Architetto, storico e archeologo, Giangiacomo Martines ha soprinteso al progetto e alla direzione per i lavori di restauro delle Colonne Traiana e di Marco Aurelio e ha aperto il dibattito sull’attribuzione a frate Umile da Petralia del simulacro del Cristo in croce esposto nella “Processione dei Tre Santi” di Galati Mamertino.

Scrivere senza un minimo di passionalità di questo scrupoloso funzionario dello Stato non credo mi sarà possibile, essendomi imbattuto in lui in un momento interessante della mia vita: quello della conoscenza prima e del rapporto professionale e amicale dopo, con il prof. Federico Zeri. Mentre correva il secondo quinquennio degli anni Settanta del secolo XX prendeva forma, a Torino, il monumentale progetto editoriale della Storia dell’arte italiana della casa editrice Einaudi [1]. Me ne aveva parlato il prof. Zeri, prima come semplice notizia ma un giorno era sceso pure nel particolare; mi aveva detto della sua idea di arricchire il progetto con un volume non previsto: quello che poi sarà intitolato Inchieste su centri minori. Ormai amici, gli ricordai che avevo già scritto, da dilettante ma sempre come opere prime, su tre comuni, decisamente “minori”: Mentana, il paese della nostra residenza, Monterotondo, comune a noi prossimo, e Galati Mamertino [2], il mio paese nativo. Di questi tre paesi, uno doveva essere eliminato e, per campanilismo, uscì Monterotondo. Intanto in casa editrice ci si rese conto che quel volume aggiunto era il tredicesimo. Scompiglio, ma infine soluzione: il volume più corposo fu diviso in due e l’opera conclusa fu di 14 volumi.

In quel periodo inoltre non passava giorno che non arrivassero in via Trèntani, a Mentana, libri a diecine che si accumulavano ormai in ogni angolo della casa, essendone saturi gli scaffali; impellente si presentò quindi, per il Professore, la necessità di sopraelevare l’ala della libreria di un piano. Nulla di grave. Su dieci ettari di proprietà terriera vi era cubatura a iosa: il Professore fece redigere il progetto da chi di dovere e lo protocollò in comune. Ricordo la crisi d’ira che lo pervase mentre mi comunicava telefonicamente che i tecnici comunali ne avevano respinta la richiesta! Così Mentana si giocò il saggio, a favore del vicino comune di Monterotondo; fu peraltro un vantaggio per l’editoria: qui storia e arte erano ben più interessanti [3].

A redigere il saggio su Galati Mamertino fu chiamato Giangiacomo Martines al quale Zeri [4] diede pure il mio recapito: quell’incontro creò un’amicizia ormai ultra trentennale. Già nel 1978 non era uno studioso qualunque il Martines; era stato borsista in Storia dell’Architettura presso l’Università di Roma “La Sapienza” (1974-1976), borsista presso il Centro Italiano di Studi dell’Alto Medio Evo (1975), vincitore di Borsa di Studio CNR (1977, non goduta per assunzione al Ministero), docente aggiunto di Nozioni di Calcolo e Nozioni di Fisica nell’Accademia di Pubblica Sicurezza (1973-1974), primo premio al Concorso IN/ARCH ANIACAP (1973, capogruppo prof. Diambra Gatti De Sanctis), Funzionario presso la Soprintendenza Archeologica di Roma (dal 1979).

Con tale bagaglio di conoscenza scese in Sicilia e ne bevve l’essenza: trovò un paese con un passato culturale di grande rispetto sia storicamente che artisticamente. Di tutti i paesi inseriti nel volume 8, Galati Mamertino – in provincia di Messina – era certo il più sconosciuto, arroccato come è sulle alte pendici dei monti Nebrodi, aquila superba accosciata su tre alture fra boschi di castagni e grandi pinete. Potrà sembrare solo retorica parlare delle sue origini islamiche con castello orientato verso la Mecca; o della sua ristrutturazione successiva alla conquista normanna, della edificazione di una chiesa dedicata a S. Michele Arcangelo e dell’attuale suo stato di rudere; o parlare pure della coeva impostazione urbanistica, quasi interamente cancellata dalla ansiosa e spesso imprevidente laboriosità dei nuovi abitanti.

Non si può invece passare sotto silenzio il patrimonio etnoantropologico [5] e il suo naturale fulgore paesaggistico. Il nostro estensore nel saggio einaudiano volutamente sfiorò quest’ultimo lato - pur se importante - del comune dei Nebrodi, tanto più che ovunque si volga lo sguardo in giro per la Penisola, vi sono bellezze ugualmente godibili, siano esse di montagna, lago o mare. La vera scoperta magistralmente individuata da Nanni - come ama farsi chiamare - invece fu la dovizia di opere d’arte ivi presenti, pur se rappresentano solo le briciole di quel che vi doveva essere stato nei palazzi e nelle chiese appena due secoli or sono. La scoperta più interessante - fatta da Federico Zeri [6] e da Martines magistralmente presentata [7] - fu la statua lignea di S. Sebastiano, di autore fiammingo del XV secolo che aprì una nuova finestra nella interpretazione di una certa tematica iconografica, cara ad Antonello da Messina; ma accanto a questa eccezionale scoperta collocò pure la ricerca sulla statuaria gaginiana [8], la ricca presenza architettonica Cinque e Secentesca e la pittura del XVII e XVIII secolo, totalmente sconosciuta alle fonti sino alla seconda metà del secolo XX [9]; si interessò infine dell’interessante simulacro ligneo di Cristo crocefisso presente ab antiquo nella chiesa di Santa Caterina [10].

Nel saggio del quale qui parlo, l’Architetto Martines, nel capitolo Il “Crocefisso” della processione, non sposò la certezza che la statua fosse opera autentica di frate Umile, come concordemente affermato in loco. Pure io che scrivo, successivamente, ne accettai la sua tesi [11], pur ignorando la fonte dalla quale il Martines ne aveva tratto il dubbio. Quest’opera, intitolata Paradiso serafico, Cronica de Fr. Minori Osservanti Riformati [12], però riporta solo 23 statue di “Crocefisso” di mano di frate Umile, alle quali ne sono aggiunte altre, prima fra tutte il Cristo di Calvaruso. Il documento quindi lasciava - e lascia - adito a ulteriori ricerche, poiché il confratello di frate Umile che scrisse la Cronica tramandò (p. 308):

Scolpì questo servo di Dio come alcuni dicono, da trentatré Imagini del Crocefisso di legno, le quali tutte operano miracoli, e son tenute in gran veneratione dai popoli, per averle fatte lui..; completò poi l’argomento (p. 310) scrivendo: Fece anche questo venerabile servo di Dio molte altre statoe cossì della Beatissima Vergine, come d’altri Santi, e particolarmente tutte le statue di quel sontuoso, e bello Reliquiario, che è nell’Altar maggiore della nostra Chiesa di S. Vito di Girgente, cossì delli Santi, come degl’Angioli, & anche statoe grandi di S. Vito, e del nostro P. S. Francesco sono opera delle sue mani, tralasciando altri, quali per brevità non riferisco.

È quest’ultima frase pertanto che riapre tutto il discorso! E lo apre soprattutto perché in questa “parte seconda”, l’autore, fr. Pietro da Palermo, già nel tramandare le opere di fr. Umile non appare perfettamente informato. Delle 23 statue da lui enumerate, di una ne diede la collocazione decisamente errata. Infatti alla citata p. 308 si legge:

quello che fece nella terra del Moio in Calabria vicino di Marivagno, il quale oggi è nella Chiesa Matrice di detta Terra qual fece ad istanza del Signor Barone del Moio cavaliero di casa Lanza, e lo scolpì nella propria casa di detto Signore, ove dimorò con tanta edificatione di tutti in quella casa, che sempre poi lo stimorono per un huomo santo, pubblicandolo per tale appresso tutti…

Ora è universalmente noto che in Calabria vi siano solo due statue certe di fr. Umile e sono a Cutro e a Bisignano, mentre Moio, ove è effettivamente la statua della quale dice fr. Pietro, è l’attuale Moio Alcantara in Sicilia, prossima a Marivagno (oggi Malvagna) e a Randazzo ove vi è uno dei simulacri certi del Cristo di fr. Umile nel Convento dei Padri dell’Osservanza. La storia ci tramanda con certezza che in questo territorio di Sicilia nacque ufficialmente il borgo di Mojo nel 1602 (poi Moio Alcàntara), sotto la reggenza di Palmerio (o Palmerino) Lanza; in quell'anno, infatti, l'autorità règia concesse al Lanza la cosiddetta "licentia populandi". È noto pure che ove oggi sorge l'attuale Municipio, i Lanza provvidero a far edificare anche il loro palazzo baronale. I segni della presenza a Mojo della signoria dei Lanza si avvertono a tutt'oggi attraverso le proprietà immobiliari detenute dai loro discendenti e ricadenti nel territorio moiese [13].

La presentazione a Galati Mamertino del volume con il saggio di Giangiacomo Martines rimase come memoria dominante nel tempo [14] e qualche anno dopo così ricordarono quel momento vivace, per ricerche storiche e attività culturali, i Valenti:

Per affettuoso interessamento di uno studioso di Galati, il dott. Salvatore G. Vicario, medico a Mentana in provincia di Roma, da dove segue le vicende della sua terra natale con profonda nostalgia, Galati ha avuto l'onore di essere illustrata in modo eccellente dall'arch. Giangiacomo Martines nella "Storia dell'Arte Italiana" della casa editrice Einaudi. A Galati si svolse la cerimonia di presentazione del volume 8, contenente le pagine su Galati Mamertino, nei giorni 12 e 13 luglio 1981 [15].

L’agosto galatese dell’anno 2012 contrassegnò la storia del paese con un altro avvenimento insolito: allo studioso romano, Direttore Generale dei Beni Culturali e Paesaggistici del Friuli Venezia Giulia, l’arch. Giangiacomo Martines, il Consiglio Comunale all’unanimità concesse la cittadinanza onoraria [16]. Il precedente che ne giustificò il conferimento risale al 1981, quando appunto, per la presentazione del volume del quale tratto, Martines venne in paese con il padre prof. Antonio, con il prof. Federico Zeri e con lo staff della casa editrice Einaudi. La cittadinanza onoraria gli fu conferita il 18 agosto 2012 nel suggestivo anfiteatro di Galati Mamertino, nel corso di una manifestazione condotta con gentilezza e professionalità dalla giornalista Maria Chiara Ferraù. In quella serata, particolarmente affollata, il sindaco Bruno Natale indossando l’ufficiale fascia tricolore, gli consegnò la pergamena con la motivazione:

Per avere evidenziato, con zelo e competenza, l’origine e gli eventi storici di questo centro nebroideo nell’opera "Storia dell'Arte italiana" e per avere poi partecipato, nel 2011, con entusiasmo e competenza, alla cerimonia del “trentennale [17].

Nel suo saluto, Martines insistette – e promise di seguirne personalmente il percorso – sulla opportunità di organizzare un'operazione sinergica di valorizzazione dell’area nebroidea, ma in particolare dei sei comuni della valle del Fitalia: Galati Mamertino, Mirto, Longi, San Salvatore di Fitalia, Caprileone e Frazzanò, finalizzata allo studio e al rilancio del patrimonio artistico di grande importanza che ne caratterizza l’intero contesto.

Quanti hanno avuto la ventura di frequentare Zeri ne hanno conservato indelebile il segno: così è stato pure per il nostro Architetto. Dopo quel 1981 egli infatti è andato a dirigere numerose Soprintendenze. Qui amo parlare di quella per i Beni Architettonici ed il Paesaggio, per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico del Friuli Venezia Giulia, che nel 2005 aveva avviato “il restauro delle celebri opere fino allora conservate in Palazzo Venezia a Roma, il trasferimento e la promozione dei nuovi studi”. Fu per me un tuffo nel passato la ricezione del “catalogo” della mostra Histria, opere d’arte restaurate: da Paolo Veneziano a Tiepolo [18] con la dedica In memoria di Federico Zeri. Mi scrisse l’arch. Martines [19]:

Questa importante esposizione, condotta ad evidenza del Ministero degli Affari Esteri, di concerto con i Funzionari di Lubiana e Pirano, è stata conclusa dall’attuale Soprintendente Architetto Giuseppe Franca. Quelle opere erano prima note negli studi solo da riproduzioni e articoli anteriori al 1940 ed ora sono restituite al libero godimento del pubblico e alla ricerca sull’arte di Caput Adriae e di quel versante d’Europa. Fin dalle prime battute, questa iniziativa è stata dedicata a Federico Zeri per l’indelebile traccia di studi, cataloghi, insegnamenti e allievi, che ha lasciato nella Galleria Nazionale di Lubiana e nell’ambiente di studiosi intorno ad essa. In considerazione della sua vita, dedicata in parte al Professore Zeri quale suo medico personale, Le invio questo catalogo. Il Soprintendente Giangiacomo Martines.

L’argomento ‘Zeri in Slovenia e in Croazia’ fu trattato da me in altro saggio [20]:

L’attaccamento spasmodico di Zeri alla campagna di studio in Jugoslavia e dopo lo sfaldamento della nazione balcanica, in Slovenia e in Croazia - iniziata nel 1976 e durata sino alla sua morte - mi sembra di poterla spiegare soprattutto con la stima e la devozione dimostrata dalla dott.ssa Ksenija Rozman nei confronti del Professore; tuttavia non posso dubitare che abbia avuto non minor valore la riconoscenza dimostratagli dalle autorità e dalla gente di cultura di quelle nazioni: da notare come titolo di merito che la sua consulenza fu sempre gratuita per tutti i venti anni di ricerca, pure nei luoghi più scomodi come a Ptuj. Mi sembra di potere supportare questa mia ipotesi con i tanti segni recepiti nel tempo: a decine trovo nelle nostre conversazioni la delusione, il dispiacere per l’ingratitudine dei politici italiani nei suoi confronti. In quella schiera di studiosi dell’opposta sponda dell’Adriatico e nei politici che la supportavano, ha potuto constatare invece l’ansia di conoscere, appannata da anni di dittatura; ma soprattutto ha potuto sentire ciò che per tutta la vita gli era mancato in patria: la stima e la deferente riconoscenza.

Se ho già scritto, del Nostro, “scrupoloso funzionario dello Stato”, prego non sia inteso come una captatio benevolentiae: Nanni mi diede da subito la percezione della sua preparazione scientifica e, soprattutto, ne ebbi definitiva certezza il 27 marzo 1988 quando guidò la visita alla Colonna Traiana per i soci del Rotary Club Monterotondo Mentana, che in quell’anno presiedevo. Quell’incontro fu per me la scoperta di uno studioso con una preparazione scientifica davvero non comune. Ciò mi tenne in ansia, poiché mi accingevo a non fare una bella figura con il personaggio: avevo infatti presentato il Club come “altamente interessato alla visita della Colonna Traiana, in quel momento in restauro e, pertanto, scrutabile per tutta la sua altezza a tu per tu”. Invece al momento della conta, di domenica, ben pochi soci si erano presentati alla base del monumento [21]. Fortunatamente mi vennero in soccorso diecine di turisti dai cinque continenti, desiderosi di partecipare alla visita, in quel giorno di chiusura al pubblico: li “battezzai” tutti rotariani e … salvai la faccia. La Colonna oltre a illustrare, in una convessa spirale, le campagne dell’imperatore spagnolo in Dacia, fu anche la sua tomba. La sue ceneri, si dice, furono riposte in un’urna d’oro situata nella base: così recita la descrizione ufficiale. Personalmente ricordo invece che Federico Zeri mi diede una versione differente circa la policromia del monumento, versione poi da lui confermata nella terza conversazione tenuta all’Università Cattolica di Milano nel 1989 [22]:

Quelli che vediamo oggi nei templi e nelle rovine non sono che scheletri spolpati, perché manca completamente quello che era il dato cromatico. […] La Colonna Traiana era quasi tutta dorata e dipinta a colori vivaci, era come una immensa miniatura, un grande bordo miniato disposto in fondo al fusto [23].

Negli anni Ottanta del secolo XX le due Colonne – la Traiana e quella di Marco Aurelio - furono sottoposte a restauro. Scrive Martines nella presentazione al testo, a proposito della Colonna Traiana [24]:

Quest’opera è dedicata al Prof. Adriano La Regina […] perché ideò e diresse il programma di restauro dei monumenti della scultura romana all’aperto. […] In quel periodo molti monumenti dell’area archeologica centrale furono circondati da impalcature; per la prima volta fu possibile vedere da vicino e contemporaneamente un insieme di edifici dell’arte classica romana, quasi l’intero corpus dei monumenti di marmo costruiti nell’arco di quattro secoli. Quei cantieri furono il più vasto museo della scultura romana all’aperto perché furono visitati da scienziati, restauratori, studenti e anche dal pubblico in occasione dell’annuale Settimana dei Musei. […] Il tempo trascorso ha collaudato il restauro della Colonna Traiana, perché lo stato di conservazione delle superfici scolpite è stabile e il fregio è perfettamente visibile da lontano. […] Ogni rilievo ha come obiettivo l’esattezza della rappresentazione: in questo caso l’esattezza è stata perseguita con l’osservazione autoptica e la misurazione di ogni particolare…

La Colonna di Marco Aurelio in Roma [25] è ancora nella sua collocazione originale davanti a Palazzo Chigi e dà il nome alla piazza nella quale sorge, piazza Colonna [26] . Fu eretta tra il 176 e il 192 d. C., forse dopo la sua morte, per ricordare le vittorie di Marco Aurelio, imperatore dal 161 al 180, durante le guerre Marcomanniche: le popolazioni germaniche dei Sarmati, dei Marcomanni e dei Quadi occupavano le terre poste a Nord del medio corso del Danubio. Il monumento è coperto da bassorilievi alla maniera della Colonna Traiana. Il fregio scultoreo infatti pure nella Colonna di Marco Aurelio si arrotola a spirale intorno al fusto. Il suo restauro fu concluso nel 1988. Per la sua realizzazione, scrive Martines, la prima esigenza fu un disegno in grande formato, di tutto il fregio scolpito per annotare le osservazioni e progettare l’intervento. Lo studio che ne seguì, consentì una serie di scoperte:

La prima scoperta dai ponteggi fu la presenza sul marmo di una patina di colore giallo dorato: è stata conservata, perché costituisce una protezione. […] La seconda scoperta furono segni di terremoto: gli squarci sul fusto e le rotture dei rocchi. Tutti i danni furono riparati nel restauro di Sisto V, diretti da Domenico Fontana con Carlo Maderno e Silla Longhi, a capo di un gruppo di scultori, che rifecero le figure mancanti, a mimesi dell’antico, integrando il rilievo per oltre il 12 percento; questa fu la terza scoperta: l’innesto del Manierismo su un monumento classico, con un consolidamento ancora efficace. La Colonna è il monumento più snello di Roma che ha resistito ai terremoti: fu devastata certamente da quello del 1349, ma era ancora integra quando Giovanni Cavallino, canonico del Pantheon, scrisse la Polistoria nel 1347.

Oggi il Nostro, che è approdato a una laboriosa quiescenza, guarda con interesse alla vallata del Fitàlia. Quando vi giunse, giovanissimo, per scrivere di Galati Mamertino, ebbe modo di approfondire la conoscenza dell’intera vallata e constatò come fosse un “territorio omogeneo”. Scrisse anni dopo:

Cosa significa “omogeneo” in questo senso? La caratteristica di un’isola è di essere isolata; la caratteristica di una valle alpina, che d’inverno viene chiusa dalla neve ai valichi, è quella di divenire un’isola rispetto alle altre valli sulle Alpi, davvero ogni valle diviene come una barca resa impermeabile dalle murate, che la separano dalle valli contigue. Questo fenomeno non è vero sugli Appennini e non sempre sulle altre catene maggiori della Penisola. Bene, è ora che la ricchezza di studi sui centri abitati del Fitàlia trovi posto in un’opera sistematica, in cui tutti gli studiosi diano voce all’orchestra secondo il loro strumento preferito, sotto la direzione di uno o più Professori delle Università di Messina, Palermo e Catania, di quelli che macinano le tesi dei laureandi. Per le voci spente, come Gaetano Drago, esse potranno essere raccolte in una antologia di brani, come un disco [27].

Quest’idea era già stata affrontata e purtroppo non compresa nel 1985 [28]. Per riproporre la lettura delle singole pagine dei sei comuni di questo interessante compluvio posto sulla costa settentrionale della Sicilia, Giangiacomo Martines tornerà a rinfrancare il corpo e la mente su una delle spiagge delle nostra vallata. Durante l’estate in arrivo, per ricordare che il concetto di cooperazione nel settore dell’agricoltura fu retaggio fecondo dei galatesi nella prima metà del secolo XX, il Nostro verrà a incontrare quanti, amministratori e volontari, sapranno fare squadra e tendere a creare quella sinergia che possa rendere unitario il programma di vita sociale e turistica di Caprileone, Mirto, Frazzanò, Longi, Galati Mamertino e S. Salvatore di Fitàlia.

Note:
[1] Giovanni Previtali, Federico Zeri (a cura), Storia dell’arte italiana, Giulio Einaudi ed., Torino 1980.
[2] Su questo paese aveva scritto una interessante monografia il compaesano p. Gaetano Drago. Le due monografie mie, posteriori di un ventennio, avevano avuto un altro taglio pur nel doveroso rispetto per il mio predecessore.
[3] P. N. Pagliara, Monterotondo, Storia dell'Arte Italiana, 8, ed. Einaudi, Torino 1980, pp.233-278; Aa.Vv., Il riequilibrio del patrimonio culturale di Monterotondo, ed. Rotaract Monterotondo-Mentana, pro-manuscripto, 1989; Aa.Vv., Monterotondo, storia, arte, folklore, "Studio idea", s.d.; P. Albisinni-L. De Carlo, Dal rilievo verso il progetto, documentazione per il rinnovo urbano a Monterotondo, Università degli Studi "La Sapienza", Roma 1988; I. Betti, Monterotondo, Roma 1966; R. Cordovani, I Cappuccini e Monterotondo, Monterotondo 1984; A. Di Genova, Le sale affrescate, Monterotondo 1989; Consiglio Pastorale parrocchiale (a cura), Il Duomo di Monterotondo 1639-1989, Roma 1989; P. Filesi, Contributo alla storia di Monterotondo, Tolentino 1906; Bruno Marchetti, Monterotondo, 1981; Ibid., Lo statuto di Monterotondo, Roma 1984; S. Pandolfi, Monterotondo, una città da salvare, 1973; L. M. Rippa-O. Targioni Tozzetti, Camicie rosse e camicie nere..., Roma 1930; Osvaldo Scardelletti, Raccontare Monterotondo, ed. Balzanelli, 1992; Salvatore G. Vicario, Monterotondo in Sabina, 1a ed., Roma 1970, 2a ed., Mezzaluna 1987; Id., Fascina, 1990, pp. 22-25, 71-84; Id., La via Nomentana, strada di Roma per la bassa Sabina, ed. Rotary Club Monterotondo-Mentana, Monterotondo 1994; http://wsimag.com/it/arte/10308-girolamo-siciolante-da-sermoneta-in-monterotondo.
[4] Questa occasione gli fu propizia; negli anni della redazione del saggio, scrive Martines nel suo curriculum, studiò storia dell’arte con il prof. Federico Zeri.
[5] Gino Fabio, Con il fumo negli occhi, Troina 2005; Carmelo Spadaro, Il gusto del freddo, in La via del freddo di Luigi Lombardo, Siracusa 2006, pp. 41-47. Nelle alte montagne nebroidee, fra le tante antiche attività agro-artigianali, molto attive furono sino a metà secolo XX, le “neviere”. Mi piace qui ricordare come l’uso delle neviere fosse diffuso per ogni dove in Sicilia; anche sui monti Nebrodi ho potuto documentarne la presenza a Galati Mamertino e comprenderne la tecnica. Con il nome Foss’a nivi era inteso, in loco, un avvallamento naturale delle dimensioni di circa mezzo ettaro. Tale avvallamento si può reperire facilmente ancora oggi, a circa 100 metri lineari dall’origine del torrente Urra; ormai la zona conserva solo il nome, ma non più l’antico uso artigianale. Sino agli anni Cinquanta del secolo XX tale avvallamento veniva sfruttato come deposito di neve; la neve cioè, raccolta da operai del vicino comune di Longi, veniva depositata nel sito, indi compressa con violenti colpi di magghiu: era, questo, uno strumento a forma di mazza con faccia di percussione ampia, in legno di faggio. Così magghiata, la neve ghiacciava; per consentirne la conservazione sino a tutto agosto – il prodotto serviva soprattutto nei mesi estivi – veniva coperta con foglie di faggio, paglia e rami di faggio ancora fronzuti. Il tutto veniva ricoperto con uno strato di circa 10 centimetri di terra battuta. Il trasporto veniva praticato, a richiesta degli utenti nel periodo estivo, a dorso di quadrupedi. L’acquisto avveniva previa acquisizione di bolla di pagamento dei diritti di “uso civico” presso gli uffici appositi del comune di Galati Mamertino: nell’archivio comunale, allo stato non consultabile, dovrebbe essere ancora conservata, se non è andata distrutta nelle traversie amministrative, la documentazione di tale commercio. Al momento del prelievo, asportato il manto protettivo, il taglio avveniva con colpi di accetta: si ottenevano blocchi a forma di parallelepipedo allo stato di ghiaccio (cfr. Vicario, Salvatore G. (a cura), Annali 2007 dell’Associazione Nomentana di Storia e Archeologia onlus, p. 278).
[6] Mina Gregori (a cura), Venti modi di essere Zeri, Allemandi ed., Torino 2001, pp. 128-129.
[7] Giangiacomo Martines, Galati Mamertino, in III, I, Inchieste su centri minori, a cura di Enrico Guidoni, pp. 367-403, Torino 1980, in part. pp. 381-383. Cfr. pure Salvatore G. Vicario, Arte a Galati Mamertino nel XVII e XVIII secolo, Roma 1973; Idem, Un paese in montagna, 3° ed., S. Agata Militello 2002, p. 111; scheda di Francesca Campagna Cicala, in G. Cantelli (a cura), Le arti decorative del Quattrocento in Sicilia, Roma 1981, p. 114.
[8] Martines, cit., pp. 389-396; Gaetano Drago, Galati Mamertino e la Calacte di Ducezio, Roma 1958, pp. 124-132; Giusy Scurria, I Gagini imprenditori, I Quaderni della Valle del Fitalia 2014, pp. 66-68. Cfr. pure: http://wsimag.com/it/cultura/12577-ne-feretis-me-sine-me
[9] Il volume delle Inchieste sui centri minori bene ha indirizzato la nuova storiografia dell’arte, sotto la spinta vigorosa di Federico Zeri, verso la ricerca nei centri minori: al termine di questo percorso vi è la nuova meta per una corretta comprensione del fermento artistico nella provincia italiana, dei secoli appena trascorsi, che integra il monco quadro elitario che finora ci è stato fornito dai vecchi testi di Storia dell’Arte.
[10] Martines, cit., pp. 396-398
[11] Vicario, Una importante statua lignea in cerca d’autore, Quaderno Mamertino 2010, pp. 6-11.
[12] Il convento di Galati fu edificato accanto alla precedente chiesa della SS.ma Annunziata, ove oggi è il Camposanto: dell’intero complesso oggi è giunto solo il pozzo che era posto al centro del chiostro (cfr. Drago, cit., pp. 121-122).
[13] Vicario, Una importante …, cit., p. 11, 18n. Suggerisco, a eventuali successivi ricercatori, la coincidenza che “ancora nel 1602 signore di Galati Mamertino era un altro barone della famiglia Lanza”.
[14] Vincenzo Orlando, Federico Zeri a Galati Mamertino, Gazzetta del Sud, a. XXX, n° 195, 17 luglio 1981, p. 3.
[15] Vincenzo e Maria Luisa Valenti, Galati Mamertino nella storia di Sicilia, Massarosa 1984, p. 53.
[16] Vicario, Il trentennale dell’ingresso di Galati Mamertino nella Storia dell’arte italiana, Da Chala’ad a Galati Mamertino, contributi alla storia di Sicilia, Patti 2012, pp. 133-137.
[17] L'architetto, commosso per l'onore ricevuto dal Comune di Galati, ha ringraziato il Sindaco e l’intera assemblea della quale da quel momento diveniva concittadino.
[18] Aa. Vv., Electa ed., Milano 2005.
[19] Lettera da Arezzo del 17 novembre 2005.
[20] Cfr.: http://wsimag.com/it/art/9305-federico-zeri-in-slovenia-e-in-croazia
[21] Il motivo dell’assenteismo lo compresi tardi: nella notte del mese di marzo, tra il 26, sabato, e il 27, domenica, era scattata l’ora legale che privava già da sola i soci di un’ora di sonno.
[22] Nino Criscenti (a cura), Federico Zeri, L’arco di Costantino, Milano 2004, p. 50.
[23] Ibid.: “Nel Medioevo, almeno nei primi tempi, questi edifici sono stati accuratamente grattati per portare via l’oro che serviva come merce di scambio”. Zeri mi spiegò che gli operai si calavano in contenitori lignei sostenuti da corde fissate in alto a bilancia, sistema però che non consentiva di raschiare l’oro prossimo alla sommità.
[24] Martines (a cura), Colonna Traiana, Corpus dei disegni 1981-2001, Edizioni Quasar, Roma MMI, opera stampata in 900 copie numerate.
[25] Nel corso del radicale restauro di Domenico Fontana, avvenuto nel 1589 per volontà di papa Sisto V, sulla sommità fu collocata la statua di S. Paolo, opera di Leonardo da Sarzana e di Tommaso Della Porta; sul basamento fu apposta un'iscrizione che attribuisce, erroneamente, il monumento ad Antonino Pio, perché in passato si riteneva che questa fosse la colonna Antonina.
[26] Martines (a cura), Columna Divi Marci, Corpus dei disegni 1981-1996, Edizioni Modus, Roma MMXIII, opera stampata in 1200 copie numerate.
[27] Vicario, Gaetano Drago, Ciarle di un vecchio medico curioso, Sessantacinque anni di democratica follia, Agemina ed., Firenze 2013, pp. 29-30.
[28] Vicario, I Nebrodi nella prospettiva editoriale dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, “Fascina”, Monterotondo 1990, pp. 25-30 e 11n.