Nosy Be è molte cose, non solo un eden naturale, con gente che sorride, folclore e colore, spiagge dorate e profumo di ylang-ylang, ma in quest’isola c’è molto altro. È Manina Consiglio, l’anima di questo luogo straordinario, un’insegnante di lettere in pensione che abita qui da tanti anni, una presenza estremamente popolare e stimata per aver portato qualità alla vita della popolazione, in particolare a quella dei più piccoli e dei più giovani.

Sono a Nosy Be da una settimana quando ricevo la mail da Barbara Philippart, un’amica che stimola la mia curiosità scrivendo: “.. devi assolutamente conoscere Manina, originaria di Napoli, una persona straordinaria, davvero speciale”. Mi sollecita, con mille esaltanti racconti per invogliarmi.

Chiedo in giro alle persone che incontro dove abita una certa Manina. E ognuna sa rispondermi. Dal capoluogo Hell-Ville prendo il taxi per Ambatoloaka, villaggio che ha il suo centro nel bivio chiamato Dar-es-Salam. Tirando dritto si arriva presto alla barra che delimita la “bum-bum area” riservata ai turisti della movida. Scendo, vado a sinistra e prendo la prima a destra: un sentiero sterrato in salita che in un centinaio di metri mi conduce alla casa di Manina, inserita in un appezzamento collinare costellato da bungalow. Mi affaccio alla staccionata che ne delimita la proprietà, chiamo, strillo, nessuno mi sente, non percepisco presenze, trovo il cancelletto giusto, entro ugualmente.

Seguo il sentiero in cemento rosso che divide il verde e si snoda tra gli chalet fino alla residenza di Manina. Tutto è curatissimo, con lettini per il sole e angoli di relax ornati da fiori, piante, quarzi e ogni tipo di conchiglia. Vi si respira un’armonia tutta femminile. Salgo all’elegante gazebo a lato della sua casa, arredato con due tavoli, sedie in vimini e un minifrigo. Tutt’attorno, fissate sui davanzali, cinque miniature di grossi velieri costruiti in modo artigianale. Fa un caldo esagerato, sono disidratato e non mi faccio scrupoli ad aprire il frigo pieno di bottiglie d’acqua e bibite. Mi servo e mi disseto nell’attesa, ma nessuno appare. Allora fotografo ogni cosa e mi avvio verso l’uscita, quando mi appare Manina accompagnata da una sorte di corte. È di ritorno da una grande festa per l’inaugurazione di una scuola, con musiche e danze in suo onore. Bella, solare, sui sessant’anni, il portamento di una regina, mi accoglie con un luminoso sorriso. Parla coi toni delle persone buone, semplici e accoglienti. Lo sguardo è materno e cordiale.

Ci sistemiamo nello stesso gazebo del frigo, che funge da banco d’accoglienza. È accaldata, stanca, ma disponibile comunque e sempre sorridente. Mi mostra il video della festa appena finita, dove si vedono ragazze in uniforme ballare gioiose assieme a lei, tutte tranne una, che rimane impassibile. Manina si rammarica per questo: “È della tribù dei Merina, di origine asiatica, non sono espansivi come i Sakalava, l’etnia predominante sull’isola”. Poi, con una punta di stizza sbotta: “Non capisco. Come si fa a stare fermi con una musica tanto coinvolgente?”. Nell’altro tavolo siedono due suoi collaboratori che stanno parlando fitto-fitto e Manina, indicandoli con simpatia, mi fa subito notare che qui la gente è loquace e molto comunicativa: “Vivono il rapporto a quattr’occhi con uno scambio intenso e diretto, parlano sempre col cuore, come se fossero amici da sempre”. Fra di noi si crea subito un’intesa, una specie di empatia che facilita il dialogo aprendomi la strada a un’amichevole intervista.

Comincio col chiederle i passi fondamentali delle sue scelte e lei, sfogliando un taccuino con le tappe per date, così mi risponde:

La prima volta che sono venuta a Nosy Be è stato in occasione delle vacanze di Natale del 1997. Mi sono subito innamorata di quest’isola. Ero in cerca di un posto dove trasferirmi dall’Italia per scrivere e pescare, nulla più. Quando in cielo ho visto nitida la coda della costellazione dello Scorpione, il mio segno zodiacale, ho subito percepito che questo era il luogo magico che stavo cercando. Alla stessa stregua, nel nome Manina pare sia indicato il mio destino, infatti in malgascio significa 'nostalgia di una persona lontana'. Sono poi tornata l’anno dopo per cercare il terreno e costruire la casa e nel giugno del 1999 mi sono trasferita qui definitivamente, dando inizio a una grande avventura. Ho comprato una piroga e tutte le mattine andavo a pesca assieme a un marinaio indigeno. Mi sono integrata benissimo in poco tempo.

Nella scelta c’è stata quindi una determinazione ma c’era anche un destino. Quando sei passata da pescatrice alla Manina che tutti conoscono?

Molto presto. Non sopportavo i disagi dei bambini, costretti dalla miseria a vivere in luoghi malsani, a lavorare dall’alba al tramonto in casa e nei campi, scalzi e con le magliette piene di buchi. Quando sono arrivata non esisteva l’infanzia. Quasi ogni giorno vedevo morire un bambino di malaria. Cominciai a curarli, perché capii che bastavano 3 pillole a guarirli ma loro non avevano soldi nemmeno per quelle. I piccoli con la tubercolosi li portavo all’ospedale in città, pagavo il taxi, le visite e le medicine, in pochi possono concedersi questo lusso. Così organizzai le prime visite a casa mia, con una dottoressa malgascia. Quando i pazienti diventarono troppi, aprii un ambulatorio che visitava e curava in media 60 persone al giorno. Bisogna tenere presente che la prospettiva di vita degli indigeni è di 55 anni per gli uomini e di 58 per le donne.

E le scuole?

Siamo ancora nel 2000. Vedevo tanti bambini per strada nel fango che non avevano di che pagare la retta scolastica. Cominciai a pagarla col mio denaro per 10 bambini, poi si è sparsa la voce e, alla fine dell’anno, i bambini scolarizzati erano 80 e nel 2001 sono raddoppiati. Quando sono arrivata a pagare la retta per 600 bambini ho cominciato a pensare di costruirmi le scuole io, così avrebbero potuto andarci tutti, senza limiti e gratuitamente. Ho costruito la prima scuola materna davanti a casa mia. L’anno dopo ho continuato il percorso costruendo le elementari. Anno dopo anno, dai diversi fokontani (capi villaggio) ho ricevuto analoghe richieste. Non ho saputo dire di no e così ho continuato a costruire scuole dove lo richiedevano, sia a Nosy Be che in terra ferma.

E i costi?

I costi di mantenimento di una scuola comprensivi di stipendi, trasporti, materiale didattico e di cancelleria ammontano a circa 600 euro annui. Considerando una media di 60 alunni per classe, l’istruzione di un bambino si aggira attorno ai 10 euro all’anno, meno di 1 euro al mese. Questa cifra per noi irrisoria permette a un bambino di studiare per un anno intero e di costruirsi un futuro.

La tua associazione quando è nata?

Nel 2004. È no profit e si chiama I Bambini di Manina del Madagascar. Lo stesso anno 7 nuove Tsaiky Tsara (Bambini Buoni), nome delle scuole da me fondate, si estendono oltre lo stretto e lo Stato mi nomina Chevalier de L’Ordre de La Republique de Madagascar.

I bambini hanno dei diritti che sono diversi da quelli degli adulti e lei, essendo insegnante, dimostra di saperlo bene: Ora sei famosa, amata e …

E inarrestabile! Nel 2005 ho inaugurato anche un campo di basket, richiesto a viva voce da ragazzi che sono diventati dei campioni, con coppe a volontà! Per motivi di igiene ho fatto poi costruire due toilette pubbliche, dotate di lavabo e doccia, inaugurate dalle autorità locali. L’anno successivo le scuole erano già 152 con oltre 9000 bambini. Sono scuole comunitarie, io le costruisco e le mantengo, ma la proprietà è del villaggio in cui sorgono. Sono le uniche scuole a cui si può accedere gratuitamente, compreso il materiale per alunni e insegnanti. Ogni bambino possiede un carnet che gli consente di accedere gratis alle visite mediche. Tra professori e personale erano già 180 le persone che lavoravano nelle scuole. Sotto loro indicazione ho organizzato un corso di alfabetizzazione per gli adulti e aperto una biblioteca nel villaggio di Adampy, poco distante. Qui si trovano romanzi, libri di testo ed enciclopedie.

Sono frastornato, cos’altro hai combinato?

Di fronte alla biblioteca sorge la prima Maison de Repos (Casa dei Vecchi), che ospita disabili, alcune donne si muovono in sedia a rotelle, e anziani rimasti soli. Hanno un alloggio sicuro e pulito e il pasto assicurato.

Cos’altro ancora?

A Nosy Be non c’è l’oculista. Il mercoledì è il giorno della visita oculistica a casa mia, mi sono specializzata con un dizionario. Quelli che hanno problemi alle cataratte li faccio operare ad Ambaja, sulla terra ferma. Ora i miei anziani vedono perfettamente e mi ricompensano con un grande sorriso.

Sento crescere dentro di me una grande ammirazione mista a stupore. E poi?

La povertà è molto diffusa e numerose famiglie vivono al limite della sopravvivenza. Con l’aiuto dei capi villaggio ho preparato una lista degli indigenti, per dare a ciascuno 10 kg di riso al mese. Andando in giro per i villaggi mi sono però resa conto che tanti altri morivano di fame e la lista si allungava di giorno in giorno.

Continua il 17 Aprile...