Martedì 23 novembre, come da copione, arrivammo a Miami (Nord America) via Parigi e il giorno successivo al caldo estivo di Buenos Aires (Sud America): sesto continente per Giorgio. Ma il viaggio, quello vero, per noi iniziò soltanto il 25 a Ushuaia, la città più australe del mondo. All’arrivo trovammo pioggia, vento e monti innevati tutt’attorno. A parte il lungomare, che scorre lunga la baia, le altre strade parallele, come la principale Calle St. Martin, sono in salita e in posizione panoramica. Il taxista indio ci condusse nella pensione prenotata da Modena via Internet, dov’era specificato “posizione centrale”. Era a ben “33 quadre” dal centro, su per una strada sterrata e triste: rifiutai con garbo, anche se occorre sottolineare che qui la gente è particolarmente graziosa, d’indole gentile, mai incline a fare discussioni di tipo litigioso. Comunque, era la prima volta che prenotavo un alloggio e credo proprio che continuerò in tal senso. Tramite l’ufficio del turismo, in pochi minuti trovammo posto presso la Familia Velasquez (tripla per 16 euro), un piccolo ed ospitale Alojamento ad “una quadra” dal centro: ambiente spartano, genuino, frequentato da viaggiatori di svariate nazionalità. L’atmosfera in città è briosa e stimolante, vagamente pionieristica: da 10.000 abitanti, in meno di 15 anni sono diventati 120.000, con un incremento demografico impressionante. Una sterminata periferia fatta di case semplici, non baracche. Il clima varia di continuo, ma non fa quel freddo che temevamo; c’è stato però spiegato che col vento forte la temperatura di +1 è percepita come –14.

Dopo la foto d’obbligo al famoso cartello con su scritto “Ushuaia, el final del mundo”; la visita al Parque Nacional Tierra del Fuego, che racchiude “Susana", l’ultima collina della cordigliera delle Ande ed il punto in cui termina la mitica Route 3, quella che conduce a Buenos Aires, sabato 27 alle 16 c’imbarcammo sulla nave russa Grigoriy Mikheev diretti in Antartide. Qualche ora di navigazione lungo il canale di Murrey e breve sosta a Puerto Williams, nel settore cileno, dove salirono a bordo i fondatori della spedizione “Antarctica XXI”, tra cui il console inglese John Rees, e diversi ospiti di prestigio, come il simpaticissimo Governatore di Patagonia e Antarctica, Eduardo Barros, grande animatore e suonatore di chitarra. Qui salì anche stampa e televisione nazionale per un’intervista sul Guinness di Giorgio. Il team della spedizione, capitanato dall’esperto Mitchel Sallaberry, expedition leader docente di Biologia all’università di Santiago, era altamente qualificato e interamente bilingue: spagnolo e inglese. Le sistemazioni e i dettagli erano quelli di una crociera di lusso: camere capienti, fornite di ogni comfort moderno, e cucina a cinque stelle diretta dal capace Phill, australiano di Perth. Il nostro gruppo di passeggeri e assistenti era composto da una ventina di persone in tutto, rapidamente affiatati.

La mattina del 28 ci svegliammo in mezzo a un ventoso, ma quieto Mare di Drake. Durante una delle lezioni sul continente bianco, che regolarmente scandivano le giornate di bordo (flora, fauna, spedizioni, storia, etc.), apprendiamo che giornate col mare calmo come quello odierna sono rare: è molto più frequente che onde alte quindici metri spazzino la coperta della nave, in quanto il “passaggio di Drake” è famoso per essere il mare più tormentato del pianeta. Ecco, questo particolare in Italia non me lo avevano detto, anzi...

Il 29 apparve addirittura il sole e tutti ringraziarono la buona sorte. Una giornata stupenda, trascorsa a scattare foto all’aperto; quando poi ci apparve il primo Iceberg in lontananza ed il comandante russo annunciò di cambiare rotta al solo scopo di passargli accanto per mostrarcelo da vicino, ci fu un grido di assenso generale. Non avevo mai visto niente di simile, di più candido, da ipnotizzarci per lo splendore: pareti verticali di ghiaccio bianchissime, bordate da sfumature azzurrognole, con forma e dimensioni che mi fecero pensare ad una gigantesca portaerei (solo il 20% del volume emerge dall’acqua). Quella visione paradisiaca, che ci trasmise tanta euforica energia, sarebbe ben presto divenuta normale, con numerose isole di ghiaccio galleggianti su tutti i lati. In prossimità della costa, formata da terre emerse e ghiacciai, il cielo tornò plumbeo, con colpi di luce stranissimi, mai visti prima; alle 20 la nave si fermò in una baia spettrale, in lontananza erano visibili alcune case gialle simili a vagoni ferroviari; scese a terra il capitano per formalizzare il consenso alla visita, anche se via radio la base era già stati avvisata del nostro arrivo.

Salimmo tutti sui gommoni e alle 21, dopo 51 ore di traversata, toccammo così terra in Antartico, alla Polska Wyprawa Arctowski "Polar Pioneer", la stazione dei biologi polacchi della Polish Academy Of Sciences. Alla stazione, collocata in una striscia di terra bagnata sui due lati e frequentata da pinguini che vagano tra carcasse di balena, ci accolsero con un party in nostro onore. Per l’occasione, stupende canzoni e poesie improvvisate furono dedicate al piccolo Giorgio e gli venne perfino consegnato un diploma per avere attraversato il famigerato mare di Drake. Ma la reazione più sorprendente è stata quella dei pinguini, che non avevano mai visto un umano così piccolo: dalla riva sono corsi da Giorgio, lo hanno circondato e si consultavano tra loro come dei bambini incuriositi, perplessi. Giorgio li guardava, ascoltava, tranquillo come un pinguino. Erano circa alti uguali, si guardavano negli occhi. Ci trovavamo in un’area geografica di particolare interesse nota come la Penisola Antartica, una larga striscia di terra a forma di “S” situata tra il 55° e il 77° Ovest. Questa è l’estremità più settentrionale e la più vicina ad altri continenti, e pertanto la più accessibile per essere visitata. Per questo motivo è stata nel passato la più importante porta d’accesso per i cacciatori di foche, di balene e per gli esploratori, ed è attualmente la più ricca di tracce storiche del passato e di basi scientifiche.

Tornammo sulla nave verso mezzanotte, il mattino seguente la spedizione si spostò alla base aerea cilena Eduardo Frei, sistemata nella parte occidentale della King George Island (una baia condivisa con la stazione di ricerca russa e quella cinese, un’unica costruzione di colore blu: “le condizioni estreme rendono naturale il concetto di fratellanza”), molto più grande e diversa dalla precedente: un villaggio abitato da 46 anime, perlopiù militari, con tanto di ufficio postale, la chiesa cattolica, quella ortodossa, a destra sul dirupo, ed un chilometro più all’interno un albergo d’emergenza, coi letti a castello, accanto all’hangar e alla pista aeroportuale, da dove, tempo permettendo, avremmo dovuto partire nel primo pomeriggio. Tornati sulla nave col solito gommone nero, che qui chiamano zodiac, facemmo appena in tempo a mandare un messaggio alla redazione della Guinness (GWR) di Londra (“ …yesterday Giorgio landed in Antarctica and broke the record!”), che un improvviso blackout causato dalla tormenta ci scollegò dal resto del mondo.

L’aereo da Punta Arenas non arrivò. Un rischio calcolato: nelle coincidenze di aerei e bus per il ritorno a casa avevo preventivato un paio di giorni di ritardo. Se il ritardo fosse stato maggiore, allora il rientro si complicava notevolmente, ma per il momento non potevamo che gioire per il prolungarsi di una straordinaria vacanza forzata, tra l’altro gratuita: tutti noi usufruivamo dei servizi destinati al gruppo che avrebbe dovuto darci il cambio, anch’esso però bloccato dal cattivo tempo. Giorgio intanto si muoveva sempre più liberamente tra le sale della nave, ben riscaldate e dai pavimenti ricoperti di moquette, coccolato da tutti come la vera mascotte della spedizione. In una delle ormai consuete free session musicali del dopocena, restammo tutti colpiti dalla bravura di Gabriel, un giovane assistente di Antarctica XXI, che si esibì prima col suono tetro e gutturale della lunga pipa usata dagli aborigena australiani e poi riprendendo con la gola lo stesso suono apparentemente inimitabile, dalle origini decisamente misteriose ed ancestrali.

Dal ponte radio con la base cilena, la mattina del primo dicembre apprendemmo subito che l’aereo non sarebbe arrivato neppure oggi; alcuni cominciarono a dare segni di nervosismo, ma io rifiutai di preoccuparmi, ripagato e cosciente del privilegio di vivere in diretta il maestoso universo del continente bianco. Poco dopo, una coppia di balene a fior d’acqua sbatté le gigantesche pinne a pochi metri da noi. Giunse poi la proposta del bravo capo spedizione, accolta positivamente dal comandante, di allungarci fino a Robert Island, l’isola più orientale delle South Shetland Islands: un’escursione che avrebbe reso questa giornata unica e indimenticabile. Passammo al largo della base coreana, superammo Nelson Island tra ghiacciai ed iceberg sparsi dovunque, ed arrivammo a destinazione in un luogo sbalorditivo, “il più remoto tra i remoti”, che ci donò la magica sensazione di trovarci su di un pianeta a parte, per il paesaggio tipicamente polare, dalla natura prepotente, e per la quantità di fauna per noi insolita e divinamente affascinante.

Elefanti marini grossi come ippopotami, sparsi a gruppi un po’ dappertutto, baie occupate da gremite colonie di pinguini e grossi uccelli che nidificavano ad ogni passo, tanto da obbligarci a fare attenzione per non pestarli: l’albatros, facilmente riconoscibile per l’apertura alare di oltre tre metri, il cormorano, il gabbiano dominicano, il predatore skua e altri. Una meraviglia. Quando avvertii l’esigenza di entrare in sintonia con l’ambiente, subito mi accorsi che soltanto gli occhi di Giorgio riflettevano la purezza di quel continente e all’improvviso tutto si capovolse: “Non ero più io a tenere la sua mano, ma lui a tenere la mia; non ero io a coccolarlo, ma lui a coccolare me”. Ero nel suo mondo.

Le condizioni antartiche non sono favorevoli allo sviluppo di forme di vita complesse, a causa delle basse temperature, della diversa distribuzione della luce nell’arco dell’anno e la presenza dello strato di ghiaccio che copre il 89% del territorio; per queste ragioni la presenza animale è concentrata lungo le coste, dove si trovano la maggior parte delle superfici libere dal ghiaccio e condizioni climatiche meno severe. I mammiferi e gli uccelli marini formano i due gruppi più grandi della fauna superiore antartica: fra i primi si possono distinguere i Pinnipedi (foche e leoni marini) ed i cetacei (balene, orche e delfini). Le caratteristiche principali dei pinguini sono l’incapacità di volare e il totale adattamento all’ambiente marino, anche se essi passano una parte considerevole della loro vita a terra, dove si svolgono i loro cicli riproduttivi. Delle svariate specie presenti, il più grande è l’imperatore, che raggiunge il metro e venti d’altezza. A un paio d’ore dallo sbarco a Robert Island ebbe inizio una forte bufera di neve antartica ed io, memore dell’escursione precedente, con naturalezza estrassi il mio mini ombrello da viaggio per coprire la videocamera: una mossa geniale, ero l’unico ad avere la “finezza” dell’ombrellino, visione che stupì i membri della spedizione, a tal punto che la sera stessa composero una canzone dal titolo El primero paraguas de isla Robert.

La mattina del 2 dicembre eravamo di nuovo alla base cilena di King George Island, poi ancora una bufera che obbligò tutti ad un rapido rientro in nave. Dell’aereo non si sapeva più nulla e comunque ormai avevamo perso tutte le coincidenze di bus e aerei per il rientro a Buenos Aires, da dove il 4 alle 23 avremmo dovuto volare in Italia. Non arrivare in tempo sarebbe corrisposto ad un dispendio d’energie e valuta considerevoli. Le condizioni climatiche dell’Antartide, che la rendono una delle aree più inospitali del globo, sono determinate dalla sua posizione geografica estrema: a causa della vicinanza delle terre sud-polari all’asse di rotazione terrestre, l’angolo di incidenza delle radiazioni solari e quindi al loro intensità, sono minimi. Il Circolo Polare Antartico (66°33’) rappresenta la linea al disotto della quale, durante il solstizio d’estate, il sole non tramonta mai, mentre durante il solstizio d’inverno non sorge mai. La temperatura più bassa che si sia mai registrata fu misurata nel 1983 dalla base russa Vostok, situata nella pianura polare: -89,6°C. La parte nord della Penisola Antartica, meta dei principali itinerari turistici (dove eravamo noi), è l’unica regione che goda di un clima temperato, con una temperatura media invernale di -9°C.

Alle 15, nonostante il tempo peggiori di ora in ora, saliamo tutti sugli zodiac diretti a terra. Da qui, un gippone ci conduce all’hangar, dove accanto si intravede la sagoma di un aereo appena atterrato, spazzato da raffiche di vento e neve. Le foto di rito e poi tutti sull’aereo che alle 17:40 inizia a rollare su di una pista ghiacciata; il tempo torna bello sopra Capo Horn ed alle 20 atterrammo a Punta Arenas col sole. I fondatori di Antarctica XXI ci mandarono un auto all’aeroporto, ci invitarono a cena nei lussuosi saloni barocchi dell’Hotel José Nogueira, di loro proprietà, e la graziosa Cori lavorò fino alle 2 e mezza di notte per trovarci un volo, che l’indomani mattina alle 7 ci portò a Buenos Aires via Santiago; i biglietti da Rio Gallegos acquistati in Italia erano da gettare. Il 5 eravamo a Miami e il 6 a Modena, come da copione.

Il record è stato ottenuto con 20.000 km di viaggio via terra (2 viaggi di 2 mesi ciascuno: uno in Asia e l’altro in Africa), 16 voli aerei (dei quali 8 intercontinentali), 4 traghetti e una nave oceanica per 6 giorni.