Il progresso scientifico e tecnologico, com’è noto, ha un andamento a valanga: con il suo procedere, aumenta la massa e la velocità. E ciò risponde a una legge naturale, poiché logicamente ogni nuovo passo avanti, per effetto combinatorio, comporta una propalazione esponenziale.

Ovviamente, questa caratteristica è sempre esistita, sin dagli albori dell’umanità; ma, altrettanto ovviamente, la curva ascendente che ne rappresenta la crescita è stata inizialmente molto piatta. Basti pensare a quelli che sono stati comunque passaggi epocali nella storia umana, quali la scoperta del fuoco (la capacità di produrlo a piacimento), il passaggio dalle caverne a ripari costruiti, quello ancor più significativo dalla condizione di cacciatori/raccoglitori a quella di allevatori/agricoltori... L’invenzione della ruota.

Sono tutti elementi che hanno consentito uno scatto evolutivo di straordinaria rilevanza. Ma questo avveniva in un arco di tempo lunghissimo, migliaia di anni e centinaia di generazioni. Se proviamo a pensare a fenomeni di eguale entità, in epoche più recenti - ad esempio l’invenzione del telaio meccanico (nella seconda metà del ‘700), o la scoperta dell’elettricità - salta agli occhi come il processo evolutivo della ricerca (e quindi delle trasformazioni sociali che essa produce) siano diventate infinitamente più veloci, e la loro portata si sia ampliata a dismisura.

Ma è solo in epoche più recenti che questa accelerazione produce un effetto nuovo. Quando, cioè, la velocità delle trasformazioni tecnologiche (del loro impatto sulla vita delle persone) diviene tale da rendere le persone stesse incapaci di metabolizzarle. I cambiamenti assumono un andamento così veloce, che non siamo più in grado di tenerne psicologicamente e culturalmente il passo. In questo senso, potremmo dire che le profezie sul dominio delle macchine sull’uomo - sia pure in forma diversa - si sono già avverate.

La questione della velocità con cui avvengono le trasformazioni sociali è oggi una di quelle cruciali. Ovviamente, è pura illusione pensare di fermare il progresso tecnologico; se è possibile realizzare una cosa, prima o poi qualcuno la realizzerà, e il luddismo (come ci insegna la storia) è sempre una battaglia di retroguardia, destinata alla sconfitta.

Come osserva acutamente Paul Virilio (che alla dromologia come "scienza [o la logica] della velocità" ha dedicato i suoi studi), la tecnologia non può esistere senza la possibilità di incidenti; l'incidente è ciò che c'è di imprevisto e nasce con la tecnologia stessa: quando si è inventato il battello si è inventato anche il naufragio, quando si è inventato il treno, si è creata la catastrofe ferroviaria. L'incidente integrante, come lo chiama Virilio, trova oggi la sua massima espressione proprio in questo sorpasso: la velocità della mutazione tecnologica ha superato la capacità di adattamento umano.

L’impatto sociale dello sviluppo tecnologico è oggi macroscopicamente percepibile sotto molti aspetti, e si manifesta spesso in modo assolutamente spiazzante. Basti pensare, ad esempio, all’avvento della robotica nella grande industria, che non ha prodotto soltanto una contrazione della necessità di mano d’opera umana, ma ne ha determinato la atomizzazione. Nella fabbrica fordista e pre-fordista, l’operaio-massa si alienava alla catena di montaggio, in un lavoro ripetitivo e parcellizzato, ma che comunque lo poneva in una condizione di stretta prossimità con gli altri operai, e dunque gli offriva l’opportunità di condividere la propria condizione, e di farne scaturire consapevolezza sociale e politica. Un dato che ha segnato tutto il ‘900.

Nella fabbrica robotizzata, l’operaio svolge un lavoro (forse) meno alienante, ma la nuova architettura produttiva lo ha isolato, lontano dai compagni di lavoro, contribuendo a smontare le basi del solidarismo sociale novecentesco. Non è difficile immaginare che, in un futuro non lontano, possa avvenire qualcosa di simile anche nelle scuole e nell’università, grazie all’avvento massiccio dell’e-learning. Ed è infatti la rivoluzione digitale, quella che sta producendo l’ultima, vertiginosa accelerazione.

La globalizzazione, di cui tanto si parla, è un prodotto della digitalizzazione dell’economia (della finanza, soprattutto), che tra l’altro rende plasticamente manifesto questo scarto tra possibilità tecnologiche e possibilità umane: mentre i capitali si muovono istantaneamente, in un gioco ormai così veloce che (appunto) è impossibile venga gestito dalla mente umana e passa sempre più sotto il controllo di algoritmi matematici, il movimento fisico degli esseri umani (molto spesso direttamente prodotto da quello virtuale dei capitali) diviene tragicamente lento e difficile - se non impossibile.

Ma la questione fondamentale è che questo ulteriore scatto evolutivo sta producendo un rapidissimo consumo del lavoro umano. Non sono più solo le macchine, a sostituirlo, ma in misura crescente i software. E questo, in una società che per secoli si è mossa in direzione dell’urbanizzazione delle popolazioni, e della specializzazione del lavoro, avrà a breve un impatto dirompente. Ad essere in gioco, non è soltanto l’insieme dei diritti, quali si sono prodotti attraverso il secolo scorso e in virtù di quel tipo di sviluppo tecnologico e sociale, ma l’esistenza stessa di una significativa domanda di forza lavoro. Andiamo verso un’economia post-umana, in cui la produzione avrà sempre meno necessità del lavoro di uomini e donne.

Questa divaricazione, però, porta con sé il famoso incidente integrante, in questo caso rappresentato dalla rarefazione dei consumatori. Se l’economia capitalista è basata sul circolo produzione-consumo, nel momento in cui la produzione si automatizza (e si autonomizza dal lavoro umano), cessa la sua capacità di distribuire reddito, e quindi di creare consumatori. Il meccanismo si inceppa, e rischia di implodere. Da qui, l’assoluta urgenza di immaginare una ristrutturazione sociale che prevenga questa deflagrazione.

Posto che esiste una fortissima spinta demografica, dal basso, risulta evidente che il primo bisogno a cui occorre dare risposte è quello alimentare. È perciò prevedibile che, sul medio periodo, si produca comunque spontaneamente un fenomeno di de-urbanizzazione, con il ritorno alla terra di alcune fasce di popolazione maggiormente marginalizzate. Ma, ovviamente, non si può immaginare un nuovo medioevo, per la semplice ragione che non sussistono tutte le condizioni che lo determinarono. Sarebbe quindi necessario che questo fenomeno di decongestionamento della presenza umana, venisse anche programmato e pilotato.

Si tratterebbe comunque di un fenomeno epocale, di fortissimo impatto sociale e culturale, e che richiederebbe tempi medio-lunghi, per avere un valore significativo. Sul breve e medio termine - e comunque, per essere realmente incisive - occorrono altre misure. Le possibilità, quali si possono configurare nella realtà concreta delle cose, sono fondamentalmente due - o una combinazione delle stesse.

La prima è quella del basic income, il reddito minimo. Una redistribuzione della ricchezza, totalmente svincolata dallo scambio lavoro/denaro, tale da garantire quantomeno la sussistenza di ciascuno, lasciando poi alla volontà/capacità del singolo - oltre che alle opportunità del mercato - le chance di incrementare questo reddito, attraverso forme di lavoro più o meno continuativo e/o occasionale (negli ambiti in cui ancora permane). La seconda è quella della redistribuzione del lavoro. Rispondere cioè alla contrazione della richiesta di lavoro umano, con la riduzione del tempo individuale di lavoro. Insomma, lavorare meno lavorare tutti. E, ovviamente, a parità di reddito.

Per quanto queste vie d’uscita possano apparire ideologicamente connotate, sono in realtà le sole possibili, e le sole che consentano di mantenere in vita il meccanismo produzione/consumo. E dunque, sono in realtà frutto di puro pragmatismo. Nel nostro futuro, non c’è la guerra degli umani contro le macchine, come nei vecchi film di fantascienza, ma la liberazione dell’umanità dal lavoro come schiavitù necessaria.

L’economia post-umana, può essere la più grande opportunità di riscoprire la nostra umanità.