Siamo oggi in studio da David Reimondo. L'artista di origine ligure, vincitore della V edizione del Premio Terna con l'opera Poesia di tre metri, incontra il filosofo della matematica Michele Maffeo, in un inconsueto dibattito che ci porterà a esplorare il "nuovo progetto" di David sul linguaggio.

Reimondo, da qualche anno sente di avere oltrepassato la fase più materica del proprio lavoro, che vedeva "il pane" come unico strumento artistico. I lavori sul pane, con chiari rimandi simbolici religiosi, hanno fatto conoscere e apprezzare l'arte di Reimondo, a galleristi e collezionisti sia in Italia che all'estero. Da circa quattro anni l'artista è approdato in una nuova fase simbolico-concettuale che esprime, insieme all'interazione, il completamento evolutivo del proprio Pensiero. A contribuire al raggiungimento di questa fase artistica, la consapevolezza di essere in un momento storico e culturale di crisi. Da qui la motivazione che lo ha spinto ad affrontare un progetto artistico di distruzione-costruzione più radicale teso al superamento della decontestualizzazione stessa dell'oggetto.

La costruzione intenzionale di un nuovo linguaggio può apparire come un esercizio teorico forzato, oltre che potenzialmente senza fine. Quale motivazione profonda ti ha spinto ad affrontare questo progetto?

Si tratta del tentativo di superare un limite culturale, anzi forse il limite culturale per eccellenza: quello dei codici intrinsechi alle pratiche simboliche di una comunità. Penso al risultato ottenuto da Duchamp come al massimo che si può fare dall'interno di un sistema di significati per metterne in discussione i fondamenti e i codici. Ma la decontestualizzazione porta con sé un limite intrinseco: quello di agire sugli oggetti, di lavorare con la loro corporeità. Ho voluto spingermi oltre quell'orizzonte, ho voluto sbarazzarmi dell'hardware umano in ogni sua possibile manifestazione (ecco perché questa mia nuova fase creativa supera quella "del Pane"). Tu mi hai parlato delle forti motivazioni esistenziali che animavano la ricerca filosofica del giovane Wittgenstein: non mi stupisce che il tentativo di arrivare a una esperienza di sé estrema, autentica, coincida con il progressivo rifiuto del linguaggio, della sua grammatica di superficie. Ma non in senso irreversibilmente distruttivo o negativo: senza linguaggio non c'è nulla, non c'è mondo, o almeno non c'è uomo, e io amo l'uomo. Spesso capita che prima di addormentarmi legga il dizionario della nostra lingua. Lo faccio con una cura che credo testimoni la mia passione positiva per il significato. Il mio lavoro non vuole lanciare un messaggio apocalittico, ma, se vuoi, terapeutico: se veramente vuoi venire a conoscenza della tua interiorità più incontaminata, devi liberarti dei simboli con cui parli, non dei significati di cui parli, e per farlo devi sforzarti di reinventarne i segni.

L’uso responsabile di una espressione linguistica, sia nel senso del proferimento che in quello della comprensione, si spiega attraverso l'immagine di una triangolazione fra i livelli semantici del segno, nota come triangolo semiotico. Tu ci confermi che il tuo recente esperimento intellettuale ti ha messo in prima linea di fronte al problema filosofico del significato delle parole. Vorrei farti una domanda classica della filosofia del linguaggio del '900, sulla quale la tradizione tendenzialmente si è spaccata in due: in che modo grammatica e mondo si spartiscono le responsabilità nella costituzione del significato di un simbolo? O detto altrimenti, ritieni che il ruolo del referente sia in qualche modo vincolante nel completamento del processo di comunicazione, oppure, parafrasando il Wittgenstein maturo, che il significato sia la funzione cui la parola adempie nell'uso?

Lavorare con il linguaggio, esplorarne i confini, soprattutto quello "inferiore", che idealmente confina con il nulla o comunque con una zona pre-linguistica, mi ha imposto una riflessione sul simbolo o più in generale sulla comunicazione. A tal proposito ho cercato di esprimermi, di formulare la mia congettura fedelmente alla mia nuova impostazione semantica: ho disegnato un simbolo, un mio triangolo semiotico sfruttando la grammatica che ho elaborato, con la sua sintassi e la sua semantica. L'intuizione che sta dietro a questo ideogramma credo risponda alla tua domanda: vedo una relazione di raffigurazione tra mondo e linguaggio, per esempio tra un enunciato il fatto che esso rappresenta, o tra un simbolo e ciò che il simbolo denota. Naturalmente la costruzione materiale del simbolo è arbitraria, ma una volta che al simbolo come significante viene associata la sua immagine del mondo, la sua scenetta raffigurativa, ecco allora, che fra simbolo e mondo scatta una relazione di condivisione strutturale fra il simbolo e, ciò che il simbolo simbolizza. A tal proposito voglio vederci una forma di specularità, come una riflessione. La nostra lingua, l'italiano, con il suo sistema di connessioni e regole riflette il mondo a modo proprio, un'altra lingua lo riflette in modo diverso. Anche il mio linguaggio raffigura il mondo con una grammatica propria. Ma il mondo, in un certo senso esiste, come qualcosa che sta al di fuori del linguaggio ma che può essere descritto solo attraverso un'immagine riflessa. Le immagini riflesse possono essere distinte, vedi i vocabolari di due lingue, e conoscerne i modi della loro riflessione e ciò che rende possibile la traduzione di un'immagine del mondo da una lingua all'altra.

David, se tra mezzo secolo dovessero chiederti quale artista ha rappresentato al meglio la società di oggi, chi risponderesti?

Credo che Jeff Koons sia tra i migliori interpreti della nostra società. Ogni dispositivo tecnologico, dal telefono all'I-pad, sino ad arrivare alle automobili stesse, sembrano realizzate per catturare il bambino che ognuno ha dentro di sé. Koons ripropone nella propria arte, l'aspetto ludico che ricerchiamo in tutte le cose.

Per maggiori informazioni:
www.davidreimondo.it