La natura è piena d’infinite ragioni che non furon mai in isperienza
Leonardo da Vinci

Chi solvere non sa, né assottigliare
Corpo non tocchi, né argento vivo
Perché non può lo fisso e’l volativo
Tenere chi non sà de duo un fare

Cecco d’Ascoli

*Chi mai d’alto cader l’argento vide
Che gli Alchimisti hanno mercurio detto
Ludovico Ariosto

Come illustrare un mistero per mezzo di un altro mistero? Può un enigma aiutare ad illuminare un altro enigma? Sto alludendo naturalmente al rapporto fra Leonardo, la sua vita, le sue opere e quell’altro rebus che è l’alchimia, un rebus che ha attraversato senza nascondersi sette secoli di Europa cristiana, a partire dall’anno mille, producendo centinaia di testi ed esercitando un forte influsso sulla storia della cultura occidentale. Non credete infatti a chi favoleggia di un'alchimia araba. La cultura islamica fece solo da passacarte verso l’occidente latino traducendo e tramandando testi greci, bizantini, a loro volta aventi come matrice originaria la metallurgia greco-romana. Già nel suo primo documento certo di una certa estensione, gli scritti di Zosimo di Panopoli (Visioni, Risvegli, il Commentario alla lettera Omega) risalente ai primi secoli cristiani, l’alchimia manifesta chiaramente una connessione iconologica e narrativa con il linguaggio mistico cristiano. Questo scambio vivace continuerà senza soluzione di continuità accompagnando tutta la storia dell’Alchimia come dimostrano gioielli quali la duecentesca Aurora consurgens, il seicentesco Processus sub forma Missae, e la settecentesca Sacra e universale Filosofia dell’Immacolata Concezione di G.B. Diana Paleologo.

Solo all’interno dell’Europa cattolica, in particolare a partire delle élites culturali monastiche, prima benedettine e poi dei francescani e domenicani, l’alchimia diventa una vera tradizione culturale, cioè una corrente di sapere precisa, organica, coerente, tramandata, fino a diventare anche una moda di successo fra gli ambienti monastici del Duecento e fra la borghesia cittadina italiana fra seicento e settecento, fino alla passione per l’alchimia che animò Newton, che può essere considerato l’ultimo grande pensatore che si occupò di alchimia, parallelamente alle sue attività scientifiche, e in autonomia da esse. Appare quindi assai difficile comparare un sapere, quello alchemico, già di per sé tendente all’universalizzazione dei temi e delle forme e alla contaminazione con altri linguaggi (medici, astrologici, musicali, poetici, teologici) con la semantica di un’opera così complessa, eccentrica, eterogenea, innovativa e creativa come quella di Leonardo, a sua volta tendente a sfuggire alla sistematizzazione e all’inquadramento ermeneutico per assurgere ad un’iconicità universale.

Una vecchia questione, quella del rapporto fra Arte e Alchimia, la quale anticamente era chiamata “Arte delle arti” o “Arte” per antonomasia, così enigmatica nei suoi testi che neppure siamo certi dell’etimologia del suo nome, se derivi dal greco significando “fusione del sale” o dall’arabo indicando la terra nera, il limo del Nilo o la città egizia di Kemi. Sia l’alchimia che il rapporto fra alchimia e arte sono stati riscoperti/sdoganati solo recentemente. A livello europeo possiamo citare il saggio/romanzo Il Mattino dei Maghi, 1960, di Louis Pauwels e Jacques Bergier, quale prima tappa di questa operazione culturale di nuova valorizzazione di queste antiche tradizioni occidentali, all’interno di una nuova visione della modernità quale ritorno di una mentalità sincretistica e di una logica sinestetica, olistica, che superi la dispersione iperspecializzante delle scienze postilluministiche. In Italia l’interesse per l’alchimia era sorto prima, anche se tramite saggi propedeutici e limitati seppur significativi, come il saggio di Giovanni Carbonelli Sulle antiche storiche della chimica e dell’alchimia in Italia, 1925, e il saggio Alchimia e Alchimisti, di G.C. Facca, Hoepli, 1934.

Riguardo al rapporto fra arte antica e alchimia è utile ricordare alcuni momenti rilevanti della riemersione del Mito dell’Alchimia: la celebre mostra Arte e Alchimia di Arturo Schwarzt nel 1986 alla Biennale di Venezia (che ha avuto il merito di rilanciare il mito dell’alchimia quale metafora di processualità e di trasformazione), il catalogo tedesco dell’omonima mostra Art and Alchimy (2014) al Kunstpalast di Dusseldorf, la mostra fiorentina L’Alchimia e le Arti. La Fonderia degli Uffizi, da laboratorio a stanza delle meraviglie (2012-2013), dedicata alle arti decorative e alla raffinatezze della metallurgia di corte, fino alla citazione dell’alchimia nel catalogo della mostra sui tarocchi viscontei Il segreto dei segreti. I tarocchi Sola Busca (2012-2013) presso la Pinacoteca di Brera. Questi interessamenti del mondo della cultura artistica verso la tradizione alchemica veicolano due problemi di metodo: il limite del riassunto storico e dell’indagine di nicchia e la perdurante natura sfuggente dell’Alchimia la quale, quando si esce dai suoi testi storici, appare di difficile riscontro all’interno del mare magnum dei linguaggi simbolici che dominano l’arte medioevale, rinascimentale e barocca. Come distinguere una semantica alchemica all’interno di opere d’arte rispetto alla sovrabbondanza storica di raffinati giochi estetici e codici iconologici che possono risolversi del tutto all’interno dell’utilizzo di altri linguaggi come quello mitologico, mistico, cortese? Non in ogni eccellente utilizzo di un’arte metallurgica di corte che celebra se stessa, i suoi committenti, e i miti allora in voga si possono nascondere reconditi quanto impalpabili sensi ermetici come non ogni dipinto allusivo e misterioso deve chiamare in causa per forza l’arte segreta di trasmutare gli elementi naturali, fra cui specialmente i metalli, che è l’Alchimia, non altro.

Con l’alchimia il rischio delle “derive ermeneutiche” che stigmatizzava Umberto Eco è fortissimo, soprattutto oggi in quanto il “Mito” dell’Alchimia deforma il racconto stesso della sua materia e si sovrappone e confonde con altri diversi miti. Il racconto diventa un fatto, la possibilità un dato, l’interpretabilità una nuova fluida religione: la raccontabilità; un nome, Alchimia, si trasforma in un vestito per tutte le stagioni. Cosa ci sia di alchemico ad esempio nella celebre Malinconia di Cranach, 1532, non è dato sapere. Questa magnifica opera viene considerata alchemica, anche nel bel catalogo tedesco del 2014, semplicemente per le ali scure dell’angelo e per la non comprensibilità immediata dell’opera. Basta alzare lo sguardo e concentrarsi sui quattro cavalieri che volano avanzando in un cielo cupo per comprendere come l’unico possibile senso simbolico dell’opera sia nel suo porsi quale riedizione e rielaborazione dell’incisione di Dürer. I quattro cavalieri fantasmagorici di Cranach non sono altro che una formulazione romanzata dei quattro cavalieri dell’Apocalisse ibridati con la bestia che porta la Prostituta di Babilonia. Lo si comprende bene soffermandosi sul cavaliere che innalza il teschio e cavalca un mostro verde, corrispondente al cavaliere della Morte secondo la visione di Giovanni. Molti, troppi, sono infatti i punti di contatto con l’opera düreriana per non considerarla l’archetipo di quella successiva di Cranach: la sfera, il tema del lavoro del legno, un incensiere, qui con Cristo risorto in apice e posto sul tavolo, il cane in posizione di riposo, lo sguardo irato dell’angelo, il tema del putto e la corona vegetale dell’angelo. In più abbiamo anche fichi e uva sul tavolo: altra allusione al topos della “vendetta divina” secondo la metafora della vendemmia, ben presente nell’apocalittica e nelle profezie. L’opera di Cranach aiuta addirittura a capire meglio l’incisione di Dürer e le due opere si illuminano a vicenda. Vediamo quindi come il linguaggio mistico basti a dare ragione dell’allusività misteriosa dell’opera senza scomodare inutilmente l’alchimia e seguendo il sempre ottimo “rasoio di Occam”.

Forse l’unica opera che possiede veramente un riscontro preciso e testuale a livello di linguaggio alchemico è invece proprio la celeberrima Melancolia I di Dürer in quanto nell’incisione troviamo un oggetto simbolico identico a quello che possiamo trovare nell’illustrazione della “prima chiave” dell’importante e celebre opera alchemica Le dodici chiavi di Basilio Valentino, alchimista tedesco quattrocentesco, ristampato con immagini nel '600 e ritornante anche in un disegno di Dürer ad illustrazione della Nave dei folli di Sebastian Brandt (1494). Si tratta di un evidente “crogiuolo ermetico”, e non semplicemente metallurgico, come aveva già fatto notare l’ottimo Maurizio Calvesi (Arte e Alchimia, Giunti) data questa sua intensa e precisa geometrizzazione simbolica, enfatizzato semanticamente dal fatto che viene fatto comparire in adiacenza con l’ibrido poligono platonico alla Pacioli (I Mistici dell’Occidente, Elemire Zolla, Luca Pacioli, Adelphi) che indica l’elemento dell’acqua e dell’aria, mostrando così in rapida successione tutti i quattro principi dell’Opera alchemica.

Nella versione di Copenhagen (Statens Museum) della Malinconia di Cranach i tre putti giocano con una sfera arancio-aurea e sembrano voler farla entrare in un cerchio. Neppure Calvesi ha restitito alla tentazione, propria di un’ermeneutica camaleontica e centrifuga, di vederci un'allusione ai tre principi dell’alchimia (zolfo, mercurio, sale) ma siamo in presenza neppure di un'ipotesi ma solo di una congettura astratta, vacua, inconcludente, altrimenti dovremmo parlare di alchimia per ogni numerologia ternaria presente in innumerevoli opere d’arte e spiegabile in senso religioso, estetizzante o allegorico. Calvesi ha incrociato il tema ermetico del ludus puerorum con la microscena del dipinto, ma di bambini che giocano sono piene le opere cinquecentesche e seicentesche quali allegorie morali o scene di costume e piacevano così tanto da diventare un modello iconologico a loro volta con le bambocciate. Così come non ci porta a nulla in senso alchemico la Madonna dal collo lungo del Parmigianino in quanto il collo avorio e slanciato di Maria e la colonna di color chiaro sono tradizionali attributi mariani derivanti dal Cantico dei cantici e dai suoi commentari medioevali e dalla devozione popolare, in quanto si tratta di allegorie presenti nei titoli delle litanie lauretane della preghiera del Rosario: turris eburnea, turris davidica. Forse le nostre bisnonne, che tenevano il Rosario in mano e in tasca e spesso lo usavano, specialmente in campagna, lo avrebbe subito e meglio capito rispetto a certi iper-raffinati studiosi d’arte, che vedono se stessi, e non l’opera.

Il catalogo della mostra tedesca del 2014 ci riassume in modo emblematico questo perdurante equivoco che deriva dal fatto che si vuole connettere ermeneuticamente arte ad alchimia in opere non ancora analizzate in modo adeguato. Non è possibile metodologicamente trovare prove di incroci di linguaggi fra opere e testi/temi alchemici senza prima avere contestualizzato e declinato (e talvolta neppure individuato) la lingua che si parla nell’opera stessa! Le opere d’arte citate da chi tenta di approfondire i rapporti fra arte e alchimia appartengono sempre a tre tipologie: a) opere che visualizzano i testi alchemici, ma in questo caso sono parte integrante dei testi stessi quali miniature e allora non possono essere considerate opere d’arte autonome influenzate dall’alchimia stessa, per cui la stessa Porta Magica di Piazza Vittorio Emanuele di Roma va ritenuta un vero e proprio testo alchemico scolpito; b) opere che hanno come soggetto descrittivo i laboratori ermetici o personaggi ermetici, come Il ritratto di Paracelso di Rubens e l’Autoritratto di Luca Giordano (ma non basta un alambicco, usato anche in farmacia e in chimica), e i dipinti “folkloristici” dedicati ai laboratori alchemici i quali attestano solo il successo cronachistico dell’alchimia quale moda e mito sociale fra '500 e '600, come quelli di Peter Bruegel, Adriaen Pietesrz Van De Venne, Richard Brakemburgh, e altri significativi che troviamo in Filippo Napoletano, Gerard Thomas, Giovanni Domenico Valentini, Giovanni Stradano, e altri) opere allegorico-mitologiche sul tema della metallurgia, fra cui ad esempio gli Amorini nella fucina di David Teniers il Giovane, l’Allegoria del fuoco di Adriaen Van Utrech, la Fucina di Vulcano e Venere ed Efesto di Brueghel il Giovane (che allude al topos di Venere che chiede/prende le armi per Enea), oppure basti pensare al simile e diffuso tema artistico di Teti che chiede le armi per Achille.

In tutte e tre queste tipologie non possiamo parlare di un rapporto certo fra Alchimia e Arte ma piuttosto di un uso interpretativo, metaforico e ipotetico, del Mito dell’Alchimia quale strumento per valorizzare e presentare certe opere artistiche. Medesima conclusione si trae dall’analisi del bel libro Parmigianino e la pratica dell’alchimia (2003), dove si ricama sulla testimonianza vasariana senza però riuscire a precisare nessun nesso o traccia attendibile di cultura alchemica nelle opere del grande artista. Anche se possiamo considerare ragionevole la ricostruzione storica che vede Parmigianino quale praticante l’arte dell’alchimia da ciò non ne deriva nulla sul piano dell’ermeneutica delle sue opere. Una domanda appare utile: perché importanti opere d’arte dovrebbero alludere all’alchimia quando dal '400 al '700 si diffondono sempre di più i testi ermetici, spesso ricchi di simboli, disegni e di immagini? Un pittore potrebbe essere stato alchimista e l’alchimia avrebbe potuto condizionarlo a livello di abitudine immaginativa e visiva ma fino ad ora non si sono viste prove convincenti di queste relazioni linguistiche. E’ vero il contrario: gli immaginari alchemici ci permettono di apprezzare maggiormente le semantiche mistiche e religiose nella pittura antica!

Stesso ragionamento che abbia fatto per il Parmigianino vale per un altro grande pittore: Correggio. Meraviglioso, e anche misterioso, ma nessun segno di sapere alchemico, e stessa conclusione per il Beccafumi, probabile alchimista ma non nell’arte, e per quanto riguarda Dosso Dossi e Cosmè Tura la cui raffinata abilità, la passione per i colori e temi di raffinato mitologismo possono far credere, a torto, che si tratti di messaggi alchemici subliminali. La comprensione dell’alchimia infine è resa più difficile dal fatto che sono pochissimi coloro che l’hanno studiata a livello semantico, linguistico e narrativo. Gli studiosi più accreditati a livello accademico si occupano di alchimia in quanto esperti di letteratura o di storia, seguendo quindi solo questi specialistici approcci, utili, necessari ma non esaustivi, anche in considerazione del fatto che l’alchimia era un sapere interdisciplinare, olistico.

Un raro caso di indagine specialistica di tipo scientifico-culturale e interdisciplinare la troviamo in un bell’articolo di Alberto Ansaloni ed Elio Occhipinti sull’Olio di Rupescissa sulla rivista La Chimica e l’Industria, (luglio-agosto 2012). Due ultimi esempi, fra i numerosi, di opere eccentriche che sembrano vicine all’alchimia: La Fortuna, della bottega di Jacopo Ligozzi (Uffizi) e la Vanitas di Joseph Heints il Giovane (Pinacoteca di Brera) Nel primo caso ad aver sedotto gli interpreti devono essere stati i colori intensi, puri, sinergici e l’eccentricità della scena compositiva, ma si tratta in realtà di una raffinata rielaborazione e del solito immaginario allegorico romano e rinascimentale della Fortuna: le ali ai piedi, la sfera instabile, il caos da still life oggettuale tipico del manierismo e del barocco. Nel secondo caso il dipinto è parzialmente enigmatico e sembra alludere a sensi sapienziali, ma il suo immaginario segue Bosch e i suoi mondi fantastici, rebus visivi, senza tuttavia uscire dal modello della Vanitas e dell’allegoria morale, come indica il Cupido protagonista della scena. Discorso simile per i tarocchi, gioco morale e allegorico. Se non sappiamo neppure come era giocato come possiamo ipotizzare una connessione dell’immaginario delle figure dei tarocchi con quello alchemico? Gli “ideogrammi” dei Tarocchi sono tutti spiegabili quali blasoni che derivano da racconti storici, dal mito greco, dal folklore e dalla letteratura antica. Non a caso quasi tutte le figure hanno nomi o derivano da altri immaginari, non per forza ermetici, come il Vecchio eremita, versione borghese di Saturno.

Tornando ai grandi maestri antichi non possiamo non parlare di Leonardo, nella cui opera molti suoi dipinti sembrano misteriosi e allusivi (tranne forse il Musico e La Bella Ferronniere, contestualizzabili a livello cronachistico) ma per i quali questa operazione di smascheramento e de-esoterizzazione non è difficile da condurre. Prendiamo ad esempio la Vergine delle rocce, l’opera di Leonardo che trasmette forse con maggior intensità un senso enigmatico della presenza di una “sottotraccia” narrativa, di una potente allusività semantica. Facile e comodo accostare il tema alchemico della Natura e della “Pietra Filosofica” al protagonismo del paesaggio nel capolavoro leonardiano. Più difficile, ma possibile, presentare una più attendibile alternativa ermeneutica a livello di matrice simbolica del rapporto fra le rocce e la Donna quale emblema-archetipo. Hans Memling ci viene in aiuto con la sua Allegoria della verginità dove una fanciulla idealizzata appare circondata da una selva di rocce a corona quale metafora dell’intangibilità morale. Leonardo potrebbe aver fluidificato e naturalizzato, nel suo stile, modelli simbolici fiamminghi o bizantini. Il problema dell’uso dell’immaginario alchemico quale criterio interpretativo per l’arte deriva dal fatto che per chi compie queste operazioni l’alchimia resta irrisolta, ignota, incompresa e ci si limita a mutuare in modo parassitario, decontestualizzando e “generalizzando” temi, nomi, forme, colori e rapporti semantici-narrativi estrapolati dai testi ermetici che in tale modo perdono il senso originario per diventare suggestivi nuovi modelli estetici con cui giocare a piacimento ma che restano spesso estranei all’identità sia dell’Arte alchemica che dei lavori artistici che si vorrebbe illustrare e comprendere.

Se passiamo ai ritratti anche di fronte alla Dama dell’ermellino ci può cogliere la tentazione di ”esoterizzare” giocando con i bestiari e i sensi allegorici dell’animale, specie osservando la versione leonardiana di questo animale, così guizzante, febbrile, mercuriale diremmo ermeticamente. Ma anche qui il tutto può risolversi esotericamente con più logica e semplicità con il ricordare l’investitura di Ludovico il Moro nel 1488 a cavaliere dell’Ordine dell’Ermellino, Ordine che viene dai Duchi dei Bretagna, il cui blasone presenta il mantello picchiettato del simbolico animale, e che venne assunto dagli Aragona, imparentati con gli Sforza tramite il matrimonio fra Isabella e Giangaleazzo. Coloro che hanno fatto di Leonardo un idolo e una remunerata professione, costruendone anche il falso mito di un illuminista ante litteram, non hanno neppure saputo leggere attentamente i suoi scritti dove il maestro dimostra di conoscere bene il linguaggio degli alchimisti. Ma prima di analizzare le sue parole consideriamo il contesto storico in cui visse ed operò. Che Leonardo abbia potuto conoscere l’alchimia, almeno a livello culturale, non è difficile da provare. La seconda metà del Quattrocento è ricca di testi alchemici che iniziano ad essere stampati con crescente diffusione e presenta varie figure di alchimisti quali ad esempio: l’umanista Ludovico Lazzarelli, Ottaviano Ubaldini, il braccio destro di Federico da Montefeltro, come ha ricordato e riscoperto Andrea Aromatico, Giovanni Mercurio da Correggio, che univa ermetismo a profetismo paramessianico, Bernardo Trevisano, Michele Savonarola che ebbe un carteggio con Mantegna, Giovanni Aurelio Augurelli, il pittore Cosimo Rosselli, amico di Leonardo, Giovanni Pico della Mirandola, autore del testo alchemico Opus Aureum.

Oltre a queste conosciute personalità molti altri conoscevano i testi alchemici o erano vicini alla cultura alchemica come la celebre duchessa di Forlì Caterina Sforza, che Leonardo conobbe, Ambrogio da Rosate, il “mago Merlino” di Ludovico il Moro che ne condivideva la corte con Leonardo e molti altri intellettuali e artisti, l’umanista Pietro Pomponazzi, quel potente e coltissimo intellettuale bizantino che fu il cardinale Bessarione, ma senza dimenticare Niccolò Cusano, l’umanista Galeazzo Facino, Felice Felicano, Niccolò Leoniceno, Ludovico Ariosto, Francesco Colonna, Pietro Leoni, lo stesso Papa Leone X, presso la cui corte soggiornò Leonardo, e altri due pittori che Leonardo conosceva bene: il suo maestro Verrocchio, alchimista secondo il Vasari e Piero di Cosimo. Il Vasari accenna anche al debito di conoscenza dell’anatomia che il nostro artista aveva con Marc’Antonio della Torre, che definisce professore in anatomia e studio all’avanguardia presso l’importante Università di Pavia (e a Pavia Leonardo spesso ritorna e si trattiene), ma pur definito “filosofo”, usando lo stesso termine che veniva allora usato per dire “alchimista” quando si trattava di scienze naturali. Leonardo era cresciuto nella Firenze del revival bizantino e grecista e nella quale erano giunti da Costantinopoli libri inediti di alchimia, erano riemersi i testi del Corpus Hermeticum, apprezzato da Cosimo il Vecchio e tradotto da Marsilio Ficino, testi conosciuti da Leonardo. Fra i libri che il nostro artista annota come propri nel Codice Atlantico, e anche in altri scritti, ne compaiono alcuni vicini alla cultura ermetica e di autori considerati importanti maestri di alchimia: l’Acerba di Cecco d’Ascoli, opera ricca di riferimenti all’alchimia, il cui autore fu un celebre poeta esoterico trecentesco che compose anche un sonetto dedicato alla Pietra Filosofale; I segreti della natura e Il commentario sulle virtù delle pietre e delle erbe di Alberto Magno, oltre alla Teologia Platonica di Marsilio Ficino e allo stesso Corpus Hermeticum del fantomatico Hermete Trismegisto.

Se passiamo a considerare senza preconcetti alcune riflessioni scritte di Leonardo sul tema degli alchimisti e dell’alchimia faremo una illuminante scoperta. Leonardo non criticò l’alchimia e gli alchimisti in quanto tali, né contesto i fondamenti teoretici e culturali di tale sapere ma si limitò a criticarne i pericoli, connessi alla tossicità di certe sostanze, e a ribadire come l’uomo non potesse creare “i semplici”, cioè gli attuali elementi chimici, ma che fosse solo opera della natura il farlo, mentre agli uomini spettava di governare “i composti”. Leonardo apprezza gli alchimisti citandoli addirittura come testimoni della sua riflessione sul rapporto semplici/composti che ho appena citato: "... e di questo mi saran testimoni li vecchi archimisti li quali mai, o a caso o con volontaria sperienzia, si abbattèro a creare la minima cosa che crear si possa da essa natura, e questa tal generazione merita infinita laude, mediante la utilità delle cose da loro trovate a utilità degli uomini…”. Leonardo apprezza l’utilità scientifica dell’alchimia, definendola quale "amministratrice de’ semplici prodotti della natura", e in effetti i testi alchemici di ogni tempo insistono sempre sul fatto che gli alchimisti non fanno altro che imitare il lavoro della Natura, semplicemente favorendolo, velocizzandolo, potenziandolo. Gli alchimisti creano e manipolano i semplici per giungere a nuovi composti ma non creano essi stessi gli elementi della Natura. La stessa poetica e filosofia estetica che emerge dagli scritti leonardiani appare compatibile con le basi culturali dell’alchimia. Leonardo parla della pittura quale filosofia che media fra i moti visibili e le dinamiche sottili, invisibili.

La diffidenza di Leonardo verso gli alchimisti è solo una diffidenza pratica dovuta al suo timore di finire avvelenato da certe sostanze (mercurio, piombo, arsenico), congiunta con il disprezzo per i falsi alchimisti. Leonardo continua la sua riflessione sull’alchimia persino esaltando l’oro quale vero figliol del sole, utilizzando quindi un linguaggio del tutto identico a quello simbolicizzante proprio dell’arte alchemica. Leonardo conclude questa sua riflessione sull’alchimia addirittura indugiando in allusioni sulla generazione naturale dell’oro che sembrano fatte da un conoscitore dei segreti alchemici. Il nostro artista infatti parla di come si generi l’oro nel caldo delle viscere della terra tramite una natura vivificatrice la qual ti mostrerà le ramificazioni dell’oro sparse per il lapis ovvero azzurro oltremarino, il quale è colore esente dalla potestà del fuoco. Per Leonardo esiste un “anima vegetativa” che genera l’oro, come fosse un seme, una pianta. I testi alchemici presentano una mentalità simile: i metalli sono creature che nascono, crescono, si moltiplicano e muoiono e il tema della terra/pietra dove nel buio e nel nascondimento si formano i metalli è tipico tema della cultura ermetica che si prefigge di operare riproducendo condizioni e dinamiche simili a quelle della Natura stessa. Anche l’utilizzo del termine “lapis” e l’accenno al colore quale stato ontologico e la fuoco quale “prova” delle sostanze e delle essenze, è tipico dei testi alchemici.

Leonardo in questo è perfettamente figlio del suo tempo e ripete la lezione aristotelica e tomistica sui 4 elementi quali essenze fondamentali dell’essere umano e del cosmo: terra, acqua, aria e fuoco, fattori vivi che agiscono gli uni sugli altri generando un'armonia fra macrocosmo e microcosmo. L’arte pittorica imita le operazioni della mente divina quando con libera potestà discorre alla generazione di diverse essenze. La dottrina dei quattro elementi era un tema culturale e scientifico normale, apprezzato e diffuso, tanto da essere anche celebrato pittoricamente come dimostra il Palazzo della Signoria di Firenze, la Casa Panigarola di Milano dipinta dal Bramante e la testimonianza del Vasari su Paolo Uccello sui suoi affreschi sulla “volta de’ Peruzzi”. L’opera più originale e complessa di Leonardo è certamente l’Ultima Cena di Santa Maria delle Grazie in Milano. Non a caso è l’opera più abusata e strumentalizzata a livello interpretativo e una delle più fantasiosamente “alchemizzate”! Io stesso ho iniziato a studiare a livello simbolico-narrativo-semantico il Cenacolo di Leonardo dopo che nel 2010 Andrea Aromatico, (eravamo a San Leo per la nostra mostra I Guardiani dello Spirito), esperto di alchimia ed esoterismo, mi regalò un’intuizione folgorante: l’anguilla nel Cenacolo corrisponde allo stibio. Lo stibio è il solfuro di antimonio, usato già nell’antico Egitto quale cosmetico, citato nella Bibbia quale uno dei nomi delle tre figlie di Giobbe (alla fine del libro biblico omonimo, e sono tre nomi tutti simbolici e allusivi!). L’antimonio è un semimetallo dal colore scuro e dal comportamento ambiguo, ibrido, come l’anfibia anguilla, e veniva usato nella lavorazione dell’oro, sia metallurgica che alchemica. Oltre a ciò questa sostanza, studiata già da Basilio Valentino, non sta mai sola, come la saturnina anguilla, ma si trova sempre con l’argento o il piombo, e il suo simbolo grafico è dato da un cerchio sormontato da una croce.

L’ipotesi di Aromatico mi aprì occhi sulla possibilità di entrare più nel profondo sui possibili sensi sottotracciali di quel racconto sacro e visivo che è il Cenacolo. Oggi considero l’idea di Aromatico un intrigante parallellismo simbolico fra semantica del racconto artistico e la semantica alchemica, in quanto l’anguilla può spiegarsi anche altrimenti, a livello gastronomico o cristologico, tuttavia questo input mi aiutò a cercare altri isomorfismi semantici, il più possibile precisi. Perché il Cenacolo è stato recentemente così usato quale icona alchemica? Perché si tratta di un capolavoro connotato da una grande universalità di temi, forme, modulazioni. L’universalità è la mediazione fra semplicità e complessità e il problema è che anche l’alchimia presenta analoga universalità di stilemi, topoi narrativi e icone riassuntive di vasti immaginari tale da rendere fin troppo facile e seduttiva un’operazione di incrocio ermeneutico. Il tutto è facilitato/complicato dai numerosi scambi e sovrapposizioni fra linguaggio mistico-teologico cristiano e linguaggio ermetico, come accennavamo.

E’ facile capire l’origine di questi numerosi equivoci se enumeriamo i più diffusi presunti temi alchemici che sarebbero rinvenibili quale sottotraccia del capolavoro di Leonardo: 1) il volto di un Gesù dal busto triangolare e intimamente angosciato rinvia al tema alchemico della putrefactio e del travaglio e morte dell’"oro", oltre al fatto che il triangolo indica ermeticamente sia il fuoco che la Pietra filosofale 2) i due colori delle vesti di Gesù e di Giovanni alludono ai due elementi essenziali dell’Opera: zolfo e mercurio (più probabilmente invece: i tradizionali sacramenti: Eucarestia e Battesimo, o meglio: la teologia del sangue e dell’acqua dalla Croce) 3) Gesù è il settimo da destra e da sinistra quindi si tratta delle sette fasi del lavoro alchemico (la numerologia può essere anche religiosa o astrologica) 4) i piatti sulla tavola sembrano petasi rovesciati o vasi di coppellazione, presentano il recipiente stretto e fondo e i bordi molto larghi. Tutte queste congetture, e molte altre, sono accomunate dal fatto che operano una classica inversione del baricentro ermeneutico. In iconologia non sempre vale la proprietà transitiva per cui se A (i connotati del dipinto) = B (l’iconografia cristiana) e B = C (l’iconografia alchemica) allora A = C; a meno che C spieghi meglio A più di quanto possa farlo B, possedendo A un livello di complessità superiore/diverso rispetto a B ma specificamente compatibile e armonico con C.

Applicandomi con impegno ho scoperto nel 2011 altri e più raffinati parallelismi, anch’essi però non esaustivi, in quanto si tratta di strutture, relazioni e dettagli del Cenacolo che possono essere spiegati benissimo in una dimensione religiosa o in altri ambiti. Ne elenco alcuni: a) Giacomo maggiore, virile, impetuoso e sanguigno, e Giovanni, delicato, femmineo e passivo, corrispondono al Sole e alla Luna, cioè lo Zolfo e il Mercurio (relazione spiegabile con il modello estetico-mistico della crocefissione declinata a livello cosmico-apocalittico; fra i molti esempi artistici quello della Crocefissione del Bramantino a Brera); b) i colori delle vesti di Gesù corrispondono, visti in sinergia con quelli opposti di Giovanni, alle operazioni del solve et coagula, (il tutto spiegabile ancora una volta con la simbolica della teologia dei sacramenti e del sangue di Cristo e con il tema dello “scambio mistico del cuore” fra Giovanni e Gesù); c) ogni gruppo di tre apostoli è strutturato a triangolo, segno ermetico del fuoco, e ciascun gruppo presenta sempre tre movimenti: un apostolo è fermo, uno in lento movimento e un altro è raffigurato con una dinamica posturale veloce, alludendo quindi ai tre stati della materia: liquido, solido e aereo; d) il soffitto, reso con colori scuri, opachi, è un quadrato numerico solare e quindi indica il ”sole nero”, immagine presente nello Splendor Solis, (il soffitto a cassettoni potrebbe semplicemente richiamare scritturalmente il Tempio di Gerusalemme, di cui Leonardo leggeva una predica del domenicano Savonarola); e) la serie apostolica presenta un “eccesso” di moltiplicazione di colori nelle vesti, talvolta non riconducibili alle simboliche cromatiche agiografiche, quindi si sta alludendo al tema alchemico della cauda pavonis (in realtà Leonardo, come Cecco d’Ascoli, studiava l’iride e l’arcobaleno, misticamente coerenti con la logica di irradiazione solare propria del Cenacolo), fase di prossimità alla vittoriosa conclusione dell’Opera.

Potremmo continuare e molti lo hanno fatto, anche più rozzamente, in quanto la struttura numerologica e geometrica del Cenacolo e il senso di mistero e di allusione che è tipico delle opere di Leonardo, secondo la nostra percezione moderna, permettono e quasi seducono a questi giochi interpolatori e manipolatori. Ma andremmo verso un vicolo cieco. Non c’è quindi alcun possibile nesso allora fra Cenacolo e temi alchemici? Una possibile nuova via di interconnessione mi sembra di averla individuata. La mia ricerca sul Cenacolo ha trovato un buon stimolo infatti anche dalla lettura di un ottimo e importante saggio che rimane un apax nello studio della semantica dell’arte: Magia e astrologia nel Cenacolo di Leonardo, di Franco Berdini, con un saggio di Francesco Mei e una prefazione dell’autorevole Carlo Argan. Un libro che è stato spesso saccheggiato senza citarlo, o frainteso, e che gli storici dell’arte hanno sempre ghettizzato relegandolo in un imbarazzato silenzio. Non hanno potuto attaccarlo apertamente in quanto la prefazione di Argan li metteva in soggezione ma lo hanno però colpevolmente condannato ad una damnatio memoriae da cui voglio contribuire a liberarlo. Si tratta di un ottimo e articolato saggio che rappresenta l’unica analisi approfondita del Cenacolo di Leonardo dal punto di vista simbolico e semantico. Dopo questa n nuova lettura sono seguiti sono altri due tentativi organici di reinterpretazione simbolica: quello di Sabrina Sforza Galizia sul Cenacolo quale mappa tolemaica e calendario cosmico e profetico (Il Cenacolo è il vero Codice da Vinci, di Barbara Frale e Sabrina Sforza Galitzia, La Repubblica, 14 marzo 2010) e la mia analisi del Cenacolo quale sacra rappresentazione mistica e apocalittica (Leonardo ha copiato da san Giovanni? Avvenire, 27 maggio 2011).

Franco Berdini, pittore acuto e sapiente, che partecipò alla mostra di Swarzt a Venezia nel 1986, individua una matrice sottotraccia semplice e unitaria: lo zodiaco. Ogni apostolo corrisponde ad una casa zodiacale e trova precisi isomorfismi fra la gestualità e le posture degli apostoli leonardiani e le raffigurazioni antiche del Tetrabiblios di Tolomeo, libro posseduto da Leonardo. La mia ricerca ha ricevuto slancio da questo studio e ho continuato sulla scia di Argan-Berdini ponendomi questioni motivazionali da lui non indagate e incrociando la dimensione sacrale-religiosa del dipinto con il tema zodiacale-cosmico, che a mio parere si comprende e si apprezza solo a partire dalla focalizzazione cristocentrica che sostiene tutto il dipinto. Siccome ad ogni casa zodiacale corrispondeva un pianeta, un metallo, una pietra e dei colori Berdini ha arricchito la sua analisi di vari schemi relazionali di approfondimento, lasciando però aperta la questione alchemica. Se infatti il Cenacolo declina il tema cristocentrico, quaresimale, pasquale (temi che sono anche ermetici a livello simbolico e astrologico) tramite lo zodiaco non può aver velato anche sensi ermetici, data la connessione in alcuni testi alchemici fra gli astri e le fasi dell’Opera? Ecco il tema che ho tentato di approfondire.

Per prima cosa dobbiamo rilevare la difficoltà di sovrapporre alla successione apostolica una parallela successione di fasi di trasformazione ermetica. Sembra tutto facile ma così non è. Da dove partire infatti? Da sinistra o da destra, all’ebraica, come sostiene Berdini, anche in considerazione del modo di scrittura leonardiano e del gesto allusivo di un Taddeo dai tratti leonardiani? Ma potremmo anche contemplare le fasi alchemiche considerando entrambi i lati in avvicinamento alla posizione centrale di Gesù, oppure gli apostoli in alternanza fra destra e sinistra. La questione è che la declinazione del lavoro alchemico quale lavoro in dodici fasi è ancora poco documentato nei testi fino al tempo di Leonardo, per affermarsi meglio più tardi. Già in Costantino Pisano, XIII secolo, abbiamo una bella testimonianza del rapporto zodiaco-alchimia, come pure in Basilio Valentino, e in Cecco d’Ascoli e Alcabizio (letti anch’essi da Leonardo), ma per Alberto Magno le operazioni fondamentali sono ancora quattro, e non dodici, e per altri autori sono sette, come i metalli e i pianeti. Oltre a ciò come rapportare i sette pianeti-metalli con i quattro elementi e i tre principi dell’alchimia, cioè zolfo, mercurio e sale? Ecco il cuore della questione: non basta la specularità di una sovrapposizione fra due linguaggi per precisare l’identità di una declinazione innovativa, per cogliere un nuovo modello, o la singolarità di una rielaborazione creativa. Se c’è un racconto alchemico nel Cenacolo deve poter essere raccontato, non semplicemente balbettato o intuito o accennabile. Deve trattarsi di una relazione dinamico-dialettica organica e coerente fra la struttura del racconto alchemico e la struttura compositiva del Cenacolo. Non basta utilizzare singoli dettagli del dipinto per farne estemporanee icone allegoriche coincidenti o rinvianti al metamorfico immaginario ermetico. Pur nella sua enigmatica incomprensibilità il racconto alchemico è sempre infatti a suo modo assai preciso, tanto che basta un po’ di paziente studio ed è possibile distinguere un testo alchemico autentico da un testo spurio (come i “manifesti rosacroce”) pur non capendoli entrambi, ma riconoscendone struttura e dinamiche costanti e ritornanti!

La rilettura di Berdini convince e appare profetica e illuminante (e infatti è stata quasi censurata dai “professionisti” che hanno fatto di Leonardo e del Cenacolo un business e un tabù), perché riporta ad un unità organica di senso il Cenacolo di Leonardo cogliendole ed illustrandone la singolarità rispetto ai modelli culturali ed estetici utilizzati e presupposti. Tramite lo schema unitario dello zodiaco, giù usato nei testi alchemici quale contesto, a livello di macrocosmo, del lavoro dell’Opera, il senso della processualità alchemica viene in parte riscattato dalla dispersività tipica dei testi ermetici e si riduce il grado di polisemìa propria del codice alchemico. Il limite di questa lettura, da cui sono ripartito per svilupparla, completarla e approfondirla, si trova per così dire nella sua "staticità" iconica. Berdini cioè spiega il Cenacolo per analogie e sovrapposizioni ma non indaga due altri aspetti: il rapporto fra il tema astrale-umorale e il tema teologico-morale (e il rapporto preciso con la dimensione alchemica), e l'aspetto motivazionale-selettivo, per cui non si ragiona sulle scelte specifiche di Leonardo. Ad esempio: perché Leonardo inizia la sequenza apostolica da Simone lo zelota? Perché colloca Filippo vicino a Matteo? Che rapporti sussistono fra gli apostoli leonardiani e le tradizioni/modelli agiografici, teologici, estetici nell'arte sacra precedente e contemporanea? Stesso ragionamento deficia per il rapporto fra inquadramento zodiacale e il tema dell’ermetismo, assai sfiorato e alluso da Berdini e Mei ma non affrontato direttamente in tutta la sua complessità e problematicità. Non è così facile infatti traslare il discorso dalla dottrina degli elementi e dei temperamenti a quella specificamente ermetica. Il primo sapere è un genus e si presenta quale dottrina tradizionale e dominante nei fondamenti culturali delle scienze per molti secoli, dal medioevo fino alla nascita della scienza moderna. Il sapere alchemico si muove dentro la fisiologia e la cosmologia tradizionali ma rappresenta uno specimen, una disciplina specifica e specializzata, riservata a pochi, autonoma da tutte le altre scienze/saperi e dotata di un linguaggio volutamente criptico e criptato da veli allegorici e da immaginari simbolici.

Oltre a ciò esisteva già a fine Quattrocentro una vasta cerchia di testi alchemici molto diversi gli uni dagli altri, espressione di differenti stili, correnti, pratiche. Già Costantino Pisano (XIII) ci attesta, nelle dissertazioni sull'alchimia che animavano al suo tempo la discussione scientifica all'interno dell'Università di Bologna, la presenza di due "scuole" nel pensiero alchemico: una platonica (Timeo) e una aristotelica (Metereologia). La "quaestio de alchimia" era diffusa anche a livello europeo, come testimonia Arnoldo di Sassonia e Vincenzo di Beauvais. Le domande che possono mettere in crisi la tesi, a cui aderisco, della possibilità del passaggio dalla lettura dei temperamenti a quella alchemica all'interno delle specificità compositive del Cenacolo può essere messa in crisi da più doverose domande in quanto una tesi linguistica per essere convincente deve poterci configurare un racconto in una lingua precisa (l'alchimia) all'interno di un altro linguaggio (zodiacale-fisiologico), che a sua volta utilizza un distinto tema (religioso-morale- teologico).

Quale alchimia? Che aspetti dell'alchimia sarebbero codificati dentro la successione zodiacale-apostolica? Quali relazioni fra gli apostoli devono essere prese in considerazione e secondo quale successione? Sempre da destra verso sinistra o al contrario, o alternata o speculare dalle due direzioni a confluire verso Gesù? L'unica certezza è data dal fatto che il sapere alchemico parla sempre di un processo trasformativo che deve trovare una conclusione positiva e definitiva e si tratta di un processo non alieno da un inquadramento astrologico. Cecco d’Ascoli nell’Acerba, letta da Leonardo, fa numerosi riferimenti all’alchimia e alla sua cultura, anche declinata astrologicamente e cosmologicamente: "Devi saper che sette metalli sono generati dalli sette cieli", e ancora, allude alla “Pietra” alchemica: "Chi seco porta questa bella pietra, giamai da sua salute non s’aretra" (Acerba, III,XX). Incidentalmente, per mera informazione, citiamo le teorie alchemiche sei-settecentesche (Ripley, Norton, e altri) le quali articolano in dodici le fasi del lavoro alchemico coordinandole con la successione dello Zodiaco, anche se queste concezioni non devono portare ad una troppo facile e disinvolta applicazione di un “isomorfismo numerologico” alla struttura zodiacale ricostruita da Argan-Berdini quale sottotraccia culturale e compositiva del Cenacolo:
1)Ariete/calcinazione; 2)Toro/congelazione; 3)Gemelli/fissazione; 4)Cancro/dissoluzione; 5)Leone/digestione; 6)Vergine/distillazione; 7)Bilancia/sublimazione; 8)Scorpione/separazione; 9)Sagittario/incerazione; 10)Capricorno/fermentazione; 11)Acquario/moltiplicazione; 12)Pesci/proiezione.

Nel Cenacolo Gesù è il centro totalizzante della scena e solo Gesù è in posizione stabile e ferma, in una postura a sé bastante. Non può che essere Gesù quindi l'esito e il centro di questa relazionalità semantica di lingua alchemica che dobbiamo ricercare all'interno della successione di tipo apostolico-zodiacale. Se consideriamo che i tre apostoli prediletti nel Vangelo siano Giacomo, Giovanni e Pietro (gli unici con Gesù nell’episodio della fanciulla resuscitata, sul Tabor e nel Getsemani) e che Giovanni e Giacomo hanno una posizione di eminenza nella scena del dipinto in quanto si trovano alla destra e alla sinistra di Gesù, come soddisfacendo l'audace e messianica richiesta vangelica (Mt. 20,.20.28), mentre Tommaso ha una postura speciale, unica, corrispondente al suo ruolo distinto da tutti gli altri a livello vangelico, e Giuda è il referente semantico principale del racconto pittorico leonardiano, è ragionevole concentrare l'analisi sui quattro apostoli che compaiono attorno a Gesù. Pietro compare nella sua mano che si appoggia sulla spalla di Giovanni, risulta come “assorbito" semanticamente nel ruolo essenziale di Giovanni. Tommaso appare con un contegno freddo, concentrato, quasi ridotto alla gestualità dell'indice, che rinvia all'episodio vangelico della prova della fede nella resurrezione di Cristo, ma pure rinvia al gesto tipico di Giovanni il Battista, come pure è un segno presente nei Geroglifici di Horapollo, che secondo Panofsky hanno influenzato anche Leonardo, e indica lo stomaco, e quindi, lo sdegno, ma pure può essere un allegoria di trasformazione, essendo lo stomaco un allegoria del vaso filosofico e dell’Opera stessa.

Giacomo appare colto in una sofferenza profonda, lancinante che sembra dissolverlo dall'interno. Le sue braccia sono a croce e il volto guarda verso il petto di Gesù, a cui viene assimilato nella resa del sembiante. Giacomo maggiore è colto da Leonardo secondo il tradizionale carisma che viene dalla tradizione vangelica e agiografica: un uomo impulsivo, un santo del coraggio e degli slanci, un carisma proprio da boanerges, "figlio del tuono", come lo ribattezza Gesù nel Vangelo. Giovanni è l'unico che ha assimilato il contegno interiore e spirituale di Gesù e ne mutua l'espressione sofferente, trasfigurata però in una sublime delicatezza. Giuda appare "in ritirata" sia in quanto si muove lentamente verso l'esterno allontanandosi da Gesù sia in quanto il suo volto è scuro, raggrinzito, come se si stesse autodistruggendo. Questa "tetrade" può essere illustrata anche alchemicamente. Non solo: tramite la mentalità e il linguaggio proprio dell'alchimia, e solo con esso, le relazioni reciproche fra questi quattro apostoli possono trovare un senso e una motivazione nella loro complessità, originalità e specificità. Il modulo della tetrade appare utile anche perché si tratta di un modo di ragionare assai diffuso nella logica e nella retorica medioevale e rinascimentale, e Leonardo leggeva anche libri di logica e di retorica.

Nelle discussioni scientifiche si polemizzava per tesi ed antitesi e si cercava un'armonia tramite modelli di armonia (oggi diremmo: standard) che potevano essere visualizzati quali quadrati/rettangoli. Un facile esempio di schematizzazione logica fra più polarità di una discussione sul libero arbitrio: "caso/libertà/necessità/causa". Mettendo in quadrato/rettangolo queste polarità si potevano sintetizzare una serie molteplice di relazionalità di senso. Se applichiamo questo diffuso modello ai nostri quattro apostoli leonardiani ne ricaviamo quattro centri di relazioni dinamiche. Prima riassumiamo i loro aspetti carismatici-zodiacali-umorali: 1) Giovanni: Aria, Aquila, Venere, Primavera, Malinconia, caldo umido 2) Giuda: Acqua, Scorpione (cioè alchemicamente: il drago, il sale), Marte, ferro, Autunno, Ira, freddo umido 3) Tommaso: Terra, Mercurio, Inverno, Flemma, caldo secco 4) Giacomo: Fuoco, Leone, Sole, Estate, Sanguigno, caldo secco. L'autore più letto da Leonardo era il domenicano Alberto Magno, considerato uno dei più importanti scrittori di alchimia e secondo Alberto Magno le operazioni fondamentali nell'Opera alchemica erano quattro: solutio, sublimatio, calcinatio e distillatio, per altri, come per Flamel, erano le medesime (solo con la coagulatio al posto della distillatio) e possiamo riscontrare molte analogie fra queste quattro fasi alchemiche e le specificità appena riassunte dei quattro apostoli.

La posizione di Gesù divide e unisce i quattro apostoli/elementi, come Mosè divide le acque del Mar Rosso (immagine mistica utilizzata anche in alchimia) e la loro relazionalità tetradica si può apprezzare alchemicamente in ben quattro direzioni: a) separazione fra umido (mercurio) e secco (zolfo), cioè fra Giovanni/Giuda e Tommaso/Giacomo, tema alchemico in Alberto Magno, Guido di Montanor, Rupescissa e in molti testi ermetici b) separazione fra sottile e spesso/pesante, altro tema diffuso nel linguaggio alchemico, cioè distinguendo verticalmente fra Giovanni/Tommaso e Giuda/Giacomo, c) congiunzione degli opposti, con la primavera (Giovanni) posta vicino all'autunno (Giuda) e l'inverno posto vicino all'estate (Tommaso/Giacomo) e i periodi susseguenti separati, d) distinzione fra movimenti opposti (verso l’alto la sublimatio/Giovanni e verso il basso la solutio/Giuda) e movimenti analoghi (Tommaso e Giacomo, le cui operazioni si muovono verso il centro e il profondo, in modo centripeto). L'alternarsi di operazioni di separazione con fasi di ricongiunzione è un topos di tutti i testi alchemici. Che gli apostoli possano essere icone di visualizzazione di codici ermetici ce lo conferma sempre l'utilissimo Costantino Pisano quando scrive nel suo Libro dei segreti dell'alchimia: da Giovanni non viene fuori Pietro e viceversa, utilizzando i nomi degli apostoli quali sub-codice narrativo per parlare di essenze/principi/elementi utilizzati nel lavoro dell'Opera!

Dopotutto diffusa nel linguaggio ermetico era anche l'immagine dell'uovo e si faceva corrispondere la struttura tetradica dell'uovo ai quattro elementi, a loro volta sintetizzati dai quattro primi apostoli: Pietro, il guscio (la terra), Andrea la pellicola (l'aria), Giacomo l'albume, e Giovanni, il mistico tuorlo, (fuoco) (Elemire Zolla, Le meraviglie della natura). Se poi passiamo alla lingua dei metalli e dei pianeti, anch'essa relazionata allo zodiaco, nel Cenacolo al Leone corrisponde l'oro, alla Vergine il mercurio, alla Bilancia lo stagno, allo Scorpione il ferro, cioè i metalli principali che compaiono nei testi ermetici. Notiamo che Giuda tiene strettamente in mano il sacchetto con le 30 monete d'argento, mente con il gomito fa cadere il sale. In Gerber si citano i sali per la calcinazione dello stagno, che allegoricamente indica, in senso morale, la carne e il tema del Sale è uno dei principali approcci delle declinazioni del racconto del processo alchemico. Nel Trattato sulla Pietra filosofale, attributo a Tommaso d'Aquino, il tema alchemico è declinato in una processualità di polarizzazione e purificazione dei 4 elementi, che vanno separati, essenzializzati, per poi giungere all’emersione della mitica Pietra dei “Filosofi”.

Anche il quadro teologico, per come è declinato da Leonardo nel Cenacolo, valorizzando i riferimenti edenici (fiori sugli arazzi, tempo serale, la frutta di tutti i mesi nei festoni, le chiome rosseggianti, ecc.) e la numerologia del tre/quattro/sette, nonché per i numerosi riferimenti al libro dell'Apocalisse, appare compatibile con una lettura anche alchemica del rapporto fra i quattro apostoli più vicini a Gesù. Esiste infatti una "teologia dell'alchimia", cioè una serie di ragionamenti teologici che giustificano scritturalmente l'Opus e che fanno riferimento sia al tema della separazione e dell'Eden (in Genesi Dio crea "per separazione") sia la tema della Quaresima e della Settimana Santa quale tempo ideale e perfetto anche per il lavoro dell'alchimia. Il parallelismo è perfetto: trasformazione degli elementi e trasformazione spirituale. Cristo quale pietra di paragone (testata da Tommaso) e quale agente trasformatore e catalizzatore. Il tema è stato adeguatamente approfondito, fra i molti, da Manuel Insolera (La trasformazione dell'uomo in Cristo, Arkeios). L'ossessione del Leonardo del Cenacolo per il numero tre (gli apostoli inscritti in triangoli, tre a tre, e con tre ritmi di postura), le tre aperture del fondo, le tre ghirlande, i tre coltelli. il Gesù e il Giovanni assai "triangolarizzati", i tre vassoi, ecc.) potrebbe contenere anche il senso alchemico delle tre tipologie di fuoco da utilizzare nel lavoro ermetico, di cui parlano vari autori rilevanti fra cui Bonaventura da Iseo, e potrebbe dialogare con l'altra geometrizzazione prevalente nel Cenacolo: il cerchio (l'irradiazione generale con il cerchio iscrivibile puntando dalla tempia destra di Gesù, la piccola lunetta sopra Gesù, le ellissi dei piatti e dei vassoi, le lunette delle ghirlande e le stesse ghirlande).

Se cerchiamo di restare sulle singolarità specifiche della struttura del dipinto sui temi alchemici più specifici troviamo un altro preciso topos: la commutabilità dei quattro elementi, cioè il credere che i quattro elementi siano compresi uno negli altri e che scopo del lavoro ermetico sia appunto quello di risalire come salmoni alla loro comune e unitaria radice, che è anche la radix metallorum. Citando Anassagora Leonardo scrive: "Ogni cosa vien da ogni cosa e d’ogni cosa si fa ogni cosa, e ogni cosa torna in ogni cosa, perché ciò che è negli elementi è fatto da essi elementi". Questa sua dichiarazione teoretica potrebbe essere sottoscritta da tutti gli autori ermetici e corrisponde perfettamente ad uno dei più antichi motti alchemici, presente nel papiro conservato alla Biblioteca Marciana di Venezia: "en to pan", Uno, il Tutto (BNM, Cod. Marc., Gr. 299, f. 188v), in base al quale è possibile trasformare in elemento in un altro, nella ricerca della comune matrice originaria o quintessenziale. La raffinata e reciproca relazionalità fra i quattro apostoli del Cenacolo più vicini a Gesù appare compatibile anche con questo tema. Gesù nel mezzo dei quattro apostoli quali tetrade cosmica fondamentale indica la Pietra Filosofale che governa le operazioni di solve et coagula che rappresentano l'essenza dell'Opera. Questo passo della Tabula Smaragdina, il più famoso e sintetico testo ermetico, ripreso da Cecco d’Ascoli e da molti altri autori, sembra potersi applicare perfettamente alla tetrade apostolica leonardiana: "... separerai la terra dal fuoco, il sottile dallo spesso... ".

Le relazioni psicologiche, spirituali, posturali e carismatiche fra i quattro apostoli leonardiani possono essere colte e illustrate alchemicamente, e solo tramite la cultura alchemica possiamo apprezzarne in pieno la raffinatezza, la precisione e ricchezza. Premesso che i quattro elementi non indicano i composti di cui noi tutti facciamo esperienza ma dei principi attivi non visibili che strutturano tutto il creato e che sono implicati in ogni trasformazione, ricordiamo che i testi alchemici ritenevano che dentro la terra ci fosse acqua, nell'acqua aria e dentro l'aria fuoco. Ecco perché il compito dell'alchimista poteva essere visto anche quale estrazione/separazione di determinate essenze a partire da certi materiali. Le relazioni fra gli apostoli leonardiani appaiono eccentriche rispetto un'ordinaria successione vangelica o zodiacale in rapporto alle loro posture ed espressioni e collocazioni, mentre ritornano logiche e armoniche se pensate alchemicamente. L'impetuoso Pietro che tocca Giovanni sulla spalla fermando il suo slancio e quasi immobilizzando anche Giovanni alchemicamente può indicare il tema della "fissazione del volatile", visualizzato nei testi con la bella immagine dell'aquila (Giovanni) incatenata ad una pietra (qui Pietro stesso), mentre l'apostolo Giacomo maggiore con un vestito color verde e corrispondente alla casa zodiacale del Leone è facile da leggere alchemicamente con l'immagine ermetica del leone verde o del leone che divora il sole (Rosarium philosophorum). Giacomo forse è l'apostolo che più manifesta con chiarezza una dinamica spirituale cara all'alchimia: la calcinazione, una sorta di "implosione", di dissoluzione interna di una materia ad opera di un acido o fuoco interno, detto "filosofico" in quanto antinaturale perché opera verso l'interno e non verso l'esterno e l'alto. Giacomo appare dilaniato da un dolore profondo che lo porta ad assimilarsi a Gesù ma in modo violento. La postura a croce e "a pellicano" coincidono con altri codici ermetici che indicano l'aceto e il crogiuolo.

Pure facile vedere Tommaso un'allusione ermetica alla cosa una, all'en to pan, ma più preciso è invece soffermarsi sul suo rapporto con Giuda che potrebbe alludere invece al tema alchemico della separazione fra acqua e terra, tipico di Genesi, come il rapporto fra i due fratelli figli di Zebedeo può spiegarsi con la separazione fra aria e fuoco, e alla dialettica simbolica e trasformativa Aquila/Leone, Sole/Luna, presente e diffusa in alchimia come nell'emblema del Vitriol nello Splendor Solis, nell'Aurora Consurgens, nel Libro della Santa Trinità, nell'archetipo dell'Arbor solis o della fontana mercuriale lulliana del manoscritto della Biblioteca Nazionale di Firenze, nella Turba philosophorum, nell’Azoth di Basilio Valentino, nell'immagine presente nella Tabula chemica o Senior de Chemia e in molti altri importanti testi ermetici (oltre all'incisione di Dürer: Gerson nei panni del pellegrino). Stando vicino a Gesù, che agisce immobile, con la sua voce, ogni elemento cosmico in questa logica ermetica subisce una trasformazione in atto: la terra si rarefa e asciuga (Tommaso), il fuoco collassa (Giacomo), l'acqua precipita (Giuda) e l'aria si condensa (Giovanni). La struttura quaternaria con al centro la Quintessenza rappresenta una struttura allegorica che troviamo solo nei testi e nell'iconologia alchemica la quale può dar conto della complessità e precisione di questa fenomenologia apostolica leonardiana che pone, altrimenti assurdamente dal punto di vista naturalistico il fuoco in basso (Giacomo) e la terra in alto (Tommaso), l'aria ferma (Giovanni) e l'acqua scura e pesante (Giuda), cioè le "scorie" della lavorazione alchemica.

L'Opera dell'alchimia segue la Natura ma inverte i processi naturali come conosciuti nella loro superficie di apparenza: il volatile viene infatti fissato (Giovanni) e il fisso viene volatilizzato (Giacomo), l'acqua si raggruma (Giuda) e la terra si alleggerisce (Tommaso). L'alchimia nasce sintetizzabile in questa tetrade di elementi e di operazioni. Già il primo autore di alchimia certo e conosciuto, Zosimo di Panopoli, ragiona in questo modo svelando ad esempio il senso criptato della parola A.D.A.M.= Oriente/Aria; Occidente/Terra; Nord/Acqua; Mezzogiorno/Fuoco. In questo scenario si possono rileggere anche i cibi della tavola: anguilla e arancio, cioè l'antimonio e l'"oro in cottura", anch'essi colti in una dialettica reciproca e duale: chiaro e scuro, fermo e sfuggente, acido e morbido, nozze e fecondità. I quattro apostoli più vicini a Gesù nel Cenacolo permettono quindi di precisare un racconto alchemico realizzato variando e modulando una resa zodiacale-umorale (ma sempre in chiave cristocentrica) della successione apostolica. L'unico limite di lettura di Berdini è aver fatto coincidere Gesù con il sole, che anticamente era considerato solo un pianeta, mentre Gesù non è parte della dodecimale successione zodiacale-apostolica ma rappresenta il Centro dell'universo, cioè alchemicamente: la Fenice, la Pietra filosofale, l'Elixir.

Sulla fortuna e l'antichità di tale parallelismo allegorico proprio del vivace e costante scambio fra iconologia alchemica e iconologia cristiana non serve dilungarsi tanto era conosciuto e celebrato, tanto quanto il rapporto fra zodiaco, teologia cristiana e alchimia (Pietro Bono da Ferrara, Nicola Flamel, John Dastin, Arnaldo da Villanova, Giovanni di Rupescissa, Bernardo Trevisano, Guglielmo Fabbri, Michele Savonarola, fra i molti). La stessa struttura del Cenacolo, capolavoro di equilibrio compositivo, è una struttura connotata da una incisiva geometrizzazione simbolicizzante. Sintetizzando possiamo definire questa struttura come un perfetto bilanciamento fra cerchio, quadrato e triangolo. Alchemicamente il quadrato corrisponde al sale, il triangolo allo zolfo e il cerchio al mercurio, come appare visualizzato in modo emblematico in un celebre disegno dell’Atalanta fugiens di Michael Marier. Forse questa è la ragione fondamentale che ha portato Leonardo a lunghi di tempi di realizzazione del suo capolavoro: la necessità di incrociare tre linguaggi: quello teologico-scritturale, indirizzato dai Domenicani di Santa Maria delle Grazie, quello astrologico-fisiologico, di gradimento a Ludovico il Moro e alla sua corte culturale, e quello alchemico, da approfondire. Sulla genesi del Cenacolo ci soccorre ancora l’acuto e coraggioso Argan: l’artista non andava in cerca di volti che potessero servirgli da modello: avendo in mente un’idea o un modello andava cercando la persona che lo inverasse.

Bibliografia (per le fonti non citate nel corpo del testo):
La Biblioteca di Leonardo, Fabio Frosini
Leonardo da Vinci, recenti riflessioni storico-epistemologiche sulla deformabilità dei corpi, di Raffaele Pisano e Danilo Capecchi
Scritti letterari, Leonardo da Vinci, Mondadori
Alchimia, I Meridiani, Mondadori
Il Papa e l'alchimia, Cristina Crisciani
Alchimia, Helmut Gebelein
Arcana Sapienza, Michela Pereira
Alchimia e iconologia, Mino Gabriele
Il Fuoco che non brucia, a cura di Massimo Marra
Divo Sole, a cura di Alessandro Boella e Antonella Galli
La Pietra Filosofale, Georges Ranque
L’immaginazione alchemica, Arturo Schwarz
L’oro alchemico, Doberer
Alchimia, introduzione all’arte della rigenerazione, a cura di Antoine Faivre
Alchimia: appunti per una semiologia del sacro, Stefano Andreani
Alchimia dell’immagine, Luca Valerio Fabj
L’arte segreta, G. C. Lensi Orlando
Alchimia e medicina nel medioevo, a cura di Chiara Crisciani
Alchimisti ebrei, Raphael Patai
Alchimia e utopia, Luciano Parinetto