In ambito accademico il clinico, medico o psicologo che sia, si avvale della diagnosi sintomatologica per inquadrare il paziente, per impostare la terapia e focalizzare una prognosi. In medicina olistica al contrario, si emette diagnosi sul soggetto ed è quindi essenziale un inquadramento generale del paziente; tale inquadramento è finalizzato a definire, per quanto possibile, il reale momento etiopatogenetico all’origine del sintomo accusato. Da parte sua, lo psicologo concorre attraverso quella che viene definita “diagnosi di personalità”, ovvero l’inquadramento dell’insieme delle caratteristiche psichiche e delle modalità di comportamento del soggetto in esame.

E’ bene sottolineare che tale insieme di caratteristiche costituisce l’essenza stessa della persona. L’essenza è di per sé strutturale, ossia rimane tale nella molteplicità e diversità delle situazioni ambientali in cui il soggetto si esprime e si trova ad operare. E di ciò il medico olistico deve tenere conto, poiché spesso essa rappresenta sì la matrice del primo momento etiopatogenetico, ma anche il cardine principale attorno al quale diventa realistico ipotizzare una strategia terapeutica efficace e preventiva.

Va da sé che sia le ipotesi diagnostiche che le strategie terapeutiche finiscono per essere marcatamente personalizzate. D’altra parte, nella clinica non convenzionale olistica, l’unicità di un soggetto/paziente viene virilmente sottolineata. Tale assioma ormai consolidato rappresenta il più valido e avanzato contrafforte verso l’omologazione della diagnostica sintomatologica legittimata dalle statistiche epidemiologiche e dai protocolli esasperati e selvaggi di una clinica empiristica. La diagnosi non può essere un’etichetta che si orienta a categorie generali, ma deve diventare specifica per quel soggetto, orientata al singolo individuo, in un’ottica marcatamente personalizzata.

Altro aspetto riferito alla diagnosi che ci pare importante è l’uso condiviso con il paziente delle conclusioni diagnostiche alle quali il sanitario giunge. Non è mai sottolineato abbastanza, infatti, l’enorme importanza clinica che riveste la partecipazione attiva del paziente all’analisi della sua storia clinica, alla ricerca dell’etiologia dei sintomi accusati, alla condivisione del processo diagnostico che non può e non deve essere soltanto uno strumento ad esclusiva pertinenza del clinico ma, per essere veramente funzionale ed efficace, deve poter diventare, con gli opportuni adattamenti, uno strumento fruibile dal paziente stesso. La prevenzione secondaria non può quindi prescindere dalla consapevolezza del sé e della conoscenza dei propri potenziali di riequilibrio. La diagnosi così concepita rappresenta effettivamente per la nostra scuola uno “strumento”, sicuramente funzionale al lavoro del clinico ma soprattutto al processo di conoscenza di sé e di cambiamento del paziente stesso.

Le caratteristiche della diagnosi olistica

La diagnosi in medicina non convenzionale olistica, soprattutto se avviene all’interno del lavoro d’équipe, possiede una serie di caratteristiche che vale la pena sottolineare. La particolarità è una diagnosi:

• unica: il soggetto viene visto, considerato e valutato nella sua globalità, tenendo presente il dato psichico, quello fisico, quello comportamentale, in modo da formulare un quadro che sia unico, generale, fruibile da tutti gli operatori dell’équipe
• etiologica: la diagnosi si caratterizza per un’attenzione ai motivi che hanno portato a determinati problemi o compensi, non si focalizza sui sintomi, se non come manifestazione, epifenomeno che rimanda ad altro. La diagnostica sintomatologica, attualmente adottata e condivisa sia in campo medico che in campo psicologico, si rivela utile: in urgenza, ad una condivisione con il mondo accademico, al dialogo fra clinici, ma di fatto non appare utile in un’ottica funzionale di intervento clinico d’elezione. Infatti, una stessa sintomatologia può essere l’esito epifenomenico di strutture e situazioni completamente differenti, sulle quali è necessario intervenire secondo modalità e finalità completamente differenti
• condivisa: la diagnosi, che di prassi è condivisa tra l’équipe, opportunamente adattata e adeguata alle competenze, al livello e al grado di interesse del paziente, diviene comunicabile al paziente stesso, che ne detiene quindi la conoscenza, essendo il legittimo “proprietario” del dato clinico stesso.

Il “maitriser”

Innanzitutto, dal punto di vista concettuale, si ritiene che un paziente abbia il diritto di sapere, in un modo a lui comprensibile, quale sia il nodo centrale del suo problema, e la condivisione del quadro diagnostico rappresenta un atto di rispetto verso di lui. D’altra parte il fatto di mettere il paziente nelle condizioni di avere un ruolo attivo nella gestione del suo disequilibrio favorisce la consapevolezza del bisogno di cambiamento verso una migliore qualità di vita, spesso desiderata, ma raramente concepita, anche per l’assenza di parametri concreti su cui declinarla.

La partecipazione attiva alla gestione del suo disequilibrio lo rassicura, egli percepisce che non è in una situazione di pericolo, e lo staff medico dipartimentale a sua disposizione è un alleato non compiacente, che vuole valorizzare e potenziare tutte le risorse neuro-psico-endocrino-immunologiche di cui il paziente dispone. E’ oltremodo importante nelle fasi diagnostica e prognostica individuare le risorse di cui il soggetto dispone, o potrebbe disporre. Ogni individuo infatti, oltre alle risorse personali a cui abitualmente fa riferimento, può fruire anche di quelle messe a sua disposizione dal contesto relazionale nel quale è inserito. A ciò si aggiungono quelle risorse potenziali, che il soggetto non utilizza perché non sa di avere, o non ha mai considerato ovvero non ne ha mai capito la reale importanza. Ci sono poi potenzialità inespresse segregate più o meno inconsciamente in qualche angolo remoto del nostro io, la cui attivazione richiede un lavoro lungo e spesso doloroso, sul quale i nostri psicologi sono quotidianamente chiamati ad indagare.

L’azione maieutica

Spesso il paziente si rivolge alle medicine non convenzionali quando si rende conto che il suo problema non si esaurisce con il controllo farmacologico del sintomo anzi, paradossalmente, ciò comporta frequentemente l’esacerbazione di disturbi antichi mai risolti, al più sopiti, che difficilmente possono venire inquadrati dal sanitario e che finiscono per esaurire progressivamente il budget energetico del soggetto. Il paziente oggi ha bisogno di essere ascoltato, visto nella sua complessità, con il desiderio, non sempre espresso a parole, di poter essere considerato per quello che egli è, non di essere rimandato a inquadramenti iper-settoriali, che hanno come unico risultato la frantumazione della diagnosi in una serie di opinioni non sempre consonanti, il più delle volte poco comprensibili al diretto interessato. Di qui la non infrequente difficoltà alla partecipazione attiva alla terapia e la scarsa consapevolezza del bisogno di una relazione d’aiuto. Spesso ci è capitato di sentire il termine “prendersi in carico il paziente”; al di là del vago significato che tale espressione cerca di evocare, appare ineludibile l’inconscia contraddizione che suona ridondante nelle parole di chi pensa possa essere sufficiente un costo calmierato o una riduzione dei tempi di attesa per un appuntamento per risolvere la spersonalizzazione in cui la sanità oggi naviga.

Oggi il paziente chiede al medico di essere coinvolto in prima persona, e d’altra parte la gestione del disequilibrio deve poter disporre della partecipazione consapevole e attiva del paziente. Tutto questo rappresenta un obiettivo che il medico deve perseguire con determinazione, mutuato dall’intervento dello psicologo, in particolare là dove il vissuto del soggetto rendesse difficile definirne le caratteristiche della personalità e quindi le vie più adatte per una comunicazione elettiva. Tutto ciò si rende necessario poiché solo reclutando tutte le riserve neuro-psico-immuno-endocrinologiche del paziente si possono creare le condizioni ottimali per un intervento clinico efficace, eticamente e moralmente corretto. Un atteggiamento di passività del paziente, spesso utile in urgenza, diventa infatti devastante in elezione.

D’altra parte, lo psicologo clinico in medicina olistica non convenzionale è una sorta di facilitatore, un “maieuta” alla maniera socratica: così come l’ostetrica facilita quelle posizioni e quei movimenti che il feto già di per sé assume e mette in atto per venire al mondo. Una brava ostetrica, in una situazione ottimale, non forza mai la situazione, ma si pone come facilitatore, apparentemente passivo, di un processo naturale, che si realizza quasi del tutto indipendentemente da lei. Soltanto quando emergono problemi o intoppi nel naturale processo del parto-nascita, essa assume una posizione che diremmo più “attiva”, in altre parole “forza la mano” al fine di agevolare un processo o di risolvere con rapidità una situazione.

La tempestività dell’intervento dello psicologo clinico è essenziale. La rapidità con cui, per quanto possibile, favorisca un sufficiente equilibrio psico-emotivo del soggetto, fa la differenza. Infatti i risultati ottenuti nella contingenza, oltre ad avere un effetto terapeutico relativo alla terapia d’aiuto, in quanto tale, più precocemente fruibile, incide significativamente sulla qualità del rapporto medico-paziente, favorendo tra i due una più vivace e costante comunicazione, fattore essenziale per un intervento clinico efficace. La persona si sente quindi innanzitutto considerata e attiva nel suo processo di cura, sollevata per essere stata ingaggiata in una relazione di vera e propria alleanza terapeutica.