La Fondazione Palazzo Magnani di Reggio Emilia presenta la mostra Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960, a cura di Monica Poggi e realizzata in collaborazione con Camer – Centro Italiano per la Fotografia, dal 25 ottobre all’8 febbraio in programma nelle sale affrescate dei Chiostri di San Pietro.
Un percorso affascinante che attraverso 150 fotografie ripercorre il lavoro, la vita e l’esperienza umana di Margaret Bourke-White (New York, 14 giugno 1904 – Stamford, 27 agosto 1971), testimone instancabile del suo tempo e pioniera capace di superare barriere e confini di genere.
La mostra, divisa in sei sezioni, prende avvio da I primi servizi di ‘Life’, quando nel 1936 la celebre rivista americana per il numero d’esordio scelse una fotografia che Bourke-White scattò alla diga di Fort Peck in Montana, e prosegue con i suoi reportage sulle industrie americane, raccolti ne L’incanto delle fabbriche e dei grattacieli. Ritrarre l’utopia in Russia ripercorre l’esperienza dell’autrice come prima fotografa ammessa in Unione Sovietica, mentre in Cielo e fango, le fotografie della guerra sono esposte le immagini scattate sui fronti europei, africani e sovietici della Seconda Guerra Mondiale. La mostra prosegue con Il mondo senza confini: i reportage in India, Pakistan e Corea, dove sono raccolte le fotografie dedicate ai maggiori conflitti degli anni Quaranta-Cinquanta, e si conclude in Oro, diamanti e Coca-Cola, testimonianza visiva delle sempre più marcate differenze sociali che l’autrice immortalò sia in Africa, dove compì diversi viaggi, sia negli Stati Uniti.
Approfondendo i passaggi chiave della carriera di Bourke-White, l’esposizione lascia emergere anche lo spessore umano e personale della fotografa, il suo carattere emancipato e lo stile di vita stravagante – nel proprio studio sul Chrysler Building, a New York, allevava due alligatori – che le permisero di affrontare con tenacia un contesto sociale ad appannaggio maschile e di diventare negli anni Trenta una delle donne più celebri degli Stati Uniti. Dapprima come portavoce delle politiche nazionali sul New Deal, veicolate attraverso uno stile capace di unire esigenze testimoniali e narrative con un’estetica vicina a quella della propaganda di inizio secolo. E successivamente come eroica e avventurosa fotoreporter, motivata dall’interesse documentaristico e dall’impegno sociale a muovere da uno stile più artistico, fatto di echi modernisti e di visioni scenografiche con cui immortalava i complessi industriali, sempre al limite delle possibilità tecniche e logistiche, a un tratto più fotogiornalistico, adatto a raccontare gli individui e la loro esistenza segnata da conflitti e difficoltà.
“Negli anni in cui ad ossessionarmi era stata la bellezza delle architetture industriali, nelle mie foto le persone erano state presenze puramente casuali. [...] Ora invece, mi interessano solo le persone”, diceva Bourke-White raccontando dei reportage realizzati sulla vita americana negli anni successivi al collasso economico. Indagine sociale che in seguito la conduce in Unione Sovietica, prima fotografa a testimoniare i piani quinquennali di Stalin (1929-1933) e poi a documentare i conflitti sui principali fronti di guerra di metà Novecento, contesti in cui viene accolta come una celebrità e considerata una risorsa cruciale per comunicare ciò che accade durante gli scontri. Tanto da ottenere l’autorizzazione per seguire l’avanzata degli alleati in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale ed entrare, l’11 aprile 1945, nel campo di concentramento di Buchenwald, dove ritrasse i sopravvissuti scheletrici, gli ammassi di corpi, ma anche i volti attoniti dei civili: “Vidi e fotografai pile di corpi nudi senza vita, i pezzi di pelle tatuata usata per i paralumi, gli scheletri umani nella fornace, gli scheletri viventi che di lì a poco sarebbero morti per aver atteso troppo a lungo la liberazione. In quei giorni la macchina fotografica era quasi un sollievo, inseriva una sottile barriera tra me e l’orrore che avevo di fronte”, raccontava la fotografa.
Nonostante la diffusione di macchine fotografiche portatili, leggere e maneggevoli, sono imprese che Bourke-White porta a termine preferendo il medio o grande formato anche nelle situazioni più scomode e pericolose, prediligendone l'alta precisione ottica e la monumentalità che conferivano ai soggetti. Non vi rinuncia nemmeno quando negli anni Quaranta-Cinquanta viaggia tra India, dove ritrae Gandhi, Pakistan e Corea. Anche in questi contesti di conflitto continua a preferire la posa alla presa diretta, più cara ad autori coevi come per esempio Robert Capa o Henri Cartier-Bresson, che impiega per restituire dignità alle persone provenienti dai contesti più umili, trasformati dalle sue immagini in portavoce dei drammi e delle storie dell’intera umanità.
Sensibilità umana e ambizione si uniscono così a comporre il profilo di una fotografa instancabile e impavida, sagace ed estrosa, la cui visione sconfinata emerge da un episodio curioso, risalente al 1955, quando, mentre cercava di combattere il morbo di Parkinson con operazioni sperimentali e terapie innovative, chiese al suo editore Henry Luce di garantirle l’incarico per il primo viaggio sulla luna. “Certo dovrei risolvere il problema del mezzo di trasporto”, scriveva nella lettera. “Forse tra qualche anno troverò la soluzione. Forse saltare la corda non significa che io sia in grado di andare sulla luna, ma la scienza corre così veloce, chissà”.
Un viaggio potente nello sguardo di una donna che ha saputo raccontare la storia attraverso immagini che ancora oggi parlano con forza al nostro tempo. Per riflettere sull’attualità del suo sguardo e sulla capacità della sua opera di interrogare il presente, la Fondazione Palazzo Magnani propone un programma di incontri pubblici dedicati al cosiddetto “Secolo americano”: quell’insieme di caratteri storici, culturali, ideologici, economici e sociali che hanno segnato il Novecento e che ancora incidono profondamente nella cultura e nelle vicende del presente.