Le Grandi Pagine misurano un metro e ottanta di altezza per un metro di larghezza. La misura è il segno di una passione. Con uno sguardo ben disposto che vede la bellezza delle relazioni come un bene comune da condividere, le Grandi Pagine dialogano con le persone, le piante, gli animali che arricchiscono la mia realtà.

Mi rivolgo inoltre alle grandi donne del passato che hanno lottato per rimanere fedeli a se stesse e hanno condiviso la mia stessa attenzione per ciò
che accade in natura; l'hanno studiata, narrata, dipinta, cantata. Ho iniziato negli anni Ottanta con Ildegarda di Bingen, la Sapiente del Medioevo. In questo momento da uno sfondo opaco sto riportando alla luce una delle figure intellettualmente più rilevanti della Costantinopoli del VI secolo. Si tratta di Giuliana Anicia pronipote di Galla Placidia. Per me queste grandi donne non appartengono al passato ma sono mie contemporanee. Infatti credo che la contemporaneità prenda volentieri ciò che fa parte della nostra memoria e che poi dalle mani dell'artista viene rinnovato e ravvicinato.

Per riportare alla luce e per conversare con Ildegarda di Bingen, con Giuliana Anicia, con Marina Cvetaeva, sono andata fuori scala. Mi sono allargata. È l'unica possibilità che ho a disposizione per divenire testimone e contemporaneamente onorare persone, luoghi e tempi che hanno segnato e segnano profondamente la mia vita. In queste Grandi Pagine scrittura e immagini viaggiano liberamente nello spazio. La scrittura ha un forte impatto visivo; a volte nasce e a volte viene nascosta da immagini che da altri tempi e da altri luoghi ci pongono domande. Insieme – immagini e scrittura – creano una moltiplicazione visiva, una sospensione, simile ai lampi di genio che provo quando "in un'aria diversa" vado in bicicletta lungo l'argine del fiume.

Ma in questo periodo sono attratta dal nulla. La Grande Pagina appena terminata sembra non essere stata neppure sfiorata dalla mano. Niente; due tulipani che per una loro spinta interiore tentano di uscire dalla pagina e da terre lontane ecco apparire la scrittura appena leggibile.
Niente, tranne la mano della natura.

Mariella Busi de Logu

Passioni smisurate
Passioni smisurate sedate dalla e nella scrittura e nella pittura. Quello che colpisce in Mariella Busi – ciò che mi ha colpito, personalmente, è la vertiginosa capacità di svestire i propri sentimenti, di lacerare quasi la propria intimità, di denunciarsi in tutti i modi e in tutte le forme. E questo potrebbe essere il lavoro di una grande scrittrice, grande nel senso di capacità di parlare con se stessa, ma potrebbe anche essere tacciato di artificio. Questa accusa di artificio verrebbe supportata dal fatto che l’autrice parla addirittura con Hildegarda von Bingen. Potrebbe… A far chiarezza ci aiuta Cesare Pavese che aveva detto sulla scrittura femminile, sulla capacità della scrittura femminile di relazionarsi in maniera autentica fuori dal tempo cose molto interessanti. Scriveva infatti Cesare Pavese che per le donne non esiste la storia: le donne parlano indifferentemente con la dama Murasaki, con Madame de La Fayette, con Saffo, e quindi… con Hildegarda von Bingen. Un’osservazione come questa non ci si aspetterebbe di trovarla in Pavese, uno scrittore che aveva uno sguardo abbastanza scettico, uno sguardo filosoficamente molto preciso. Pavese cita, come la prima delle donne con cui le altre donne dialogano, la dama Murasaki. E’ un caso abbastanza particolare il caso della dama Murasaki. Come molti sapranno - se non lo sanno, come fanno gli americani abbiamo il dovere di informarli – la dama Murasaki scrive un libro verso il 999, mille zero tre della nostra epoca in Giappone, un libro che è considerato uno dei massimi capolavori della letteratura giapponese. Il suo titolo è Storia di Genji il Principe splendente. Romanzo giapponese dell'XI secolo. E’ un’opera immane, tradotta in Europa per la prima volta negli anni Venti del secolo scorso, che da allora non ha cessato di suscitare interesse e stupore… Lo cito perché se uno lo legge può immaginare, può arrivare a immaginare perché esista questa possibilità delle donne di parlare con le altre donne senza la barriera del tempo. Una cosa che per la mente maschile è inimmaginabile. Noi sappiamo di grandi scrittori che dicono di mettersi a fronte di altri grandi scrittori… e così pure di filosofi o di storici, però un conto è mettersi a fronte, un conto è dire “io sto parlando con Hildegarda von Bingen”. Sono due passi molto diversi. Un conto è dire “io interpreto, dialogo ecc. con x”, un conto è dire “mi accompagna in bicicletta, sento…, parlo con lei”: per qualsiasi uomo è una cosa un po’ assurda, una cosa “da matti”.

Cesare Pavese ci garantisce invece che le cose stanno così, quindi, se ce lo garantisce lui possiamo stare tranquilli che aveva studiato il problema in profondità. Tutto questo ci riporta al discorso sull’autenticità di ciò che Mariella scrive. E’ un’autenticità che mette a dura prova un uomo perché, se vi capiterà di leggere dove parla della cucina, di quando lei cucina… vi renderete conto che raggiunge l’apice della spoliazione. Lei si mette a nudo in una maniera terrificante. Lei dice: io butto via questo perché ho paura che sia avvelenato, poi cucino, via, non è buono, oddio avveleno i miei nipoti… Non più il ridicolo o la ridicolizzazione di sé, ma la mostruosa messa in scena di sé; cioè il particolare viene esaltato fino al punto di straziare. Vien da dire: Mariella ma cosa diavolo scrivi? Ma non si scrivono cose così! Lei le scrive perché sa che può scriverle, perché altre donne hanno scritto questo; per esempio nessuno come la dama Murasaki riesce a descrivere le passioni d’amore tanto a fondo e in maniera così scarnificata e totalizzante. Su questa autenticità costruiamo ora il legame tra il libro e le Tavole. Qual è il rapporto di autenticità che lega il libro con le Tavole? La scrittura è il dato formale che lega le due cose. Noi troviamo scrittura qui e scrittura sulle Tavole. C’è però un dato tragico che lega il contenuto di Ravenna ravenna con questo libro con le Tavole: è l’Apocalisse. Le Tavole che noi vediamo, le parole che noi leggiamo sono le Tavole di uno che ha già vissuto l’Apocalisse e ci presenta un mondo che è già andato, che è già stato consumato. Non è un caso che queste grandi Tavole, questi lavori, vengono dopo quel lavoro sulle terre degli anni Novanta, i lavori sull’acrilico insomma; dico non è un caso, perché lì viene divorata a poco a poco e lasciata la testimonianza che l’Apocalisse c’è. Sottobraccio, nella leggerezza che dice Mariella, ci sono i fogli di ciò che è rimasto di un’Apocalisse interiore, di una distruzione totale, della macerazione di tutto ciò che la porta poi verso una nevrosi assoluta, che lei denuncia in tutti i modi possibili, dal prendersela con i cani, col tempo, con tutto quello che succede, un circuito che sembra essere chiuso, finito in se stesso, dal quale rimanga soltanto quel perdersi nel vento, questo vento che si presenta sempre, inquietante. Che invece fa sì che lei possa lasciare tracce, testimonianze. Qualcuno dice che la vita ha un senso solo perché lascia tracce. No, la vita di Mariella assume senso - che è la domanda fondamentale che ci poniamo sempre, tutti i giorni, “ma che senso ha?” – assume senso perché materializza queste nevrosi, questo drammatico farsi della giornata e disfarsi, questo dramma della notte che non si consuma e si materializza in Tavole che danno una testimonianza, che ti rimandano a una possibilità di vita, che te la rimettono in mano, ti rimettono in gioco attraverso una pianta, un fiore. Certo, entriamo nello spostamento, in quel piccolo spostamento per cui quella cosa che è sempre esistita la vedi per la prima volta con quei colori, con quelle grafie messe accanto, quei quaderni che si animano e camminano da soli simili ad animaletti che li avevano preceduti e che se li portano sulle spalle. Questo è il secondo dato del viaggio. La testimonianza di un’Apocalisse interiore, che è un’Apocalisse che ci riguarda tutti.

Chiudo, paradossalmente, parlando della fede nella leggerezza. C’è questa fede assoluta che Mariella ha della sua leggerezza, della dimensione della leggerezza rispetto alla pesantezza della vita, alla pesantezza dell’aria, che si trasforma in amore assoluto per la città, per i campi, per le valli, e nello stesso tempo un amore assoluto verso quella che lei ritiene la sua prole. Poi confessa invece “forse sono tentata di uccidere tutti quelli che mi stanno attorno”. Confessione durissima… apocalittica. Io credo che solo persone che hanno scavato profondamente, duramente e dolorosamente dentro se stesse, possano riportare a casa tutto questo. Ma, molti che fanno questo non hanno purtroppo l’ultima chance, cioè quella di poterla riconsegnare come testimonianza, cioè poterla disegnare, trasmettere, scrivere, farne un grafema, farne queste immagini che sono allo stesso tempo dolorose, e ironiche, che ci viaggiano accanto, che non puntano a stupirci, puntano a coinvolgerci, puntano a chiamarci uguali in un destino. Quindi, penso che il suo lavoro sia, e sono d’accordissimo con quello che diceva Maria Grazia Marini: “…che è un lavoro non solo di autenticità, di amore, ma il cuore pulsante della città”. Credo veramente che Mariella Busi De Logu sia una voce straordinaria, e una grande ricchezza per tutti noi e per Ravenna. Grazie.

Intervento di Walter Pretolani per la mostra Nero Scarlatto di Mariella Busi De Logu, Biblioteca Classense di Ravenna, 8 luglio 2011.