Proviamo a immaginare, tra quattrocento anni, la quantità di opere d’arte - realizzate nei prima anni duemila - che si troveranno tra le mani archivisti, conservatori, direttori di musei e storici dell’arte. Ovviamente, non ci saranno solo i video di Billa Viola o le sculture di Botero, né solo le opere di Kapoor o di Kounellis. Per la stragrande maggioranza, saranno opere di artisti minori, la cui fama è stata molto più limitata, nel tempo e nello spazio. Una quantità di opere che, quand’anche ridotta dalla dispersione connessa al trascorre di così gran tempo, sarà comunque presumibilmente di molto superiore - ad esempio - di quella pervenutaci dal Rinascimento. Non foss’altro perché oggi gli italiani sono oltre 60 milioni, mentre allora erano circa 11, senza ovviamente contare che la crescita del benessere economico diffuso, e la scolarizzazione di massa, hanno fatto aumentare il rapporto tra artisti e popolazione.

Possiamo quindi presupporre che nel 2400 (sempre che non sia mutata la cultura museale), il rapporto tra le opere esposte nelle sale dei musei, e quelle conservate nei depositi, sia molto più alto di quanto non sia attualmente. Il tutto, ovviamente, senza prendere in considerazione l’aspetto archeologico, giacché - com’è noto - la gran parte dei reperti archeologici conservati nei musei sono oggetti d’uso comune, prodotti da semplici artigiani...

Questo piccolo esercizio d’immaginazione, può forse aiutarci a comprendere meglio la questione dei depositi museali (delle opere che vi sono conservate, e del loro uso e valore), e a metterla nella giusta prospettiva. C’è infatti una corrente di pensiero - meglio, un’opinione diffusa, soprattutto tra non addetti ai lavori - che vede in questa conservazione una sorta di spreco, e che ne vorrebbe piuttosto il pieno utilizzo espositivo. Il più delle volte, tale opinione si sposa con quella secondo la quale, aumentando gli spazi espositivi, o moltiplicandoli, se ne ricaverebbe un quasi aritmetico incremento dei flussi turistici - e quindi si genererebbe ricchezza economica. La questione, purtroppo, vista in questa prospettiva, crea un’immagine distorta della realtà. Proprio perché è la prospettiva ad essere errata.

La prima, banale considerazione che va fatta, è proprio sul piano economico, di mercato. Non occorre essere degli economisti - tanto è ovvia la cosa - per sapere che l’eccesso di offerta produce svalutazione della stessa. Basta guardare alle cifre (di visitatori) che fanno le nostre principali istituzioni museali, per capire come - con l’attuale articolazione museale - siamo ancora lontanissimi dal soddisfare la domanda potenziale. Appare chiaro, quindi, come moltiplicare l’offerta (aumentando il numero dei musei, e/o incrementando gli spazi espositivi di quelli esistenti), con tutti i costi conseguenti, non possa di per sé far aumentare il volume delle visite. Al contrario, si produrrebbe un fenomeno di overflow, un flusso di offerta museale superiore alle capacità di intercettare il flusso dei visitatori.

La seconda considerazione è relativa alla natura di questa (eventuale) ulteriore offerta. La gran parte del patrimonio in possesso dei musei (di tutti i musei del mondo), rimane nei depositi non per meri problemi di spazio, ma per ragioni qualitative. Fatte salve occasioni particolari, in cui specifici eventi espositivi lo richiedano, i pezzi in esposizione sono i migliori, quelli più rappresentativi (di un artista, di una scuola, d’un epoca), quelli in migliori condizioni di conservazione. Si privilegia quindi la qualità, non la quantità. Meglio esporre solo 10 opere importanti, che quelle 10 insieme ad altre 90 minori. Per tacere, ancora una volta, dei reperti archeologici. Se pure un museo conservasse 10.000 anfore, ne esporrà solo alcune, le più significative; esporle tutte, semplicemente non avrebbe senso. E rischierebbe si svuotare di senso anche quelle poche rilevanti.

Il punto è che una delle funzioni dell’istituzione museale (quella forse destinata a non mutare mai) è la conservazione. Intesa nel senso di preservare, per le generazioni future, beni che hanno un valore storico e culturale, e che - anche nel caso di opere minori - possono avere tra l’altro un valore documentale per chi si occupa di studiare le epoche relative. Sono una documentazione materiale, una testimonianza effettiva del loro tempo, e per ciò stesso meritorie di essere conservate e preservate. Le pulsioni, spesso contraddittorie, che spingono taluni a ipotizzare la diffusione sul territorio del patrimonio inesposto, attraverso l’afferimento di questo ad altri musei (a loro volta) minori, o viceversa a concentrare in nuove grandi strutture museali le opere conservate nei depositi di più musei, nascono quasi sempre dall’idea che questo patrimonio possa (e debba) essere valorizzato, e che ciò si determinerebbe automaticamente con il renderlo fruibile. Si sente spesso citare il Louvre, portandolo ad esempio, ma rimuovendo il fatto che quel museo fa dei numeri straordinari non per la sua estensione, o per la quantità di opere che vi sono esposte, ma perché tra queste vi sono la Monna Lisa, la Nike di Samotracia, la Venere di Milo...

Come suggerisce l’esercizio d’immaginazione proposto all’inizio, questa logica porta in realtà a un incremento esponenziale delle opere esposte, producendo in prospettiva un effetto di saturazione, piuttosto che di aumento dell’attenzione. Per quanto quest’idea di portar fuori dai depositi le opere d’arte possa apparire suadente, e per quanto certamente nasca anche dall’idea che ciò possa contribuire alla crescita culturale ed economica dei territori, essa sembra non tener in alcun conto persino i dati reali più evidenti, quali le difficoltà - economiche, strutturali, gestionali... - che già oggi affliggono il sistema museale italiano. E che da una operazione di questo tipo risulterebbero certamente aggravate.

La strada da percorrere, dunque, non è quella dell’apertura dei depositi museali, quanto piuttosto quella di rimettere i musei in connessione con i territori, di restituirvi una funzione (anche) educativa, di renderli capaci di dialogare con l’uomo contemporaneo. Per fare ciò, non serve esporre un’opera in più di Giovanni Cariani o di Domenico Puligo, quanto piuttosto ripensare profondamente il sistema culturale italiano - che poi sistema affatto non è. Ed è questo il suo principale problema.