Con una performance collettiva a simbolo della libertà di espressione, la Repetitive Walk di Hamish Fulton, si è conclusa la 56esima edizione della Biennale di Venezia. Un momento intimista e di riflessione per centinaia di persone invitate a partecipare spontaneamente e che fa un po’ da punto finale a un’edizione con visite da record (più di 500mila), nel complesso molto interessante, ricca di novità, eventi e importanti mostre collaterali.

Il primo elemento di interesse è sicuramente il tema All the World’s Future, scelto dal curatore Okwui Enwezor, già conosciuto per la sensibilità a questi argomenti, e che mette al centro di quest’edizione le questioni sociali, umanitarie e ambientali del nostro tempo, sulle quali l’arte è chiamata a far luce. È dovere dell’artista ritornare a un significato più profondo e autentico dell’arte, cercando di allontanarsi dall'oggettificazione come mero strumento di contemplazione o ancor meno come bene di mercato.

L’intero progetto di questa esposizione gira anche attorno a Das Kapital (Il Capitale) di Marx e agli effetti della rivoluzione industriale sulla nostra società. Topic affrontato con letture giornaliere, curate da Isaac Julien, che durante tutta la durata della Biennale hanno animato l’Arena, il nuovo spazio progettato da David Adaje dedicato alla programmazione dal vivo di recital, coreografie dibattiti sul tema, nonché performance, come quella di Olaf Nicolai in tributo al compositore italiano Luigi Nono (autore di Non consumiamo Marx, 1969).

Un tema ambizioso e coraggioso dunque, che ha fatto tanto riflettere quanto discutere, soprattutto per la natura non apertamente politica o di dibattito dei lavori scelti o esposti da alcuni artisti. In realtà, nonostante qualche delusione, i continui riferimenti ai temi centrali emergono nella maggior parte delle partecipazioni nazionali e le tematiche sociali sono molto presenti e convivono in un ritmico susseguirsi di input visivi e sonori: dalle tele nere di Oscar Murillo che si impongono sulla famosa facciata del Padiglione Centrale dei Giardini, al lunghissimo e contemplativo corridoio rivestito da sacchi di iuta di Ibrahim Mahama in Arsenale, fino alla potente installazione di Fabio Mauri, dove risuona lontana la voce di Pasolini che legge la poesia La Guinea, lamento allegorico dell’Italia contadina, chiedendo “ …Cos’è il fascismo?”.

Interessanti e sicuramente da citare i lavori documentaristi all’Arsenale di Chantal Akerman, Mika Rottenberg, Carsten Holler & Måns Månsson (Fara Fara) e soprattutto il memorial Ashes del regista Steve McQuenn, Oscar nel 2014 come miglior film (12 anni schiavo) e vincitore del premio Turner Prize nel 1999. Addentrandosi negli storici Padiglioni dei Giardini, si trovano diversi percorsi interessanti che, benché presentino diversi livelli di attenzione al tema, mirano decisamente a colpire e cercare reazioni di sorpresa nel visitatore. Tra questi in particolare il padiglione del Giappone, The Key in the Hand, curato da Hitoshi Nakano, tra i meno “impegnati” politicamente ma sicuramente tra i più suggestivi e apprezzati dal pubblico, anche sui social.

L’artista Chiharu Shiota espone due malinconici relitti di barche al centro della sala, sormontati da un fitto reticolo di fili rossi che rappresentano i ricordi legati agli incontri e alle connessioni interpersonali che ognuno di noi sperimenta nella propria vita. La chiave ha un valore simbolico: da protettrice di persone e spazi, a mezzo per aprirsi al futuro e a nuovi mondi. Anche Sara Lucas, per la Gran Bretagna, non si forza a stare dentro il tema e gioca con quello che le riesce meglio: umorismo e provocazione. Con I SCREAM DADDIO l’artista immerge il visitatore in un mare di crème anglaise e in quasi 25 anni di sue opere, riconfermando il suo potente lavoro di artista tra gatti neri amorfi in filo di ferro (in tributo a Venezia) e sculture tanto astratte quanto figurative con una particolare inclinazione alla sessualità e… al tabagismo.

Il senso dell’humour ce l’ha anche il collettivo di artisti canadesi BGL, che con Canadissimo esplorano l’universo degli oggetti, in rapporto alla natura e all’arte. Il Padiglione viene trasformato profondamente e diviso in un percorso che comprende un negozio, uno studio per artisti e una zona abitabile. Tutto realizzato con materiali riciclati per ironizzare su un grande tema canadese: l'ossessione del riutilizzo e il riciclo di quanto più materiale possibile durante la propria vita. Un chiaro riferimento al presente (e futuro) della società nord-americana. Come il Canada, molti altri padiglioni di questa edizione si caratterizzano per i forti interventi architettonici sulla struttura originaria, ad esempio quello del Brasile dove gli artisti Antonio Miguel, Berna Reale e André Komatsu creano lunghi e angusti corridoi che opprimono il visitatore, il quale si sente costretto in un percorso quasi claustrofobico all’interno della struttura. Un chiaro riferimento alla prigionia che viviamo nei contesti metropolitani, ma anche alla dittatura in Brasile e a come la sua fine abbia lasciato la popolazione un po’ in balia delle contraddizioni, sia nel processo di educazione che di evoluzione politico-economica. La domanda è quindi: è possibile cambiare rotta senza “decostruire i poteri stabiliti”?

Anche per Israele c’è un progetto architettonico ambizioso. L’artista Tsibi Geva ricopre il padiglione con centinaia di pneumatici usati (una sorta di strato protettivo) che si estendono dall’esterno all’interno della struttura disarmando il visitatore, intento a guardare le continue referenze dell’artista alla sua idea tanto mistificata quanto sofferta di “casa” ottenuta collocando nella struttura vari elementi di intuizione come piastrelle, finestre, infissi e blocchi di cemento. La Grecia, invece, ripercorre la relazione tra vita attuale e tradizione, raccontando una “micro” storia e ricostruendo per intero in loco un laboratorio artigianale di cuoio e pellami di Volos. L’artista Maria Papadimitrou, presentando una tipologia di diseguaglianza crudele ed estrema tra uomo e animale, apre la strada ad una serie di considerazioni sull’etica, la tradizione e su come quest’ultima possa far scaturire sentimenti di paura per ciò che è estraneo o incomprensibile.

Nel padiglione della Danimarca, il lavoro concettuale del danese-vietnamita Danh-Vo parte invece dal proposito opposto: riportare il padiglione al suo storico splendore, conservando le intenzioni originarie con le quali la struttura era stata concepita. La luce artificiale viene rimossa e gli interni tornano ad essere illuminati soltanto da luce solare, grazie alle vetrate disposte nella parte alta. Artista e collezionista, Dahn-Vo mette in scena reperti archeologici con nuove composizioni e contesti. Ognuno di questi pezzi ha una sua storia, fatta di ritrovamenti, colonie, scambi commerciali e pressioni culturali che spetta a noi ritrovare, ricostruendone la narrazione e immaginandone il loro viaggio nel tempo. C’è sì il mondo futuro, ma ci sono anche mondi e momenti dedicati alla memoria e a come questa possa influenzare l’evolversi di una nazione.

È sicuramente questo anche il caso della Serbia che, con United Death Nation di Ivan Grubanov, propone un'istallazione dove giacciono ammucchiate sul suolo le bandiere degli Stati che non esistono più. Queste bandiere così mal ridotte e sporche sembrano a prima vista ricondurre al tema della guerra e morte. In realtà gli Stati rappresentati come morti sono in realtà soltanto "morenti". Si tratta infatti di identità che a livello geopolitico si dimenano ancora tra vita e morte; dei veri e propri “fantasmi” che continuano a far sentire la loro influenza anche in epoca post-globale.

Tirando le somme e girando da un padiglione all’altro, rimane un solo pensiero: quello che la Biennale ci riporti ogni volta al punto da cui siamo partiti, la riflessione. Tra immagini più o meno vivide, denunce, simbolismi e cliché, questa 56esima esposizione dialoga, combattuta tra razionalità e pessimismo intellettuale, sull’avvenire del pianeta e sulla speranza quasi incontrollata e naive di un futuro migliore, servendosi appunto della riflessione stessa, che avviene oggi, nel presente.