Nel 1919, agli inizi del secolo, Antonio Gramsci fondava un giornale chiamato “l’Ordine Nuovo”. Solo due anni prima c’era stata la Rivoluzione d’Ottobre, un sommovimento che aveva cambiato radicalmente - e nel profondo - le prospettive, e che avrebbe in effetti segnato l’intera storia del secolo, e Gramsci giustamente intuiva che quell’evento non solo cambiava tutto, ma - in un modo o in un altro - prefigurava la nascita di un diverso ordine mondiale.

E oggi, siamo nuovamente in una condizione simile, si intravedono i chiarori dell’alba di un nuovo mondo. Siamo ancora in una fase di transizione, inevitabilmente caotica, ma la direzione è quella, e - vada come vada - il mondo non sarà più come lo conosciamo. Quello che però ancora non si coglie, almeno qui in occidente, è che il cambiamento in arrivo è molto più di un semplice avvicendamento nel ruolo di potenza egemone, non è semplicemente un passaggio di consegne (per quanto cruento) da un impero ad un altro.

Il nuovo mondo presuppone un nuovo ordine. È l’intero paradigma che verrà messo in discussione. Lo stesso anno che Gramsci fondava il suo giornale, le potenze europee vincitrici del primo conflitto mondiale fondavano la Società delle Nazioni, allo scopo di mantenere la pace e sviluppare la cooperazione internazionale in campo economico e sociale. O, molto più semplicemente, per instaurare un ordine, uno strumento regolatore, che consentisse di mantenere e perpetuare i rapporti di forza stabiliti con il conflitto.

Ma erano entrambi talmente intrisi di quella logica predominatrice che aveva caratterizzato per secoli i Paesi europei, da durare ben poco. Ed è solo con il secondo conflitto mondiale, che qualcuno ha ritenuto essere nulla più che un proseguimento del primo, che si giunge ad un punto fermo. Non a caso, perché segna la fine dell’egemonia europea, e l’affermarsi di quella americana.

La nascita dell’ONU fu appunto il nuovo strumento regolatore che venne allora immaginato, ed intorno ad esso si è cercato di costruire una architettura normativa che, appunto, desse forma e regole all’ordine post-bellico. Anche in questo caso, vi era l’idea - o forse soltanto l’ideale - che questo nuovo ordine, e le sue regole, fossero in grado di assicurare la pace. Cosa che, puntualmente, non è avvenuta.

In ogni caso, pur non essendo mai del tutto rispettato, questo ordine targato ONU ha più o meno retto per alcuni decenni, fintanto che, almeno, sono esistiti due campi contrapposti (ideologici, e non solo politico-militari) che, tenendosi reciprocamente in equilibrio, hanno fatto sì che - sia pure in chiave compromissoria - quest’ordine reggesse. Sinché, con la fine della Guerra Fredda e la caduta dell’URSS, è venuto meno sia l’equilibrio che il vecchio ordine.

Questo vecchio ordine, in ogni caso, benché fosse fondamentalmente segnato dall’equilibrio competitivo tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, manteneva molte caratteristiche del precedente ordine eurocentrico; una su tutte, l’arbitrio delle potenze egemoni nello stabilire non solo le sorti, ma persino i confini delle nazioni. Basta infatti guardare una qualsiasi carta geografica per capire come, particolarmente in Africa e in Medio Oriente, questi sono stati tracciati e mantenuti secondo l’esclusiva logica del dominio. Logica che si è rivelata perfettamente funzionale anche nell’era bipolare della Guerra Fredda. Ma, come si diceva, finita questa è conseguentemente saltato il sistema di equilibri, e con esso l’ordine che su questi si fondava. L’ordine, ma non gli strumenti regolatori.

Finita la storia, secondo la famosa - e farlocca - definizione di Fukuyama,1 l’egemone solitario che ne è emerso ha quindi provveduto a realizzare via via un'articolata architettura regolatrice, ovviamente a propria esclusiva misura. Tale costruzione si è però caratterizzata per la sua duplicità - destinata inevitabilmente, come è poi accaduto, a risolversi in doppiezza. Da un lato, infatti, è stata mantenuta in piedi l’ONU, con tutti i suoi corollari normativi (il diritto internazionale), ma dall’altro se ne è creato una sorta di avatar, il cosiddetto “ordine internazionale basato sulle regole”, il quale però null’altro è se non una sorta di etichetta adesiva, che si può riposizionare a piacimento, ma che allude - in modo sufficientemente vago - alle Nazioni Unite e alle sue regole.

Il riferimento a delle regole, infatti, suggerisce che queste siano quelle più o meno universalmente riconosciute (e un po’ meno rispettate) incarnate dall’ONU. Ma in realtà, come ben sappiamo, si tratta semplicemente di una mascheratura: non solo le regole di questo presunto ordine non sono quelle dell’ONU, ma in effetti semplicemente non esistono.

Tant’è che possono tranquillamente mutare nel tempo e nello spazio, laddove faccia comodo alla potenza egemone. Nel quadro di queste (non) regole, ad esempio, è lecito sottrarre una parte di territorio a una nazione con la forza delle armi, facendone un nuovo paese (casualmente vassallo dell’egemone, vedi Serbia e Kosovo), ma solo se questa secessione è gradita a Washington. Se a secedere se ne intaccano invece gli interessi, allora si è contro le regole (vedi Crimea). Se una regione chiede democraticamente l’indipendenza, e ciò non coincide con gli interessi egemonici (vedi Catalogna), si reprime; se un’altra regione vuole essere riconosciuta come indipendente, e ciò coincide con gli interessi egemonici (vedi Taiwan), le si dà tutto il supporto possibile - politico, economico e financo militare.

Il doppio standard è la manifestazione concreta del fatto che le famose regole invocate dall’occidente sono in realtà una sola: “qualunque cosa facciamo o diciamo, noi abbiamo sempre ragione e gli altri torto”. Si tratta ovviamente di una logica affatto nuova, poiché il diritto è sempre il prodotto di un rapporto di forza. Laddove i rapporti di forza sono fortemente squilibrati, con una parte che predomina largamente, anche il diritto ne risulta condizionato. Durante tutto il periodo della Guerra Fredda c’era un equilibrio - imperfetto e mutevole, ma comunque abbastanza stabile - che manteneva un certo bilanciamento del diritto; così come (e non a caso nello stesso periodo) la presenza di forti movimenti popolari anticapitalisti produceva un simile bilanciamento di interessi nelle legislazioni nazionali.

Tutto questo sta per finire. Quello verso cui stiamo andando non è un mondo in cui l’egemonia americana viene sostituita da quella cinese, e nemmeno soltanto un mondo multipolare, in cui coesistono più potenze, di vario livello, senza un unico dominus. Quello verso cui andiamo è un mondo che si riscriverà le sue regole. Un mondo in cui molte delle cose che adesso ci appaiono impensabili diverranno possibili, e molte delle cose che ora ci sembrano giuste appariranno discutibili. Questa è la sfida più difficile, soprattutto per noi europei, che per secoli abbiamo vissuto in un mondo caratterizzato da una serie di idee-forza figlie della nostra storia e della nostra cultura, e che noi abbiamo esportato (quasi mai delicatamente...) pressoché ovunque. Si tratta di un cambiamento di prospettiva assai profondo, che rimetterà in discussione - molte volte, in molti modi e molti contesti diversi - le nostre certezze.

Mentre noi ci attardiamo a ragionare in termini egemonici - chi prenderà il posto del nostro tutor americano? Cosa comporterà il passaggio sotto un nuovo imperio? Quanto sarà difficile il passaggio dall’uno all’altro? - è l’intero impianto sistemico che sta per essere sovvertito.

È a questo che dovremmo prepararci. Perché altrimenti, nel mondo a venire rischieremo non tanto di cambiare dominatore, quanto piuttosto di divenire semplicemente irrilevanti. E per un continente che ha comunque, nel bene e nel male, contribuito tanto alla storia dell’umanità, e da protagonista, potrebbe essere davvero traumatico ritrovarsi ad essere semplice periferia.

Note

1 The End of History and the Last Man, Francis Fukuyama, Penguin, 1992.