Il celebre capolavoro dell’”Ultima cena” (1494-1498) di Leonardo da Vinci (1452-1519), dipinto in una parete del refettorio del Convento di S. Maria delle Grazie di Milano, come sappiamo venne commissionato da Ludovico il Moro (il quale voleva eleggere la chiesa domenicana a luogo prediletto della propria casata). Possiamo però a giusta ragione ritenere che il sapiente interlocutore e l’effettivo committente dell’opera vinciana fu il priore del convento dell’epoca, il domenicano Vincenzo Bandello (nato a Castelnuovo Scrivia nel 1435 e zio del famoso novelliere Matteo Bandello; il quale, proprio nella Lettera dedicatoria abbinata alla novella 58 della Prima parte delle sue Novelle, lascia una importante testimonianza storica su come Leonardo si dedicasse alla sua opera: venendo messa in risalto l’originale alternanza tra giornate di febbrile lavoro, con altre di sosta meditativa).

Più in generale occorre tener presente il ruolo prezioso dei committenti in molte opere, forse soprattutto di arte sacra. Senza nulla togliere alla genialità artistica dei pittori, spesso dietro alle loro grandi opere ci furono i sapienti suggerimenti e indicazioni di alti e colti prelati, che illustrarono le precise coordinate religiose e le finalità teologiche delle opere commissionate.

Pensiamo, ad esempio, al fecondo e prezioso rapporto tra il cardinale Tommaso Inghirami e Raffaello, come “segreta” e solida base per la realizzazione di alcuni capolavori universali conservati nei Musei Vaticani. Come è stato ben evidenziato, per riuscire a cogliere il significato profondo di un’opera d’arte si deve indagare il suo complesso intreccio storico e culturale, nonché il “contesto” della sua nascita, allargando la prospettiva della sua lettura all’evoluzione dei modelli iconografici e letterari fino alla committenza. Per questo il ruolo di Vincenzo Bandello fu sicuramente molto importante, data la sua rilevante esperienza e robusta preparazione teologica e culturale (documentata dal fatto che appena qualche anno dopo, nel 1501, divenne Maestro generale del suo Ordine religioso).

Al di là dell’eccellenza pittorica di Leonardo – per quanto attiene ai colori, al disegno, alla prospettiva, alla costruzione della scena - in rapida sintesi ecco gli originali elementi iconografici che rendono la visione simbolica e teologica di quest’opera davvero unica e insuperabile. Come prima cosa va notata la presenza di Giuda tra gli Apostoli, e non separato da essi – come nelle tradizionali rappresentazioni – al di qua del tavolo; inoltre è significativa l’assenza delle aureole (persino per Gesù, anche se il paesaggio che si intravede dalla finestra dietro alla sua figura, ne fornisce una più universale, “segreta” e naturale). Infine, è sorprendente il fatto che Giuda (forse ritratto con le sembianze del priore Vincenzo Bandello) non soltanto sia con gli altri Apostoli, ma addirittura collocato nel gruppo dei due Apostoli principali: Pietro (che sarà poi il primo Papa, come Apostolo dall’amore impetuoso verso Gesù) e Giovanni (il discepolo prediletto, perché molto amato da Gesù).

Pertanto in questo gruppo abbiamo il tema fondante dell’amore (ed il discorso di Gesù, nel Vangelo di Giovanni, termina con l’affidamento agli Apostoli del comandamento nuovo dell’amore, v. Giovanni 13,34): assente in Giuda (per questo motivo è quello dal volto più scuro) e massimamente presente in Giovanni (che non solo è quello più giovane, ma anche quello dal volto più luminoso e grazioso in quanto toccato abbondantemente dalla Grazia divina, che rende giovani e forti nello spirito).

Tornando per un momento al tema dell’assenza dell’aureola, l’opera ci fa vedere – nella teatralità della scena (nel momento in cui Gesù annuncia che uno di loro lo tradirà, con il conseguente sconcerto interrogativo degli Apostoli, v. Giovanni 13,21-30) – il valore del libero arbitrio (argomento caro ai domenicani) ed al significato irrinunciabile del nostro impegno: perché tutti corriamo la gara per ottenere – non adesso, ma alla fine - il premio (v. Ebrei 12,1). Va anche segnalata l’assenza dell’aureola nell’Ultima cena dipinta, tra il 1464 e il 1467, dal pittore olandese Dieric Bouts aiutato, per l’impianto iconografico, proprio da due professori di teologia della famosa università di Lovanio.

Altrettanto coerente (e originale) con questa “parità” tra gli Apostoli è la rappresentazione del Beato Angelico (guarda caso pittore domenicano), che raffigura tutti gli Apostoli, Giuda compreso, con l’aureola: per indicare che chiunque di noi gode del soccorso della Grazia, che sta a noi non sprecare, ma anzi far fruttificare (v. la parabola dei talenti). Chiara dunque la visione ecclesiale: la comunità dei credenti è una comunità di salvati, di santi, ma anche una comunità di peccatori (vedi il rinnegamento dello stesso Pietro). San Paolo, in diverse sue Lettere, si rivolge alle comunità di credenti con queste parole: “Ai santi e fedeli fratelli in Cristo che dimorano in Colosse” (Lettera ai Colossesi); oppure “A quanti sono in Roma amati da Dio e santi per vocazione” (Lettera ai Romani). Tuttavia siamo tutti bisognosi di perdono e di conversione.

“Siate misericordiosi come misericordioso è il Padre vostro” (Luca 6,36). Ed ancora: (domanda di Pietro a Gesù) “Signore, quante volte dovrò perdonare a mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte? E Gesù gli rispose: ‘Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” (Matteo 18,21). Il presbitero Novaziano (III secolo) propugnò erroneamente una “Chiesa di puri”, che avrebbe dovuto fare quello che neppure Cristo fece, cioè separare il grano dalla zizzania. E proprio per combattere l’eresia dei “catari” (o albigesi) – sorta attorno al XII secolo – san Domenico fondò l’Ordine domenicano che usò, oltre alla predicazione, gli stessi principi di povertà, umiltà e carità.

Anche Papa Francesco, in un’intervista, ha detto: “Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia”; quindi con molti feriti – e anche molti peccatori – ma per curarli! Infatti – a proposito di perfezione, di peccato e di grazia santificante – fondamentale la parola di San Paolo: “noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi” (seconda Lettera ai Corinzi 4,7).

Molto particolare, poi, la raffigurazione degli Apostoli a gruppi di tre, che ci indica due cose: il fatto che “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Matteo 18,20), in quanto il Vangelo ci abitua al valore dei piccoli numeri (vedi l’obolo della vedova, Marco 12,42) e, soprattutto, come chiaro segno di presenza trinitaria. Da notare l’invisibile – ma reale – simmetria della figura di Cristo rispetto ai quattro gruppi da tre Apostoli ciascuno, in quanto in Cristo – nel mistero della Trinità – si ricompone il numero tre (del resto nel Concilio di Firenze del 1439 venne chiarita la reciproca inabitazione delle tre Persone divine; per cui le tre Persone sono non solo in relazione reciproca, ma anche l’una nelle altre).

In questo senso molto bella ed eloquente la “Trinità” del Masaccio (1425-1428), nella quale sono compresenti nella crocifissione di Cristo lo Spirito Santo ed il Padre, che sembra reggere le braccia della croce (ed ancora più incisiva quella dipinta nel 1370 da Nicolò Semitecolo, che presenta le amorevoli braccia del Padre in sostituzione dei legni della croce). Per aiutare, poi, l’osservatore a rintracciare il valore simbolico del “tre” nell’opera vinciana, ecco apparire – dietro a Cristo – le tre finestre della stanza, con al centro quella che fa da cornice al nostro Salvatore.

Infine, illuminante il simbolo del salino rovesciato, che richiama l’antica necessità di offrire il sale (“dovrai salare ogni tua offerta di oblazione: non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio; sopra ogni tua offerta offrirai del sale”, Levitico 2,13), ma per comprendere la definitiva (e universale offerta di Cristo): “Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre. Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno per celebrare il culto e ad offrire molte volte gli stessi sacrifici… Egli al contrario, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso alla destra di Dio (Lettera agli Ebrei 10,10).

Così richiamate le preziose simbologie del nostro capolavoro, voglio passare ad altra opera che ripropone esattamente (e sorprendentemente) lo stesso impianto teologico dell’Ultima cena di Leonardo: quella dipinta dal pittore castelnovese Alessandro Berri nel 1540 e molto ben conservata oggi nella Collegiata di Castelnuovo Scrivia. Il diverso stile pittorico (che si allontana dalla semplice copia del capolavoro leonardesco) ma la ripresentazione dei medesimi valori simbolici con cui è affrontato il tema ha fatto pensare a lungo che Berri fosse stato allievo di Leonardo.

Tuttavia (dal momento che, comunque, questo alunnato non è mai stato provato), io ritengo che il legame vero (e decisivo) tra l’opera del Berri e quella di Leonardo fu il loro committente, vale a dire il castelnovese Vincenzo Bandello (magari tramite l’intervento del nipote Matteo Bandello), il quale suggerì ad entrambi (legando così l’eccellenza pittorica di Milano con quella di Castelnuovo) l’innovativo e originale, teologicamente profondo, modello iconografico. In questo dandoci ulteriore prova, attraverso il capolavoro castelnovese, proprio del suo prezioso ruolo nell’elaborazione dell’opera leonardesca.

A conferma della sostanziale (simbolico-teologica) convergenza delle due opere, e della ulteriore differenziazione pittorica del Berri, notiamo nella sua opera l’inversione speculare dell’ordine degli Apostoli (ad esempio, Giuda è a destra e non a sinistra, e così tutti gli altri); la sostituzione delle finestre dello sfondo leonardesco con le colonne (a gruppi di tre, salvo le due centrali che richiamano la “terza” colonna di Cristo); e la presenza di un cane ai piedi del tavolo. Il cane del Berri ci vuole forse richiamare l’universalità del banchetto di Cristo (“’Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele’.

Ma quella venne e si prostrò dinanzi a lui dicendo ‘Signore, aiutami’. Ed Egli rispose: ‘Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini’. ‘E’ vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni’. Allora Gesù le replicò: ‘Donna, davvero grande è la tua fede!’”, Matteo 15,24-27).

Inoltre, il cane può essere il simbolo dell’Ordine domenicano: “Domini canes”, vale a dire i cani del Signore, ossia i difensori della verità dagli attacchi degli eretici; rappresentando il cane la fedeltà al messaggio evangelico (collocato, infatti, al lato opposto di quello di Giuda). Senza contare, infine, la grande somiglianza del volto di Giuda nelle due opere: un omaggio dei due artisti al grande padre domenicano Vincenzo Bandello?