La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei.

(Albert Camus)

Sempre nell'ottica di unire passato e presente, tradizione e attualità, avanguardia e classicità, la ventottesima edizione del Ravenna Festival, intitolata Il rumore del tempo, esplora il significato, gli slanci, le involuzioni, i lasciti delle rivoluzioni prendendo spunto dal centenario della Rivoluzione Sovietica del 1917, ma anche facendoci scoprire personaggi e movimenti che hanno rivoluzionato il mondo dell'arte e della musica.

Il rumore del tempo, come titolo, richiama un'opera di Osip Mandel'stam, che aderì convintamente agli ideali rivoluzionari e fu poi vittima dello stalinismo, e una biografia di Dimitrij Sostakovic, controverso musicista russo, prima osannato, poi scaricato dal regime comunista: due classici esempi delle luci e delle ombre di un evento che sconvolse il mondo. Dunque, partendo dalle Rivoluzione di ottobre, “gigantesco laboratorio, che grazie all'incontro tra linguaggi artistici diversi elaborò la grammatica della modernità”, il Festival si ripropone di esplorare il sempre ambiguo e problematico rapporto tra intellettuali e potere. Ma anche di dimostrare come, a volte, le rivoluzioni artistiche possono precorrere quelle politiche, come nel vistoso caso del futurismo russo, di cui si propone un’“opera di due agimenti e 6 quadri” di Aleksey Krucenych, con musica di Mihail Matjusin e scene e costumi di Kazimir Malevic, la Vittoria sul sole, straordinario, avveniristico capolavoro del 1913!

La presidente del Festival, Cristina Mazzavillani e i due direttori artistici, Franco Masotti e Angelo Nicastro, nella loro ricchissima programmazione, ci faranno apprezzare, fra l'altro, le pacifiche rivoluzioni musicali di Arcangelo Corelli e Joseph Haydn, e, nel cinquecentenario della Riforma luterana, l'ingenua e popolare bellezza dei “corali”, vero nucleo musicale del misticismo protestante e imprescindibile fonte d'ispirazione per il genio di Johann Sebastian Bach e non mancherà, anche come omaggio alla nutrita comunità di fede ortodossa presente a Ravenna, il Coro del Patriarcato Ortodosso di Mosca. E, in fatto di musica, una sezione del Festival sarà dedicata a quella indiana, che ha spesso costituito un elemento dirompente nel panorama occidentale, basti pensare alla figura di Ravi Shankar col suo sitar, che divenne una vera e propria icona della rivolta psichedelica e hippy, ma ancora prima, facendo riferimento al mondo del jazz, o ricordare le incisioni del quintetto di John Coltrane, che, affiancato da strumentisti indiani, nel 1961, si esibì in storici concerti al Village Vanguard di New York.

Ma questi sono solo alcuni “assaggi” di una rassegna che presenterà grandi direttori d’orchestra e solisti, opere liriche, balletti, concerti cameristici e sinfonici, e l’immancabile omaggio a Dante, con una versione dell'Inferno, ad opera di Marco Martinelli e Ermanna Montanari, in forma di “sacra rappresentazione” che, come nel Medioevo, coinvolgerà tutta la cittadinanza, una sorta di laboratorio diffuso all’insegna della partecipazione collettiva. E a proposito di città e di Ravenna, si può senza dubbio dire che questo Festival la laurei, al di là di ogni etichetta, vera capitale della cultura, in una dimensione nazionale e internazionale che poche metropoli si possono permettere. Una dimensione internazionale che i viaggi e le trasferte del Festival in tutti i continenti hanno ancor di più arricchito, anche e soprattutto come messaggio di pace e di amicizia fra i popoli. Spirito ecumenico che Cristina Mazzavillani ha confermato con una proposta-provocazione durante la recente presentazione del Festival al Palazzo dei Congressi di Ravenna: “E se chiedessimo di tenere il concerto del Coro Ortodosso nella moschea?...”.