Il realismo è necessità storica dello spirito

(Mario Rapisardi, La morale dell'arte)

Sintesi estrema di quelle premesse tanto care al determinismo positivista diffusosi in Francia nel corso della seconda metà dell'Ottocento, L’origine du monde (1866) di Gustave Courbet porta a compimento la tecnica di lettura oggettiva e impersonale della realtà che fu il caposaldo del realismo prima e del naturalismo poi, esasperando allo stesso tempo la fiducia che queste due correnti riposero nelle possibilità di oggettivazione delle qualità del mondo reale all'interno della rappresentazione artistica.

Nel far leva sui presupposti scientifici del positivismo per giungere a un'arte finalizzata così al rigore dell'impersonalità, il movimento realista puntava com'è noto sulla riduzione se non addirittura sull'annullamento del tasso di figuralità di quel che veniva rappresentato. Che si trattasse di un travail de peinture o di un’oeuvre de lettres, ogni prodotto artistico – e dunque, a pieno titolo, anche e soprattutto quest'opera così fortemente esemplificativa di un realismo portato alle sue più estreme conseguenze – doveva rispondere a ben precise scelte di metodo e porsi come obbiettivo una riproduzione il più possibile immediata della realtà. La norma o l'insieme delle norme attraverso le quali poter attenuare l'evidenza della mediazione artistica erano quindi legate indissolubilmente alla facoltà/volontà dell'artista stesso di ridurre il potenziale allegorico delle proprie creazioni, o persino di rimuoverlo. Conseguentemente, il metro di valutazione con il quale riconoscere il valore e l'efficacia di un'opera d'arte nel comunicare con il pubblico, osservatore o lettore che fosse, diventava teoricamente quello di una chiarezza intuitiva tale da permettere la conoscenza della realtà senza passaggi intermedi.

Ragionando in termini astratti, è quasi scontato che per raggiungere il massimo grado di immediatezza un'opera di tipo figurativo dovrebbe rinunciare all'ausilio di una proposizione linguistica che, sotto forma di titolo, si possa configurare come primo irrinunciabile passaggio esegetico interposto fra l'osservatore e l'opera osservata. Trattandosi di arts visuels, è infatti ovvio che in presenza di un titolo ogni tipo di sforzo interpretativo si articoli inevitabilmente in due momenti: l'analisi del titolo quale manifestazione linguistico-letteraria di un referente figurativo e l'analisi di questo referente in qualità di soggetto artistico. Al di là di ogni possibile spiegazione relativa all'ontogenesi del titolo – per alcuni artisti la manifestazione letteraria potrà essere l'impulso dal quale scaturisce il momento creativo, per altri la scelta di un determinato percorso formale, per altri ancora il punto di arrivo di un processo inizialmente sgravato da qualsiasi appiglio o segnale per così dire orientativo –, il fatto stesso che un titolo venga a far parte di un'opera figurativa e crei insieme a questa un compositum denota la volontà dell'artista nel voler caricare di senso la propria creazione, così da imporre all'osservatore una scomposizione preliminare e obbligatoria alla decodifica dell'oggetto osservato. E tanto più il titolo si approssimerà significativamente all'immagine cui è applicato, tanto più immediata sarà questa decodifica e minore lo sforzo esegetico da compiere. (Ad esempio, rimanendo nel novero delle opere più celebri di Courbet, un efficace modello potrebbe essere costituito da Les casseurs de pierres (1849), gli spaccatori di pietre: il titolo in questo caso non si limita nemmeno a una funzione informativa, poiché ciò che è raffigurato sulla tela è la sua esatta traduzione in immagine). Viceversa, risulterà indispensabile il lavoro interpretativo quanto più allusivo sarà il titolo assegnato a una determinata opera. In quest'ultimo caso, ne deduciamo perciò che attraverso un rapporto funzionale l'oggetto significato è mediato da due significanti, uno linguistico e uno figurativo.

Alla luce di quanto detto finora possiamo affermare quindi che L’origine du monde, pur aderendo formalmente ai più stretti canoni del realismo, si sia spinta ben al di là della semplice tendenza programmatica a rappresentare ogni cosa nella sua mera concretezza. Si potrebbe subito argomentare dicendo che, anche quando Courbet si fosse voluto limitare alla sola traduzione in immagine di un dato del mondo reale, sarebbe opportuno parlare non di realismo in senso stretto, bensì, per usare un'efficace formula di Auerbach che in Italia è stata fraintesa già dal suo primo apparire, di «dargestellte Wirklichkeit», cioè di realtà rappresentata. Difatti, già l'atto stesso del rappresentare costituisce di per sé una mediazione, ossia un'interposizione fra il dato reale che si intende rappresentare e il fruitore di questa rappresentazione. Ma l'artista francese, nella scelta di un titolo che in nessun caso potremmo definire casuale, è andato oltre, poiché non ha inteso né raffigurare una semplice imago tituli né utilizzare un titolo che risultasse in qualche modo asetticamente informativo per l'osservatore, come era accaduto e accadrà ancora nel corso della sua carriera di pittore.

Titolo e immagine, in questo caso, vanno delineandosi non soltanto come significanti che rimandano a un unico oggetto significato, ma anche come i due poli di una stessa figura, in cui il primo (il titolo) significa anche il secondo, mentre quest'altro (l'immagine) comprende in sé il primo. Se si considera dunque che il primo di questi due, alludendo all'origine del mondo, è un termine quanto mai astratto, si comprenderà facilmente che il legame che unisce i due poli è del tutto arbitrario e intenzionale, e ricadente perciò nel territorio dell'allegoria. Voler rintracciare un procedimento di tipo figurativo in un'opera che da sempre è stata ammirata e contemporaneamente osteggiata proprio per la sua cruda immediatezza potrebbe forse apparire eccessivo.

Tuttavia, se considerato attentamente in una prospettiva dinamica ed evolutiva, il realismo non presupponeva affatto il radicale azzeramento del tasso di figuralità, se non nell'evenienza che questo potesse ostacolare la funzione sociale dell'arte. Nella maggior parte dei casi l'esercizio pratico del realismo – che, è bene ricordarlo, si era sviluppato in seguito ai moti rivoluzionari del 1848 e alle spinte democratiche che ne erano seguite – sia in arte che in letteratura muoveva dalla convinzione che attraverso la rappresentazione concreta della realtà e l'abbandono delle idealizzazioni romantiche fosse possibile mettere in luce quelle disuguaglianze che erano di fatto il terreno su cui poggiava la società dell'epoca. Questo, allo stesso tempo, non impediva il concretarsi di forme espressive accessorie ma ugualmente importanti, condotte con lo stesso metodo ma sostanzialmente prive di alcun risvolto assistenziale.

A questo proposito, può risultare utile un breve richiamo alle parole dello stesso Courbet, il quale, in occasione del Pavillon du Réalisme del 1855, pubblicò un pamphlet divenuto in seguito un vero e proprio manifesto: «L'attributo di realista mi e stato imposto come agli uomini del 1830 s'impose quello di romantici. In ogni tempo le etichette non hanno mai dato una giusta idea delle cose; se fosse stato diversamente, le opere sarebbero superflue. […] Ho studiato, al di fuori di qualsiasi sistema e senza prevenzioni, l'arte degli antichi e quella dei moderni. Non ho voluto imitare gli uni né copiare gli altri; non ho avuto l'intenzione di raggiungere l'inutile meta dell'arte per l'arte. No. Ho voluto semplicemente attingere dalla perfetta conoscenza della tradizione il sentimento ragionato e indipendente della propria individualità. Sapere per potere, questa fu sempre la mia idea. Essere capace di rappresentare i costumi, le idee, l'aspetto della mia epoca, secondo il mio modo di vedere; essere non solo un pittore ma un uomo; in una parola fare dell'arte viva, questo è il mio scopo». Poche e semplici parole alle quali il pittore affida le sue intenzioni, il suo sguardo franco, la sua scelta critica e soprattutto il suo nuovo linguaggio artistico. Una scelta pittorica dirompente, che trasgredisce i codici convenzionali e le regole e affronta la realtà sulla scorta della conoscenza interiorizzata dell'arte del passato, studiata più sui banchi del Louvre più che su quelli delle accademie.

Courbet non è stato un grande teorico, e più delle sue semplici frasi sono i suoi quadri a parlare in maniera chiara. Si tratta di opere che nella loro verità e apparente immediatezza mostrano le contraddizioni del presente e diventano lo spunto per una riflessione attorno alla nascita, a metà del XIX secolo, di una grande stagione pittorica di cui è stato, appunto, il principale protagonista. Ma l'arte realista non è solo un rispecchiamento delle trasformazioni sociali in atto e il linguaggio delle forme parlato da Courbet non è la meccanica traduzione dei nuovi contenuti politici. L'arte realista, e la sua pittura in particolare, non è la mera illustrazione del conflitto sociale che in quegli anni infuocati opponeva alla borghesia la nuova coscienza del proletariato, bensì manifesta, con i suoi peculiari e autonomi mezzi, le medesime caratteristiche rivoluzionarie, antigerarchiche e democratiche.

Troppo spesso le opere del pittore francese sono state sbrigativamente liquidate come «democratiche», eppure, in relazione al presunto potenziale allegorico dell’Origine del mondo, sta proprio qui il nodo della questione. La sua democrazia pittorica non sta solamente nella scelta non discriminatoria e non convenzionale dei temi da rappresentare ma soprattutto nel come questi soggetti-non-soggetti vengono rappresentati e presentati al pubblico. Dipingendo un organo genitale femminile in tutta la sua consistenza fenomenica, e apponendovi un titolo tanto arbitrariamente determinabile, Courbet carica di significati la propria opera facendosi latore di un auspicabile abbattimento delle scale gerarchiche, del bisogno di orizzontalità che fermenta in seno alle società del tempo. In altri termini, una riconduzione cifrata alla comune scaturigine della specie umana, al di là delle successive e alteranti scale di valore con le quali – secondo un pensiero già ampliamene sviluppato nella metà del IX secolo – l'uomo avrebbe innescato la disuguaglianza sociale, ingiusta e pregiudizievole per gli individui appartenenti alla collettività. Se la vagina è centro anatomico femminile e attrazione irresistibile per il maschio, nella celebre tela di Courbet è anche passaggio fisico e insieme metafisico fra il buio e la luce, l'origine di ogni uomo, finanche del Figlio di Dio che secondo la religione cristiana venne custodito nel ventre di una donna e da lì generato.