Su numerose piante menzionate dalle fonti greche e latine e impiegate nel mondo antico aleggia un alone di mistero che ne aumenta il fascino. Una delle più celebri, citate dalle fonti in relazione agli usi medici che se ne faceva, era certamente il silfio che la tradizione unanimemente colloca in Libia nei pressi delle città greca di Cirene. A soffermarsi sulla pianta che, a quanto pare, si estinse per l’uso massiccio che le élites romane ne fecero, sono soprattutto Teofrasto, allievo di Aristotele (371-287 a.C.) e l’erudito romano Plinio il Vecchio che trovò la morte nel 79 d.C. durante l’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia. Secondo Teofrasto, che ne parlava nelle sue Ricerche sulle piante (VI 3):

"Il silfio ha una radice voluminosa e grossa, il fusto alto come quello della ferula e all’incirca della stessa grossezza. La foglia, che si chiama 'maspeton', sembra quella del sedano. Ha un seme schiacciato, per così dire a forma di foglia, detto appunto 'fogli'. È una pianta a stelo annuale come la ferula. All’inizio produce le foglie, che servono a purgare i montoni, a ingrassarli e a dare alle loro carni un gusto delizioso. Dopo essa produce uno stelo, che si mangia, si dice, non importa come, se bollito o grigliato, e che purga l’organismo in quaranta giorni. Il silfio ha due tipi di succo: quello dello stelo e quello della radice. Per tale motivo il primo è detto succo dello stelo, il secondo succo radicale. La radice ha un involucro nero che si toglie. Ci sono nei paesi dei limiti al sezionamento delle radici, che permettono di preservare la parte giudicata utile per futuri tagli, e di tagliare giusto ciò di cui si può disporre. Non è consentito tagliarlo in maniera sconsiderata, né più della quantità stabilita, poiché il prodotto grezzo si altera e si guasta se lo si lascia invecchiare. Quando lo si porta al Pireo, il silfio è sottoposto al seguente trattamento: dopo averlo messo in alcuni recipienti e mescolato con della farina di grano, viene agitato a lungo. Questo procedimento serve a fargli prendere colore. Dopo quest’operazione si conserva senza guastarsi. Questo è tutto in relazione al trattamento e al taglio.

Il silfio occupa in Libia una vasta porzione di territorio. Si parla di oltre 4000 stadi, e di una grande abbondanza intorno alla Sirte, a partire da Euesperides (Bengasi). Il silfio ha la particolarità di non crescere nelle zone sottoposte a lavoro agricolo e di sparire da tutte le zone totalmente lavorate e coltivate. La pianta, infatti, a tutta evidenza, non necessita di cure ed è selvatica. Secondo gli abitanti di Cirene, il silfio fece la sua apparizione 7 anni prima che essi si stabilissero nel territorio della loro città. Questa fondazione avvenne circa 300 anni prima dell’arcontato di Semonide di Atene. Ecco quanto essi raccontano. In seguito ad altri rapporti, la radice del silfio raggiunge 1 cubito o poco più. Essa forma al centro una protuberanza, che costituisce la parte più sporgente e arriva quasi alla luce del sole. È da questa pianta che proviene il cosiddetto 'latte'. All’interno germoglia lo stelo chiamato 'magydaris'. Da questa a sua volta germogliano quello che si chiama la 'foglia' e che è il seme. Quando comincia a soffiare un forte vento del sud dopo la Canicola (fine agosto), i semi si disperdono, dando vita al silfio. Radice e stelo si sviluppano nello stesso anno.

Non c’è nulla di singolare (questo è anche il comportamento delle altre specie), salvo che, a quanto si racconta, la crescita avviene subito dopo la semina. Ciò che è singolare e in disaccordo con le indicazioni precedenti, è evitare di estirpare le piante di silfio ogni anno. Che errore! La pianta forma meno bene il suo seme e il suo fusto analogamente alla sua radice. Se invece le piante madri sono estirpate, le nuove piante diventano più belle perché la terra è mossa. Ecco ciò che contraddice l’opinione secondo la quale il silfio evita la terra coltivata. Si mangiano, pare, anche le radici appena tagliate in tranci immerse in aceto, e il seme è di un giallo oro. Un’altra contraddizione: i montoni non si purgano se mangiano i semi. Si dice in effetti che in primavera e in inverno vengano lasciati andare sulle montagne e che questi animali bruchino il silfio insieme a un’altra pianta che somiglia all’artemisia. Ora, le due piante sono riscaldanti e prive di effetto purgante, seccano e fanno digerire. Se un montone arriva malato o in cattive condizioni, esso guarisce presto o muore, ma nella maggior parte dei casi guarisce.

Resta da sapere quale delle due versioni sia quella vera. Quella detta 'magydaris' è un’altra specie di silfio, meno diffusa e meno aspra, priva del suo succo lattiginoso. Se si ha dimestichezza essa è ben riconoscibile solo a vederla. Cresce in Siria ma non a Cirene ma si dice sia comune anche sul monte Parnaso. Alcuni chiamano silfio questa pianta. Resta da verificare se essa eviti, come il vero silfio, il terreno coltivato, se essa richiami da vicino o da lontano il vero silfio nel seme e nello stelo e infine se anche essa emetta un succo per così dire in lacrime".

Secondo Plinio invece, che ne parlava nella sua Storia Naturale (XIX 38-45):

"Il silfio o laterpizio è famosissimo per il prestigio di cui gode; i Greci lo chiamano 'silphion' e fu trovato in Cirenaica. Il suo succo, detto 'lasere', è di grande importanza per l’uso quotidiano e per la preparazione di medicinali: lo si vende al prezzo dell’argento. Sono ormai molti anni che in quella regione non se ne trova più, perché i pubblicani, che prendono in affitto i pascoli, pensano di ricavarne un guadagno maggiore se li usano per il bestiame e così facendo li devastano. Ai miei tempi se ne è trovato in tutto un solo fusto, che fu inviato all’imperatore Nerone. Può capitare che il bestiame si imbatta in uno stelo appena spuntato, ed è facile accorgersene, perché la pecora che l’ha brucato cade subito addormentata, mentre la capra prende a starnutire ripetutamente. È ormai da lungo tempo che a noi non arriva altro lasere all’infuori di quello prodotto in abbondanza in Persia, o in Media, o in Armenia; ma è di qualità molto inferiore rispetto a quello della Cirenaica, e per di più è spesso mescolato con gomma, o sacopenio, o fave tritate: ragione di più, questa, per non ritenere trascurabile il fatto che sotto il consolato di Gaio Valerio e di Marco Erennio (93 a.C.) furono portate da Cirene a Roma 30 libbre di laserpizio, a spese dello stato; cosi come è rilevante il fatto che Cesare, durante la sua dittatura, all’inizio della guerra civile, prelevò dall’erario, insieme all’oro e all’argento, 1500 libbre di laserpizio.

Nelle fonti greche più sicure troviamo che questa pianta nacque dal terreno bagnato improvvisamente da una pioggia nera e fitta come pece, che si verificò nei pressi del Giardino delle Esperidi e della Grande Sirte, 7 anni prima della fondazione di Cirene, avvenuta nell’anno 143 di Roma (611 a.C.); e che l’effetto di questa pioggia era stato avvertito, in Africa, su un’area vasta 4000 stadi. In quella zona soleva nascere il laserpizio, pianta selvatica e ribelle, pronta a ritirarsi in zone desertiche, se si tentava di coltivarla: aveva radici numerose e spesse, fusto simile a quello della ferula e di grossezza analoga; le foglie erano chiamate 'maspetum' e somigliavano molto a quelle dell’apio; i semi avevano l’aspetto di foglie; il fogliame vero e proprio cadeva in primavera. Di laserpizio si nutriva solitamente il bestiame, che dapprima con esso si purgava, poi acquistava peso, mentre la carne prendeva un sapore straordinariamente gradevole. Dopo che le foglie erano cadute, anche gli uomini si cibavano del fusto, preparato in tutti i modi, lesso e arrosto, e anche per loro nei primi quaranta giorni aveva effetto purgativo. Il succo veniva raccolto in due modi, dalla radice e dal fusto, e prendeva perciò i nomi di 'rhizias' e 'caulias': quest’ultimo era di minor pregio e tendeva a guastarsi. La radice era coperta da una scorza nera.

Per frodare i compratori si versava il succo in recipienti mescolandolo con crusca, poi si agitava più volte questo miscuglio finché era pronto: se non si seguiva tale procedimento sarebbe andato a male. Si capiva che il preparato era al punto giusto in base al colore e al fatto che si presentava secco, avendo finito di trasudare. Secondo notizie riportate da altre fonti, la radice del laserpizio era più grossa di un cubito e aveva alla superficie un tubero che, tagliato, lasciava colare un succo simile a latte, mentre al di sopra c’era un fusto che veniva detto 'magydaris'. Le foglie, di colore dorato, servivano da semenza e cadevano a partire dal sorgere della costellazione del Cane, quando soffiava dal sud vento da austro. Da esse nasceva il laserpizio, la cui radice e il cui fusto si esaurivano nel giro di un anno. Stando a queste fonti, veniva estratto scavando la terra tutt’intorno e non aveva effetto purgativo sul bestiame ma, se era malato, lo guariva oppure lo faceva morire immediatamente, il che accadeva però di rado. La prima di queste notizie si attaglia al silfio di Persia".

Plinio non mancava di ricordare sia altre specie di silfio/laterpizio, di qualità più scadente, che venivano usate per adulterare quello autentico, sia le proprietà medicamentose del silfio utile contro i dolori ai tendini, le malattie delle donne, i calli, come diuretico e digestivo, come ricostituente, per la cura delle ferite, come antidoto contro i veleni, come empiastro contro ulcere e alopecia, contro raucedine, pleurite, opistotono, asma, epilessia, coxalgia, lombaggine. Fu proprio l’efficacia medicamentosa della pianta a favorirne un uso massiccio e indiscriminato. La completa estinzione ne sarebbe stato il risultato.

G. Squillace, I balsami di Afrodite. Medici, malattie e farmaci nel mondo antico, San Sepolcro, Aboca Museum, 2015