Ecuba che, dall’alto delle mura di Troia, ha visto Achille uccidere Ettore si strappa i capelli e lancia altissimo un penetrante urlo di dolore; dopo di lei il padre gemerà e il popolo, come in un’eco, farà risuonare singhiozzi e lamenti.

Il grido della madre, la sua voce straziata non può essere parola, non può farsi linguaggio poiché è evento individuale, è soltanto intensità, non entra nel tempo della storia e non si propone di comunicare, di dire.

Come uno squarcio che lacera il corpo, una voragine che si spalanca, quel grido viene dalle viscere e inonda ogni cosa come un fiotto di sangue; rimbomba nello spazio e lo riempie come un’esplosione di potenza, un flusso la cui natura fortemente fisica ha in sé il brivido della morte e la disperazione per una vita che non può più essere vissuta.

È con un grido che la madre strappa dal suo ventre la propria creatura e la affida all’esistenza, è un grido che precede il muto silenzio della pietà che torna ad accogliere il figlio morto nel proprio grembo.

L’urlo di Ecuba condanna la guerra e l’orrore che l’accompagna più di ogni parola, risuona con la stessa violenza, la stessa intensità degli sguardi attoniti che sembrano impietrire i volti che ogni giorno ci arrivano come immagini strazianti: madri che invano vorrebbero ridare la vita ai propri figli uccisi dalla follia accecante del potere.

È la voce che gli antichi dicevano generata dall’alchimia dei fluidi interni, quella che si coagula negli organi vitali, presso il cuore e il diaframma, là dove ha sede il thymòs che è forza, energia, ira, impulso istintivo ed ha la stessa etimologia di fumus, quello che nella visione dantesca esala dal petto quando pulsano le passioni. È la voce che insieme alle mani, ai piedi e ai genitali rappresentava nel pensiero indiano “i sensi dell’azione” diversi da quelli “mentali” che sono gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua e la pelle.

Una potenza sonora che prima di essere canale di trasmissione delle parole è imperiosa affermazione di presenza, una materia pulsante che appartiene fortemente alle donne che spesso hanno dovuto e devono affermare il diritto di esistere e di ricevere ascolto prima ancora del diritto alla parola.
Un modo espressivo da loro conservato in tutta la sua forza poiché più a lungo è durata e permane nel loro esprimersi la non separazione tra respiro del cuore e lingua della mente.
Come le lacrime che, per Valéry, sono l’espressione della nostra impotenza a disfarci, attraverso la parola, dell’oppressione di quello che siamo.

Ma la poesia, anche la poesia tragica ha bisogno di parole per tradurre la potenza di questa voce, anche se è faticoso cercare di assegnare nomi a ciò che è indicibile.

Il verbo greco kokýo traduce lo strazio urlato dalla madre in una sorta di ululato, un verbo che pare identificarsi con i modi femminili del dolore, quasi sempre usato per riferirsi al compianto funebre nel quale le donne sono ieratiche presenze: nei gruppi lignei che le ritraggono con il volto contratto in uno spasmo che soffoca il respiro nel silenzio attonito, nei riti funebri del passato e nelle sopravvivenze rituali dell’oggi.

Altro invece è il gemito del padre espresso dal verbo oimòzo: accanto alla lamentazione esso contiene, nell’uso meno letterario, una imprecazione, una sorta di rifiuto maledicente di un destino inaccettabile, un dolore che è soprattutto rabbia, che cerca colpe, che si riversa all’esterno.

Le Supplici si rivolgono alla divinità con il grido sacro: ololyghè è il suono onomatopeico con il quale le donne elevano con forza la loro preghiera e rendono grazie agli dei.

La profetessa invasata non parla, strepita con il fragore dell’urlo, musicale e potente come il boato che emana dalla Terra. Nel verbo boào c’è il rimbombante clamore della battaglia, il fragore della guerra, il mugghiare del mare e dei flutti, l’ululare del vento, il verso degli uccelli.

Sono i suoni che emette la pòtnia theròn, la signora degli animali, dea e maga, per poter esercitare su di loro il proprio dominio.

Molte culture antiche e moderne riconoscono a queste emanazioni sonore un grande valore sacrale, divino, addirittura taumaturgico.

È questa voce che, in forma di sibilo, entra nell’orecchio dello sciamano e ne riempie il corpo, il cuore, le orecchie, la lingua facendolo tremare come un albero squassato dal vento fino a condurlo fisicamente ad una sorta di esplosione interna con fuoruscita di sangue.

Uno “strepito sonoro” effonde dal cuore di Caterina da Siena quando “ritorna” dall’esperienza mistica. Un suono forte che le stesse consorelle che le stanno attorno possono udire secondo la testimonianza del suo allievo e insieme padre spirituale Raimondo da Capua.

L’urlo è il contatto della lingua umana con la voce soprannaturale, se il controllo della ragione, la ratio, non interviene a trattenere il fiato che vuole gettarsi all’esterno senza subire la regola del linguaggio: qualcosa che ha in certo modo legame con l’eros che scuote il corpo delle mistiche durante lo stato di estasi, quell’ebrezza d’amore che attraversa e schiude le labbra di Teresa de Jesus ritratta nella splendida e sensuale scultura di Bernini.

L’indovino Tiresia sul punto di vaticinare si morde il labbro come per tenersi a freno, per non lasciar uscire ciò che non vorrebbe fosse rivelato.

All’urlo del corpo, al grande silenzio dell’animo l’uomo deve sostituire nella comunicazione sociale la parola che risuona come una traccia raffreddata, soltanto memoria della phonè che sgorgava libera dalla cavità del corpo in risposta a una chiamata dello spirito.

Il rapporto tra voce e parola è espressione di quel passaggio dalla Natura cruda alla Natura cotta che Levy Strauss identifica con la cultura.

È la conversione della materia istintuale in alimento, la trasformazione degli elementi che sono in Natura perché, una volta elaborati, possano essere imbanditi per il nutrimento dell’umanità.

È una legge che costringe lo spirito entro limiti stabiliti, entro la rete dei significati e impone il silenzio alla voce sfrenata del cuore.

Alle parole come ai nostri pensieri dei quali esse sono espressione si impone di adeguarsi agli abili trasformismi del dire quotidiano, di elaborare spiegazioni che facciano sentire sicuri, ben collocati in un ordine nel quale ogni cosa ha un nome certo, una consequenzialità senza rischio.

La forma lineare della lingua crea l’illusione che le cose siano spiegabili, che le si possa comunicare rapidamente, che le si possa analizzare nei dettagli, che si possa controllarle.

Le parole creano spiegazioni che si estendono in un ordine sequenziale di tempo e di spazio, ma le spiegazioni non sono capaci di governare l’immensa vastità che sta al di là di ogni linea costiera oltre la quale non possiamo spingerci con le sole parole.

Tutte le nostre spiegazioni sono isole alle quali approdiamo e dove cerchiamo di fermarci con la speranza di realizzare quel “per sempre” al quale aneliamo. Eppure sempre dobbiamo metterci in cammino per incontrare il vuoto che sta oltre la pienezza di significato che cerchiamo di dare alle cose.

Chi si mette in viaggio per incontrare la propria interiorità e al tempo stesso dialogare con altri viaggiatori non può affidarsi soltanto alle parole, deve restare attento al linguaggio molteplice che la Natura e lo spirito universale non smettono di inviarci: il vento, le stelle, le tempeste che infrangono le certezze della direzione, della rotta, dell’approdo sono segnali che ci parlano con infinite forme, comunicazioni che si registrano in noi anche se non ne siamo consapevoli.

La parola è un tramite, un’imbarcazione che ci conduce nel mare aperto del comunicare.

La parola sa farsi approdo ma ha bisogno di navigare.

Senza quell’al di là di vento e di mare che risveglia il desiderio del viaggio, che rimette in gioco la sosta nel porto sicuro e rilancia l’andare, la parola ristagna, immalinconisce, non sa più vedere la perfezione del cielo, respirare l’aria pura e corroborante dell’oceano, godere della bellezza di fiumi e montagne: si accontenta delle spiegazioni.

La completezza del sentire e direi anche del vivere non può esaurirsi nella parola che definisce e delimita, che traduce e tradisce le emozioni: la si incontra oltre ogni formulazione di discorso.

“Quando ci apriamo al vento e al mare, il vento ci penetra con il suo respiro e il mare si riversa dentro di noi fino a mutarci. Poi il vento diventa i pensieri del nostro pensiero e il mare la forza del nostro agire. Quando torniamo alla terra e alle parole conserviamo la sconfinatezza. Con le nostre menti pensiamo come il vento, coi nostri corpi agiamo come il mare”. [1]

Quando diventiamo il vento e il mare possiamo davvero navigare e le parole nostre e degli altri possono spingersi oltre il limite fissato, possiamo intrecciarle, comprenderle.

La comprensione che cerchiamo non si trova nelle parole bensì nello spazio inspiegabile al di là di esse.

Quando mi parli conservo dentro di me i tuoi occhi
Quando mi parli ascolto le tue mani
Quando mi parli vedo le fossette sulle tue guance
Quando mi parli mi accarezza il tuo sorriso

A cura di Save the Words®

[1] Ray Grigg, Il Tao della barca, Editrice Corbaccio, Milano, 1994