Noi viviamo attraverso il nostro percepire e vivendo sperimentiamo il mondo, che si mostra a noi in tutta la sua complessità. La nostra esperienza è per ciascuno di noi indiscutibile. La nostra realtà è la Realtà. Se von Glasersfeld affermava che «non si può uscire dalle modalità umane di percepire e concepire» (Glasersfeld von 1998, 31), Humberto Maturana perentoriamente dichiara: «L’universo è dovunque io vada. Noi ci muoviamo inseparabilmente insieme» (Maturana 2008, 29).

La nostra esperienza quotidiana è quella della credenza nell’esistenza di un mondo oggettivo, in cui esistono oggetti che non dipendono da noi, e il nostro stesso linguaggio, come già diceva il suo caro professor Young, è un linguaggio di oggetti. Poiché l’intelletto si esprime in quelli che noi chiamiamo concetti e per noi i concetti vivono nelle parole che ci consentono di esprimerli, nell’esperienza sensibilità ed intelletto si stringono in un unico nodo, ove appare collocarsi la questione dei rapporti fra l’esperienza sensibile della percezione e linguaggio (Spinicci 2000, 25).

Ma cosa è percepire?

Una volta entrato in scena l’osservatore1 , segno della sua avvenuta svolta epistemologica, Maturana amplia e articola approfonditamente ciò che ne consegue. Contrariamente a quanto solitamente farebbero i neurobiologi e faceva lui stesso all’inizio dei suoi studi, ipotizzando l’esistenza di oggetti esterni che potessero essere “afferrati”, secondo l’etimologia stessa della parola percezione, egli sostiene ora che quando un osservatore afferma che un organismo percepisce, ciò che egli vede è un organismo che porta avanti un mondo di azioni attraverso correlazioni sensori-motorie congruenti con le perturbazioni dell’ambiente nel quale egli lo vede conservare il suo adattamento.

Ma allora che cosa è vedere?

Nel 1968, Humberto Maturana pubblicò, con Gabriela Uribe e Samy Frank, l’articolo A Biological Theory of Relativistic Colour Coding in the Primate Retina (Maturana et al. 1968), che, come lui racconta, in un primo tempo nessuno prese seriamente. In tale lavoro si mostrava come l’intero spazio umano del colore potesse essere generato correlando le relazioni di attività delle cellule gangliari della retina con la denominazione del colore, giungendo quindi a considerare chiuso il sistema nervoso. La chiusura del sistema nervoso fu per lui una scoperta di grandissimo valore, che lo fece immergere nello studio della «cognizione come vero problema biologico» (Maturana e Varela 2004, 28).

Da tutto questo egli trasse due conseguenze, che definisce “immediate”: «la prima era che nei [suoi] studi neurofisiologici dovev[a] prendere seriamente l’indistinguibilità nel funzionamento del sistema nervoso tra percezione e allucinazione; la seconda era che avev[o] bisogno di un nuovo linguaggio per parlare dei fenomeni della percezione e del processo cognitivo» (Ibidem). Se, dunque, il sistema nervoso doveva essere considerato chiuso rispetto al mezzo in cui si trova l’organismo, viceversa, la percezione non doveva essere più vista «come la comprensione di una realtà esterna, ma piuttosto come la specificazione di questa […] nell’operare del sistema nervoso come rete chiusa» (Ibidem).

Senza più alcuna distinzione, appunto, fra percezione e allucinazione o illusione, né la possibilità di chiedersi come l’organismo si procuri l’informazione dall’ambiente, appare coerente con questo nuovo modo di ragionare il domandarsi piuttosto come è che accade che l’organismo possieda quella certa struttura che gli consente di operare nel modo adeguato nel medium in cui esiste.

Una domanda semantica doveva venir cambiata in una domanda strutturale. La seconda domanda richiedeva lo sforzo di descrivere i fenomeni che hanno luogo nell’organismo durante il verificarsi dei fenomeni percettivi e dei processi cognitivi in un linguaggio che li trattasse come fenomeni propri di un sistema nervoso chiuso (Ibidem).

In quest’ultima citazione di Maturana sono condensate tutte le problematiche della sua nuova epistemologia: accanto all’importanza essenziale data al linguaggio, che fa da rete di connessione non casuale all’intero ragionamento e si fa concreto produttore esso stesso del processo di produzione di realtà, come testimoniato proprio dal cambiamento della domanda da semantica a strutturale, è centrale la descrizione dei processi percettivi e cognitivi dell’organismo, la cui trattazione si annuncia ben diversa da quella della tradizione del pensiero che ha preceduto Humberto Maturana, poiché essa deve tener conto del loro manifestarsi in relazione ad un sistema nervoso chiuso.

Oltre alle ontologie del colore cosiddette “oggettiviste” e “soggettiviste”, proprio come ulteriore evoluzione dei primi studi di Maturana e poi di Maturana e Varela sulla percezione del colore, scaturisce, pertanto, una via di mezzo della conoscenza. In questa nuova ottica, la percezione visiva, lungi dall’essere “soggettiva” o “oggettiva”, lega insieme sin dalla sua genesi soggetto e oggetto della conoscenza, poiché il processo percettivo stesso costituisce la guida visiva dell’attività di un organismo vivente in un ambiente che si costituisce proprio per mezzo di tale attività. Francisco Varela, sviluppando questo concetto, parlerà di approccio “enattivo” alla percezione (Thomson et al. 2002, 352).

Da notare che, sebbene l’oggettivismo computazionale e il soggettivismo neurofisiologico appaiano tanto differenti, essi sarebbero in un certo modo relazionati. Là dove, infatti, l’oggettivismo computazionale concepisce la visione del colore come il “recupero” di proprietà distali, animale-indipendente, il soggettivismo neurofisiologico concepisce la visione del colore come la “proiezione” di qualità generate soggettivamente su un mondo distale di oggetti e le loro superfici, ma in entrambi i casi viene ignorata la codeterminazione di animale e ambiente.

La differenza fra le due epistemologie si mostrerebbe, invece, in maniera chiara considerando come in base a ciascuna di esse si può rispondere alla domanda: «Cosa viene prima, il mondo o l’immagine?», simile, come fanno notare gli autori, alla nota domanda riguardante l’uovo e la gallina. Questa metafora viene in origine usata in particolare da Francisco Varela, per illustrare la co-determinazione soggetto-oggetto della conoscenza, nella sua conoscenza enattiva (Varela 1992a, 253).

Mediante l’epistemologia computazionale oggettivista, si giunge alla posizione del pollo, poiché «il mondo distale può essere specificato indipendentemente dall’animale; esso getta immagini sul sistema percettivo il cui compito è recuperare il mondo appropriatamente da esse» (Thomson et al. 2002, 396). Questo modo di pensare appare così radicato nel comune modo di pensare, che la sola alternativa che viene in mente è la posizione dell’uovo, derivabile dall’epistemologia del soggettivismo neurofisiologico, per cui «il sistema percettivo proietta il suo proprio mondo e la realtà che così appare di questo mondo è puramente un riflesso delle leggi interne del sistema» (Ibidem).

Secondo Thompson et al., i colori sono piuttosto il risultato della codeterminazione animale-ambiente, per cui non si può stabilire chi venga prima, come nel popolare caso dell’uovo e della gallina. Del resto, secondo l’opinione generale dei biologi, considerando la storia evolutiva degli organismi viventi sul nostro pianeta, si può dire che gli organismi abbiano costruito e costruiscano il loro ambiente e siano stati e siano limitati dall’ambiente nelle loro attività in un processo circolare in cui ambiente ed organismo si sono determinati e si determinano reciprocamente, come ben spiega Fritjof Capra, ad esempio, con riferimento alla recente opera, da lui scritta insieme a Pier Luigi Luisi2.

Se vogliamo una diversa teoria della percezione, pertanto, dobbiamo accettare di rifiutare di separare la percezione dall’azione o, più in generale, dall’attività percettivamente guidata. Gli studi sui neuroni specchio condotti da poco più di quindici anni da un gruppo di studiosi italiani dell’Università di Parma depongono a favore di questo punto di vista. Nella metà degli anni novanta del novecento è stata scoperta una nuova classe di neuroni premotori nel settore rostrale della corteccia premotoria ventrale della scimmia macaco, in un’area conosciuta come area F5. Tali neuroni, denominati neuroni specchio da Gallese e colleghi (Gallese 2009), sono neuroni che si attivano ogni volta che l’animale esegue con la mano o con la bocca atti motori finalizzati al raggiungimento di uno scopo, come afferrare, prendere del cibo, manipolarlo, romperlo, spezzarlo, ma anche quando l’animale è semplicemente uno spettatore passivo di analoghe azioni eseguite da un’altra scimmia o da un essere umano (Gallese 2007).

Più tardi sono stati scoperti neuroni con proprietà simili in un settore della corteccia parietale posteriore reciprocamente connesso all’area F5 (Gallese 2009). Vittorio Gallese e colleghi hanno poi notato che questo meccanismo di risonanza motoria si attiva anche quando l’osservazione dell’interazione tra la mano dell’attore e l’oggetto non è pienamente visibile, ma può solo essere “inferita”, con un’inferenza che non può essere considerata di tipo logico, bensì come risultato di un’azione incarnata in una simulazione motoria. Analogamente accade anche quando l’animale può solo sentire il suono che solitamente si accompagna ad un’azione, come rompere una nocciolina, per cui è sufficiente il contenuto semantico, “rompere la nocciolina”, per attivare i neuroni specchio indipendentemente dalla modalità sensoriale che lo veicola. Gallese spiega questo comportamento della scimmia come «un meccanismo che incarna a suo modo una rappresentazione astratta dell’azione, che però è tutto fuorché astratta perché incarnata all’interno del nostro sistema motorio» (Gallese 2007, 4). Studi successivi hanno mostrato che anche nel cervello umano è presente un analogo meccanismo di rispecchiamento, il quale quando osserviamo azioni eseguite da altri con la bocca, la mano, o il piede, determina l’attivazione di regioni del nostro sistema motorio fronto-parietale che corrispondono a quelle che entrano in gioco quando noi stessi eseguiamo azioni simili a quelle che stiamo osservando.

Pertanto, come specifica Gallese, noi non «ci limitiamo a vedere con la parte visiva del nostro cervello, ma utilizzando anche il nostro sistema motorio» (Gallese 2007, 5). Seguiamo la divertente, ma efficace metafora che Gallese usa per mostrare le conseguenze cognitive di tutto questo: "Immaginiamo una creatura che, improvvisamente materializzata sul nostro pianeta e dotata di un corpo fisico totalmente diverso dal nostro, interagisca con gli oggetti terrestri impiegando il suo peculiare – e alieno – modo di agire, soggetto alle costrizioni derivanti dalla sua peculiare anatomia. Siamo sicuri che la descrizione degli stessi oggetti con i quali abbiamo a che fare nella nostra vita quotidiana sarebbe la nostra stessa? Se ci consentiamo di dare una risposta negativa a questa domanda, si apre la possibilità di definire la visione (e, transitivamente, anche le altre diverse modalità sensoriali) in un modo completamente diverso. I processi percettivi sono parte dell’azione" (Gallese 2000, 32).

Dunque, se, come mostrano i neuroni specchio, viene attivata una risposta motoria in riferimento ad un atto percettivo, non sembra più plausibile separare gli stimoli motori da quelli percettivi e quindi la percezione dall’azione, come facevano i cognitivisti, ma come si fa ancora spesso in ambito neuroscientifico, soprattutto là dove è forte l’influenza della filosofia analitica. L’approccio enattivo alla percezione e a quella visiva in particolare, dunque, non consiste nel riprodurre un mondo distale pre-specificato, ma dà grande importanza alle modalità sensori-motorie che sottostanno alla guida visiva dell’attività animale nella sua situazione locale. Secondo l’enattivismo, perciò, il colore non è né una proprietà indipendente da colui che percepisce, come nell’oggettivismo, né è una pura proiezione o proprietà del cervello, come nel soggettivismo, ma è una proprietà degli ambienti percettivi “enagiti” dall’animale, che fa esperienza durante le sue interazioni guidate visivamente, muovendosi in un mondo “enagito” dalla codeterminazione animale-mondo. Il colore risulta, dunque, sia ecologico che esperienziale.

È chiaro che anche gli studiosi della percezione visiva e noi stessi, come osservatori, non possiamo sottrarci alla circolarità della reciproca codeterminazione del mondo conosciuto. Si entra in un “loop” da cui non si può uscire, come abbiamo visto prendendo in esame la problematica figura dell’osservatore di Humberto Maturana3. Si può, in effetti, accettare la nostra posizione di co-generatori di un mondo dipendente dalle nostre caratteristiche biologiche, assumendo questo come livello zero della conoscenza.

In ogni caso, la visione enattiva del colore tenta una pericolosa navigazione, attraverso l’oceano della percezione e dunque della conoscenza, fra soggettivismo e oggettivismo. Analogamente, già insieme Maturana e Varela avevano parlato di via di mezzo della conoscenza, come quella via conoscitiva che prova a porsi fra i due estremi dati da una parte da coloro che negano solipsisticamente l’esistenza di una realtà circostante e, dall’altra, da coloro che, credendo nell’esistenza di un mondo pre-dato, pensano di poterne ricavare le informazioni necessarie a costruire sue rappresentazioni, navigando pericolosamente, come essi diranno nella loro nota opera L’albero della conoscenza (ed. it. 1999; ed. orig. 1984), in una odissea epistemologica fra il vortice del solipsismo, Cariddi, e il mostro del rappresentazionismo, Scilla (Maturana e Varela 1999, 121-122).

Nella nuova epistemologia autopoietica, dunque, muta totalmente il significato del percepire. In tale prospettiva, il nostro mondo percettivo si costituisce attraverso i cambiamenti di stato, ai quali andiamo incontro mentre conserviamo il nostro accoppiamento strutturale nei vari mezzi nei quali ci troviamo immersi nel corso della nostra vita. È usando i nostri cambiamenti di stato come distinzioni ricorrenti in un dominio sociale di coordinazione di azioni, che è il linguaggio4, ossia la particolare storia di coordinamento ontogenetico di noi come organismi in reciproco accoppiamento strutturale, che produciamo un mondo di oggetti come coordinazioni di azioni con le quali descriviamo le nostre stesse coordinazioni di azioni.

Gli oggetti che vediamo si costruiscono come tali e «impariamo a vederli», per usare l’espressione del vecchio maestro di Maturana, il professor Young, solo nella deriva ontogenetica dei nostri accoppiamenti strutturali con gli altri nel dominio comunicativo, nel linguaggio; la loro esistenza “oggettiva” non è altro che una nostra dimenticanza del loro sorgere in questo modo, come coordinazione di azioni in un dominio sociale, che ci fa considerare preminente l’esistenza indipendente da noi come osservatori degli oggetti sorti nella coordinazione linguistica, a causa del prevalere in noi dell’intensità della nostra esperienza (Ivi, 267-269) e dunque del nostro vivere.

Autopoiesi - Άυτοποιέσις

Note:
1) Si veda qui: Entra in scena l’osservatore e con lui il mondo
2) Si veda qui: Dal mondo come macchina al mondo come rete
3) Si veda alla nota 1.
4) Maturana ha scritto molto sul linguaggio. Si vedano ad esempio Biology of language: The epistemology of reality (Maturana 1978) e il recente Emozioni e linguaggio in educazione e politica (Maturana 2006a).

Per i riferimenti bibliografici citati nell'articolo:
Mascolo Rossella, 2011, L’emergere della biologia della cognizione. La complessità della vita di Humberto Maturana Romesin, aracneeditrice.it

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