Nonostante non troppi terapeuti vogliano ammetterlo ogni analista, davanti a un nuovo caso di nevrosi, somiglia a un turista che, appena arrivato nel cuore di una metropoli sconosciuta, cerca punti di orientamento. Anche la mappa che ha appena comprato in edicola, con le linee di trasporti pubblici e dei collegamenti tra le strade e le varie stazioni di metrò, sono una matassa confusa e intricata che somigliano molto a un labirinto in cui orientarsi è molto complesso.

Non si deve pensare che i labirinti abbiano sempre mura, siepi, divisioni, specchi. Possiamo penetrare labirinti senza accorgercene, o vedere i nostri passi fermati da un impedimento invisibile, non esplicito, e inesplicato. Ci possiamo salvare – per arrivare a un indirizzo che abbiamo in mente – chiamando un taxi. Il taxi accompagna a un indirizzo preciso seguendo un tracciato: l'elicottero arriva allo stesso punto dall'alto. In un caso c'è l'esperienza del meandro, nell'altro no. Anche i motori di ricerca interni ai siti Internet ci portano alla nostra destinazione senza darci alcuna sensazione dell'intrico di connessioni soggiacenti. Ma molti siti propongono una sorta di "mappa" che è comunque sostanzialmente priva di qualsiasi utilità pratica.

Ogni mappa, di fatto, ci dice una sola cosa: è possibile disorientarsi. Il luogo in cui siamo può apparirci all'improvviso come un labirinto e per uscirne (non solo dal labirinto ma anche dalla sua percezione) ci vuole un colpo d'ala. Dedalo e Icaro uscirono dal labirinto con un volo, meraviglioso e tragico, e fu come se in un mondo piatto, un livellato deserto di sabbia o di ghiaccio, si fosse spalancata un'inaspettata terza dimensione. La inevitabile perplessità che il terapeuta interiorizza è che ogni nuovo caso di nevrosi che gli si presenta nasconde sorprese. Ma anche tesori del tutto inaspettati e imprevisti in cui l’apparentamento tra il genio e la follia si fanno molto più concreti di quanto in genere si sia portati a credere.

Beethoven e Goethe erano malati di forte nevrosi depressiva, Schumann riceveva visite dagli angeli, Rimbaud soffriva di allucinazioni, Schopenhauer viveva nell’ossessione di complotti perpetrati dai suoi nemici, Kafka era un nevrotico grave e ossessivo. Ciascuno di loro ha tentato di utilizzare l’arte, la parola, la musica, la poesia, la propria creatività, per uscire dal labirinto, così come Dedalo aveva inventato lo stratagemma del volo - da lui stesso costruito con determinazione - per riconquistare la libertà. La posizione del terapeuta nei confronti del paziente malato di nevrosi non è dunque solo quella di trovarsi di fronte a un soggetto perduto nel suo labirinto, ma anche quella di scoprire in quale modo, spesso inconfessato, la stessa persona stia elaborando stratagemmi per liberarsi, spiccare il volo e lasciarsi alle spalle le vertigini di quel labirinto.

L’altra inevitabile interrogazione, per il terapeuta, è se la nevrosi sia all’origine dei geniali strategemmi elaborati dal paziente, o se la genialità, per manifestarsi, deve avere il sopravvento sulla nevrosi. Un altro obbligo è quello di domandarsi cosa leghi così intimamente, in ciascuno di questi soggetti, genialità e follia. Terapista e paziente sono, in questa fase, due sconosciuti. Due soggetti che si sono incontrati per ragioni del tutto casuali (ciascuno è lì, ma potrebbe, per varianti assolutamente infinitesimali, essere altrove). Due persone che solo nella danza (tatto, ritmo, armonia, suono, metafora, allusione, fisicità, sguardo, mimesi) - in una danza che tenti di imitare i meandri dei labirinti che entrambi, attimo per attimo, stanno percorrendo - potranno trovare la via per scoprirsi e conoscersi. E tentare la via del volo liberatorio oltre gli intrichi e i viluppi.

Ovviamente il problema del labirinto (anche sul piano delle strategie terapeutiche) non si esaurisce nella risposta alla domanda: come se ne esce da tutto questo? Anche perché qualsiasi tentativo di comprendere il problema delle malattie mentali e dei loro rapporti con l’esaltazione creativa, nonostante i molti sforzi di spiegarne i nessi strettissimi compiuti nell’ultimo secolo, non è rimasto tale e non ha ancora dato risposte veramente esaurienti. Anche il tentativo adottato da Carl Jaspers di capire perché la follia e l’arte, nella loro espressione massima, spesso coincidano, non ha sciolto gran parte dei nodi. Ci ha però consentito di ripercorrere momenti importanti in cui la malattia penetra nella vita dell’artista, fino a trasfigurarne il lavoro creativo, e ci ha offerto un ricco materiale biografico su come, ad esempio, Strindberg e Swedenborg, Van Gogh e Holderlin hanno vissuto la loro malattia.

Sebbene Strindberg sapesse di essere gravemente malato e che la sua vita fosse intessuta di elementi che attestavano una forte coincidenza tra il più alto sviluppo creativo e la sua patologia, stupisce vedere che questi elementi più che un disfacimento psicologico ed emotivo, abbiano poi portato a una trasformazione del suo modo di interpretare e valutare l’esistenza, talmente personale e così fortemente soggettivo da restare incomprensibile attraverso le nostre comuni esperienze. Il processo schizofrenico, anche nel caso del drammaturgo svedese, ha infatti prodotto un’intricata modificazione dei normali meccanismi logici: il suo orologio mentale ha continuato a funzionare, ma in modo imprevedibile e con orari del tutto soggettivi. Si direbbe che una grande intelligenza al servizio di quella forza incontrollabile che è la follia, può spesso neutralizzarne gli effetti più devastanti.

Molti schizofrenici sono dominati da situazioni che minacciano di dilaniare la personalità, perché costretti a vivere senza sosta nel senso forte dell’imminenza della fine. Eppure non si abbandonano, nonostante la tensione a farsi precipitare nelle tenebre dell’insensatezza sia molto forte. Perduti nei meandri bui del labirinto della follia rifiutano di girare a vuoto e affidano alla creatività la sfida e il rischio di trovare una via di fuga. Secondo Pierre Rosenstiehl per avere la certezza di uscire dal labirinto bisogna disporsi a percorrerlo tutto, tornando indietro a ogni vicolo cieco. Si tratta di un "algoritmo miope", che non tenta di ricostruire induttivamente la mappa generale (quello è l'errore che disorienta) ma lo esplora sistematicamente. "È chiaro che ogni ricerca concernente il labirinto dovrebbe partire dalla danza", ha stabilito Kerényi: e il mito dice che alla fine della sua avventura Dedalo avrebbe eseguito con i suoi compagni sulla spiaggia una danza che imitava i meandri del labirinto appena percorso. In generale la riva del mare è un ottimo posto per tracciare labirinti, specie in molte cerimonie funebri egiziane e mediterranee.

Nel momento in cui la dinamica patologica della nevrosi ha inizio, appare nell’opera un cambiamento, che vi apporta qualcosa di unico e straordinario. Ciò succede perché artisti di grande genio sono capaci di innalzare la malattia a un senso supremo. Di legarla e di farne un tutt’uno con la propria esistenza spirituale, di dominarla “per” e “con” l’arte. In realtà, la dimensione demoniaca, la tendenza a misurarsi con l’assoluto, si pongono al di fuori della psicosi. Ma tutto accade come se il demone liberatore, che nell’uomo sano è frenato, riuscisse a sfondare, per consentire alle profondità dell’anima di rivelarsi. Lo smarrimento si sottrae ai travestimenti e alla menzogna della vita, diventando il momento della verità: espressione artistica. Danza, appunto. E là dove c’è una ricchezza spirituale, la follia può consentire all’arte di approdare alle vette più alte.

Le patologie, presunte o confermate, non riescono a spiegarci né la vita né l’opera di un artista. Il genio lo si constata, non lo si spiega. Non ci sono cause ed effetti, le une e le altre si raccolgono nella simultaneità dell’opera che è la formula eterna di quello che l’artista ha voluto essere e ha voluto esprimere.

Bibliografia:

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