Non siamo più al centro del mondo. La finzione moderna dell’umano, autonomo, razionale, sovrano si è infranta in modo irreversibile. Al suo posto emerge una nuova ontologia: distribuita, intrecciata, meccanica. L’Antropocene, con le sue crisi planetarie e l’accelerazione tecno-scientifica, ha destabilizzato l’idea di un soggetto umano discreto. Oggi abitiamo una condizione post-umana modellata tanto dagli algoritmi e dalle reti quanto dalla memoria e dalla carne.
Come sostiene Rosi Braidotti, il post-umano non mira a cancellare o superare l’umano, ma a decentrarlo. La figura dell’Uomo (universalizzata, bianca, maschile, coloniale) ha dominato il pensiero occidentale per secoli; ma questa figura è sempre stata una costruzione fittizia che ha escluso, marginalizzato, silenziato. Superarla significa aprirsi all’ibridazione, a modalità di esistenze non lineari, a forme di soggettività mediate dalla tecnologia.
Donna Haraway, nel suo Manifesto cyborg, ci invita a immaginare un futuro in cui i confini sono porosi — tra umano e macchina, tra natura e cultura, tra io e rete. L’artista, in questo scenario, non è un genio isolato, ma un corpo-cyborg, un nodo all’interno di un’ecologia estesa fatta di codici, materiali, archivi e algoritmi.
Tuttavia il post-umano non è solo un mutamento soggettivo o estetico, è anche un collasso percettivo, una crisi di scala e di causalità. Il filosofo Timothy Morton definisce iper-oggetti (hyper-objects) quelle entità così enormi e distribuite nello spazio e nel tempo da risultare quasi impossibili da afferrare: il cambiamento climatico, la Plastica, le radiazioni nucleari, le emissioni invisibili che attraversano la nostra esistenza quotidiana. Gli iper-oggetti sfidano i nostri modi abituali di pensare, di sentire, di rappre sentare. Ci costringono a una nuova ecologia della coscienza, a una visione non più antropocentrica ma interconnessa, stratificata, inquietante.
Questa mostra si intitola Hyperballad. Un titolo che evoca movimento, una danza a ritmi lenti e malinconici, ma esagerata ed iper-emotiva, amplificata attraverso cavi e protesi. Non è solo un’esposizione, è un atto performativo: un ballo su una zattera che affonda, una coreografia fragile tra l’estrazione mineraria che alimenta i nostri dispositivi e l’estetica digitale che li sublima; tra il corpo disgregato dall’algoritmo e le relazioni affettive che si dissolvono in un presente liquido e iperconnesso. È una ballata post-umana, dove si danza nonostante, o forse proprio dentro, il collasso.
I nuovi media: scanner 3D, pittura digitale, modelli generativi, non sono solo strumenti, ma atmosfere cognitive. Estendono il sé, alterano il reale, producono estetiche che non appartengono né al naturale né all’artificiale, ma a una zona ibrida, incerta. L’opera d’arte diventa un’interfaccia tra il biologico e il sintetico, tra l’umano e il più-che-umano. L’artista lavora con flussi, dati, ecosistemi computazionali: non crea forme, ma attiva sistemi, orchestrando forze visibili e invisibili.
In questo contesto, parlare di ecologia significa anche accettare il suo lato oscuro. Lontano da visioni armoniche o romantiche della natura, l’ecologia oscura di Morton ci ricorda che viviamo immersi in un mondo contaminato, pieno di scorie e fantasmi. Le nostre vite, le nostre opere, i nostri amori sono già dentro questa rete tossica. Non c’è “fuori” a cui tornare. Eppure, dentro questa complessità, l’arte offre uno spazio per respirare. Per sentire collettivamente la crisi, ma anche per immaginare nuove forme di sensibilità, nuove grammatiche del corpo, del tempo, della materia.
Hyperballad è questo: una ballata incerta, un inno fragile alla possibilità di danzare tra le rovine. Un atto lirico di trasformazione nella sopravvivenza, di presenza intrisa del tempo che ci è dato.