Molta è la strada percorsa dalla specie umana durante la sua cosiddetta evoluzione culturale. L’allargarsi del campo delle conoscenze scientifiche si è tradotto in produzioni tecnologiche sempre più sofisticate, le quali hanno modificato il nostro modo di vivere il nostro mondo e le nostre capacità percettive, amplificando il dislivello fra noi e la nostra stessa costruzione del mondo, così da potersi ormai affermare che ai nostri giorni “non hanno valore il «mondo» e l’esperienza del mondo, ma il [suo] fantasma e il consumo di fantasmi” (Anders 2003, 37).

Fiumi d’inchiostro sono stati versati sul rapporto uomo-tecnologia. È possibile ritrovare nelle diverse pubblicazioni i pareri più disparati, ma non si può non riconoscere le responsabilità di noi umani nei confronti del nostro pianeta, anche se non sempre siamo in grado di comprendere il nostro essere inseriti e parte dell’insieme delle interrelazioni che lo tengono in vita, in una visione olistica. Ad essa non mi pare possano sottrarsi gli uomini d’oggi, la cui capacità percettiva nella visione della Terra si è ormai definitivamente trasformata dopo averla potuta “vedere” dallo spazio, salvo decidere per un volontario atto di abbandono. Paradossalmente, le nostre attuali avanzate conoscenze scientifiche ci inducono ad affermare che una delle grandi conseguenze dell’evoluzione tecnologica della società degli umani, da esse derivata, è l’incontestabile fatto che l’uomo, in nome del progresso, sia ormai a tutti gli effetti il principale fattore di modificazione ecosistemica, anche per la sua unicità nel generare prodotti estranei alla naturalità del sistema e quindi non riconducibili alle capacità omeostatiche di questo (Marchetti 1993; Odum 1994).

Vacilla il concetto stesso di “progresso”, da più parti considerato il grande e prestigioso emblema della società occidentale, tanto che “oggi nessuno crede più al progresso, e la metamorfosi tecnica del collettivo umano non è mai stata così evidente” (Lévy 2000, 12), in una corrispondenza biunivoca fra noi e i nostri stessi prodotti tecnologici, la cui enorme potenzialità sembra richiudersi sull’umano, fino a intrappolarlo.

Considerando la storia del rapporto uomo-macchina, si possono, peraltro, distinguere diversi stadi evolutivi, più o meno caratterizzati da specifici livelli di avanzamento tecnologico e di prodotti realizzati, in un crescendo di artificialità del sistema uomo-macchina. In molti sottolineano le conseguenze negative del nostro crescente sviluppo tecnologico sull’ambiente, fino a giungere ai tempi odierni, in cui il degrado ambientale ha raggiunto livelli in molti casi irreversibili, ma finalmente percepiti con l’acquisizione di consapevolezza della nostra incapacità di modificare il mondo, senza risentirne noi stessi, che di quel mondo siamo parte.

In questo panorama alcune tecnologie sarebbero in grado, invece, di ribaltare la situazione; le tecnologie elettroniche e quelle dei bit, con la rete delle reti, Internet, da queste prodotta, potrebbe offrire un’occasione di riscatto per condurre l’essere umano, proprio prima del collasso finale, a far pace col pianeta, per dirla con le famose parole di Barry Commoner (1990), considerando la possibilità pratica di costruire una tecno-democrazia da inventarsi sul campo (Lévy 2000, 12).

È, però, necessario “ricominciare a pensare. [poiché] si è formato un groviglio inestricabile di scienza, economia e tecnica che marcia a velocità folle e al quale sembra vano opporsi”. Bisogna ripensare il rapporto fra scienza e tecnologia, per l’acquisizione di nuove responsabilità, dato che “vi sono ancora scienziati che predicano la neutralità della scienza e scaricano sulla tecnologia tutte le responsabilità dello sconquasso ambientale (e non solo), ma si tratta di una distinzione che, se è in buona fede, rivela un’inguaribile ingenuità. Anche la razionalità genera violenza e superstizione, e comunque separare le componenti del groviglio è impossibile” (Longo 2001, 32).

L’Homo sapiens, con la sua razionalità, da sempre suo vanto, si è trasformato ben presto e, credo sia corretto dire, sin dalla sua comparsa sul pianeta Terra, in Homo technologicus, dato lo stretto rapporto, quasi simbiontico, che lo ha legato alle varie tecnologie, da lui scoperte e costruite, e con le quali si può dire si sia coevoluto. Longo (2001) parla specificamente, riferendosi ad una fase molto recente dell’evoluzione umana, caratterizzata da una tecnologia potentissima e dalla crisi della scienza, di passaggio dall’Homo sapiens, ‘a tecnologia limitata’, all’Homo technologicus, ‘a tecnologia intensa’, più adatto, in senso evolutivo, alla nostra civiltà ad alta tecnologia. Proprio perché effetto di coevoluzione e non di semplice somma dell’uomo e della macchina, l’Homo technologicus è

“un’unità evolutiva completamente nuova, è un’entità organica, mentale, corporea, psicologica, sociale e culturale senza precedenti, che se partecipa ancora dei miti, dei desideri e delle necessità dell’uomo ‘tradizionale’, crea anche miti, necessità e desideri suoi propri e inediti” (Longo 2001, 12)

e un’ambiguità nel modo di sentire dell’essere umano, diviso tra l’essere spettatore e l’essere attore del processo, tra la ‘conservazione’ del mondo conosciuto e la sua ‘trasformazione’ in uno progettato razionalmente e finalisticamente, sempre che ciò sia possibile. Possiamo, con riferimento più specifico ai momenti della sua storia durante i quali le tecnologie furono maggiormente protagoniste, parlare di una prima rivoluzione industriale, che

“coincide con l’introduzione del macchinismo, della «iterazione», cioè della produzione di macchine per mezzo di altre macchine, che non metteva ancora al centro la manipolazione del valore d’uso dei bisogni; [di una] seconda rivoluzione industriale, […] quella in cui i bisogni vengono prodotti industrialmente, e in cui la pubblicità assume un valore determinante [e infine di una] terza, [la quale] rappresenta un vero e proprio salto di qualità verso la «produzione irreversibile», la produzione cioè che realizza compiutamente il dislivello prometeico prima solo accennato” (Preve 2003a, 19).

La tecnologia prende quasi vita autonoma, come altra dall’essere stesso dell’uomo, dando luogo al cosiddetto “«dislivello prometeico» l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti”. Tale distanza “si fa ogni giorno più grande. […] c’è, per esempio, il dislivello tra fare e immaginare, tra agire e sentire, tra conoscenza e coscienza e infine, e soprattutto, quello tra il congegno fabbricato e il corpo dell’uomo (che non è tagliato sulla misura del «corpo» del congegno). […] Ognuno di noi consta dunque di una serie mal connessa di esseri singoli variamente antiquati, che marciano a ritmo diverso” (Anders 2003, 50-51).

Non solo quindi, secondo la catastrofica visione di Anders, l’uomo sarebbe ormai sovrastato dalla tecnica da lui stesso prodotta, nella quale in parte si sarebbe identificato, arrivando ad una frammentazione di se stesso in una serie di parti mal ricomponibili, ma avrebbe anche perso il ritmo coevolutivo con la tecnica, tanto che ora

“A causa del «dislivello prometeico» la nostra propria metamorfosi è in ritardo; la nostra anima è rimasta molto indietro in confronto al punto a cui è arrivata la metamorfosi dei nostri prodotti, ossia del nostro mondo” (Ivi, 52).

Non basta: quello che è da sempre il primo e fondamentale interrogativo che l’essere umano si pone, quello sulla propria identità di essere, trova una raccapricciante risposta nel suo non riconoscersi più neanche come vivente, ma nel tendere, invece, a ritrovare una possibilità di completezza grazie al suo senso di inferiorità, identificandosi nei suoi stessi prodotti tecnologici:

“«Chi sono io mai? – domanda il Prometeo del giorno d’oggi, il nano di corte del suo proprio parco macchine, - chi sono io mai?». Il desiderio dell’uomo odierno di diventare un selfmade man, un prodotto, va visto dunque su questo sfondo mutato: Non già perché non sopporta più nulla che egli stesso non abbia fatto, vuole fare se stesso; ma perché non vuole essere qualche cosa di non-fatto. Non perché provi indignazione per essere fatto da altri (Dio, dèi, natura), ma perché non è fatto per nulla e, nella sua qualità di non-fatto, è inferiore a tutti i suoi prodotti fabbricati” (Ivi, 59).

Dal confronto, o meglio dalla competizione, con le macchine, che risultano vittoriose per le maggiori possibilità che il loro corpo artefatto, ricco di pezzi di ricambio, presenta rispetto al tanto umano corpo umano, risulta, allora, addirittura uno stravolgimento del concetto stesso di libertà:

“Il nostro corpo di oggi è quello di ieri, ancora oggi il corpo dei nostri genitori, ancora oggi il corpo dei nostri antenati; il corpo del costruttore di razzi non è praticamente diverso da quello del troglodita. È morfologicamente costante; nel linguaggio della morale: non-libero, refrattario e ottuso; dal punto di vista delle macchine: conservativo, non-progressivo, antiquato, non-modificabile, un peso morto nell’ascesa delle macchine. Insomma: i soggetti della libertà e della mancanza di libertà sono scambiati. Libere sono le cose; mancante di libertà è l’uomo.” (Ivi, 67).

E le macchine diventano “persone”, rientrando a tutti gli effetti nel nostro codice morale:

“[…] anche l’esigenza morale si è trasferita ora dall’uomo alla macchina. […] Una generazione fa esistevano numerose massime […] le quali affermavano tutte che le «attitudini» dell’uomo erano sacrosante eo ipso, che il loro sviluppo e il loro sfruttamento erano un imperativo morale e che era immorale trascurarle o soffocarle. Quel che allora valeva per l’uomo vale oggi per la macchina; è un dovere favorire le sue «attitudini»; soffocarle è un’azione immorale. Le macchine sono i «talenti» di oggi” (Ivi, 72).

Così, i prodotti degli umani si ergono su di noi con la loro schiacciante superiorità, da noi stessa conferitagli.

“[…] esiste un nuovo genere di immortalità: la reincarnazione industriale, cioè: l’esistenza in serie dei prodotti. […] Ogni pezzo perduto o rotto non continua forse a vivere nell’immagine della sua idea-modello? […] questa possibilità di reincarnazione cessa soltanto quando muore anche l’«idea» del pezzo, cioè: quando la sua marca viene abbandonata in favore di un’altra marca” (Ivi, 81-83). Noi, creatori dei nostri prodotti, restiamo indietro rispetto ad essi, esseri immortali, inesorabilmente diversi da noi, poiché “a nessuno di noi è concesso di esistere in più esemplari (contemporanei o successivi)”, a nessuno di noi “è concessa la possibilità di sopravvivere a se stesso in forma di un nuovo esemplare […]: dobbiamo continuare a portare a compimento il tempo che ci è destinato in antiquata unicità.” (Ibidem).

Autopoiesi - Άυτοποιέσις

Bibliografia:

Anders Günther, 2003 – L’uomo è antiquato. 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale. Bollati Boringhieri Editore, Torino.
Commoner Barry, 1990 – Far pace col pianeta. Il punto sui rapporti tra ecosfera e tecnosfera: cosa non è stato fatto e cosa si può fare. Garzanti Editore, Milano.
Lévy Pierre, 2000 - Le tecnologie dell'intelligenza. Il futuro del pensiero nell'era informatica. Ombre Corte, Verona.
Longo Giuseppe O., 2001 – Homo technologicus. Meltemi Editore, Roma. Marchetti Roberto, 1993 – Ecologia applicata. A cura della Società Italiana di Ecologia, CittàStudi, Milano Odum Eugene P., 1973 – Principi di ecologia. Piccin Editore, Padova. Preve Costanzo, 2003 – Un filosofo controvoglia. In Anders Günther, 2003 – L’uomo è antiquato. 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale. Bollati Boringhieri Editore, Torino.