini, a ritrovare quel volto, origine del mondo. Ed è stata proprio la Madre-luna ad aprirle questo varco di luce nella vita, mostrandole come guardare le cose, come sognarle, come farle poesia: questo è il grande dono che le ha fatto. Questa Madre-musica parlandole un linguaggio sotterraneo, pre-simbolico, fatto di suoni, di immagini, di sensazioni, le ha fatto incontrare le Muse della poesia e insieme hanno danzato quei suoni, immagini, sensazioni trasfigurandole in parole.

La Madre-perla le ha fatto scoprire la luna dalla luce incontenibile, l’ha soffusa di un bagliore inondante, vivendo all’unisono il mistero di quell’amore ineffabile, quasi doloroso “da allora amo la luna fino a starne male.”

Le poesie Anniversario dei morti e Il chiaro di luna di Beethoven sono di Donatella BIsutti