Il concerto di Marianne Faithfull a Lucca, il 28 ottobre, me lo sono visto dalla prima fila. Accanto a me c’era un signore di Basilea che si era portato un mazzo di rose e orchidee, consegnato alla cantante alla fine della serata. Prima che la band comparisse da dietro le quinte dello splendido Teatro del Giglio, l’ho sentito raccontare che stava per assistere al suo settantesimo concerto della Faithfull. Mi sono messo a fantasticare, visto che dimostrava al massimo cinquant’anni, su quale media stagionale abbia dovuto tenere per raggiungere questa cifra, considerando oltretutto che non stiamo parlando di Dylan e del suo Never Ending Tour, che ti passa sotto casa di continuo. Ad ogni modo, un’ora e quaranta dopo, quando tutto era concluso, non ho avuto il coraggio di chiedergli qual era stata la sua impressione del concerto appena ascoltato, perché i termini di paragone erano così tanti che temevo potesse dire: “Beh, nel 1985 a Lisbona aveva cantato un po’ meglio la seconda parte di Sister Morphine” oppure “Nel ’72 a Londra aveva fatto anche What have they done to the rain”.

Dico subito che impressione ha fatto a me questo concerto, allora: mi è piaciuto molto. Avevo aspettative alte, vista la qualità dell’album uscito da poco, Give my love to London, uno dei miei preferiti del 2014, ma temevo anche che Marianne non fosse in buona forma dopo la rottura dell’anca che la costringe a usare il bastone e sedersi spesso, anche durante le esibizioni. Invece la signora sessantottenne, che in apertura ha spiegato “Ho ancora abbastanza dolore, ma sto molto meglio, dovevate vedermi un mese fa”, dispone ancora di grande classe, e le doti di interprete, che da molti decenni non sono più legate alla tecnica vocale ma alle due capacità che chiunque interpreti una canzone scritta da altri dovrebbe desiderare: primo, quella di riuscire a impadronirsi di un pezzo (“Tutte le canzoni quando le canto diventano mie” è una citazione di repertorio), secondo, quella di cantarle pensando bene alle parole, offrendo quindi un surplus di partecipazione.

Marianne Faithfull in queste due specialità è maestra, se non da quando, da ragazzina, le fecero incidere As tears go by, sicuramente da quando metteva i suoi fantasmi personali in Sister Morphine, per citare due brani regolarmente regalati al pubblico sia a Milano che a Lucca. Grande merito per la riuscita della serata va attribuito a una band strepitosa, con due stelle come il batterista Rob Ellis (che è anche il produttore del disco) e il tastierista Ed Harcourt (che è uno dei talenti più sottovalutati dal pubblico nel pop d’autore degli ultimi 15 anni), ma anche con la chitarra perfetta di Rob McVey e il basso di Johnny Bridgwood, che si è mantenuto discreto nelle ballad e ha saputo spingere nei pezzi più incalzanti. Come Give my love to London, con cui è iniziata la performance, e che è stata affiancata da altre sei canzoni del recente album (Falling back, The price of love, Love more or less, Mother wolf, Late victorian holocaust, Sparrows will sing), qualche perla meno conosciuta ripescata dal passato (Marathon kiss, Who will take my dreams away), e alcuni suoi classici immancabili, da Broken english a Sister Morphine, da As tears go by a The ballad of Lucy Jordan.

Senza pause, con molte introduzioni in cui la Faithfull si dimostra brillante, per esempio quando nella presentazione di Mother Wolf elogia Kipling per l’acume politico del Libro della giungla, o quando cerca un vecchio amico in platea, trasportando tutti noi con l’immaginazione in mezzo a ricordi probabilmente londinesi e probabilmente burrascosi. La voce è quella che ci ha conquistato fin dagli anni ’80, lontanissima dal timbro cristallino dei primi 45 giri o degli album folk: sofferente, graffiata, espressiva. Una voce che, esattamente come la donna a cui appartiene, non cerca di mascherare il passare degli anni. Marianne, molto sgonfiata rispetto a qualche tempo fa, si concede il vezzo di indossare “un meraviglioso Chanel” e si affida a un fotografo in gamba per il ritratto inserito nell’interno copertina del disco, ma non si ritocca, né con Photoshop né con il botulino, e infatti, se la guardi bene, se riesci a incrociare i suoi occhi chiari (e dalla prima fila succede molte volte, come ben sa il signore con i fiori) quella che vedi è una bella signora alla soglia dei settanta. Una che riesce a farsi scrivere la musica da autori di prima qualità (Steve Earle, Nick Cave, Roger Waters, Anna Calvi, Patrick Leonard, Tom McRae), che mette insieme gruppi portentosi, che convince Brian Eno a fare il coretto su Going Home di Cohen, che è ancora capace di scrivere testi intensi, e di cantarli con passione. Serve altro? A me basta così, tanto che in chiusura ero quasi tentato dal fregare i fiori allo svizzero e fare un figurone. Poi mi sono contenuto, andando a casa soddisfatto.