Sono stata a cena da Michel Bras 3 anni fa, nel settembre del 2011. Inutile rievocare ricordi (se poi si tratta solo di ricordi)? No, affatto.

Oggi, sempre più, comunicare qualcosa, soprattutto sul web, vale solo se rispetta la legge del momento, dell’istantaneità. E quello che non segue questa regola viene abbandonato nell’oceano delle parole, degli scritti e dei post vinti. Nell’ambito gastronomico questo è estremo. Le testate si azzuffano per avere la cronaca dell’ultima cena dallo chef appena nominato come patron del ristorante migliore al mondo. E il web impazzisce all’istante. Il giorno dopo, però, quella stessa notizia sarà vecchia, e la cena pure. Si scattano le foto dei piatti e si immettono con foga nel circuito del web.

Non ho mai dato parole scritte alla cena da Michel Bras e all’Aubrac, terra in cui sorge il ristorante. Lo faccio solo ora, ma non per questo le mie parole non sono più valide. Un’esperienza gastronomica non si esaurisce mangiando e provando delle sensazioni e percezioni in quell’esatto momento, ma si prolunga nel tempo, rimane dentro di noi. E la elaboriamo. Non morirà mai.

Settimane dopo la cena, avevo tutto chiaro e nitido di cosa era stata. Mentre ora non nego di aver scordato tanti particolari dei piatti, le etichette dei vini che ho bevuto, i volti del personale di sala. Forse è normale. Non saprei. Ma quello che so è il valore di quello che provo oggi rievocando quell’esperienza e dandogli vita attraverso le mie parole, sicuramente diverse da quelle che ho pronunciato qualche giorno dopo, parlandone con i miei fondamentali compagni di quella straordinaria avventura enogastronomica: Alessadra, Riccardo e Alice.

Da Michel Bras sono stati momenti gastronomici felici. Me ne ricordo bene, ogni boccone che mangiassi mi evocava percezioni già vissute o qualcosa di estraneo. Come le Gargouillou, uno splendido mosaico cromatico e gustativo di più di trenta specie vegetali, per la maggior parte spontanee e originarie dell’Aubrac, il cui insieme era qualcosa di nuovo per me, ma costituito da parti, le radici, le erbe o fiori, alcune delle quali conosciute. E i loro profumi, sapori e gusti mi hanno fatto fluttuare nella memoria, stimolando la mia emotività. Le Gargouillou, buono e bello. Non lo scorderò mai. Michel Bras è giunto a concepirlo perché strettamente legato alla terra in cui è vissuto, l’Aubrac, difficile, povera, e a volte ostile all’uomo. Non cresce molto lassù. E si fa fatica a coltivare. Si allevano le aubrac, mucche massicce e rustiche tenute spesso allo stato brado.

Michel Bras ha iniziato a far ristorazione perché già i suoi genitori avevano un ristorante a Laguiole e lui, affascinato da questa dimensione, ha percorso la stessa strada. A differenza di tutti i grandi chef francesi di quel momento, però, non ha frequentato alcuna scuola parigina, e da autodidatta curioso ha studiato intensamente sui libri e tra i fornelli. Sempre in Aubrac, sempre nella sua terra. Lì, attraverso un processo di “osmosi con la natura” ha fatto dell’Aubrac la sua cucina, la sua identità, proponendo in ristorante anche piatti della tradizione che mai nessuno chef dell’alta ristorazione prima d’allora aveva sognato di fare, come ad esempio l’Aligot, crema di patate e toma fresca, saporita, come le sue patate, e dalla consistenza che ricordo ancora strepitosa. Michel Bras è quindi partito dal nulla “per accedere all’universale”, come dice lui stesso, cercando idee anche all’esterno del campo semantico della cucina, come i paesaggi e le relazioni personali.

“Quando si cucina, l’apporto globale è quello importante, non solo quello gustativo”, così ci ha rivelato. E “fossilizzarsi sulle ricette è cosa miope, bisogna partecipare di tutto quello che ci circonda”. Così la principale materia prima che utilizza proviene dal territorio dell’Aubrac, dal pesce alla carne, dalle verdure alla frutta. Le percezioni che ho provato durante tutta la cena sono state felici, di riscoperta a volte, perché è successo che da tanto non sentivo quegli odori, quei profumi o quelle consistenze. Il trionfo è stato sui dolci, dal tortino di cioccolato con cuore fondente, il coulant, che ha brevettato lui stesso diversi anni fa, ai conetti di gelato: cialde riempite al momento con gelati di frutta, spezie ed erbe dell’Aubrac, che ricordo intensissimi, anche se lontani dal mio gelato d’infanzia alle creme, e i suoi sapori erano puri. Il tortino al cioccolato, invece, mi ha fatto abbandonare completamente ai sensi per provare un piacere assoluto, anche nell’atto di mangiarlo, intagliandolo con un cucchiaio e causare un’erotica colata di crema di cioccolato fondente tiepida. Piacere sensoriale, ma in parte anche intellettuale.

Bene, queste righe non consideratele come cronaca di una cena. Ma percezioni elaborate a distanza di tempo. Per ricordarsi che deglutendo non si esaurisce quello che mangiamo.