Fra gli album certamente più originali e interessanti di questo ultimo periodo, c’è stato certamente Fera di Mariasole De Pascali (Parco della Musica Records), un debutto fulminante per la flautista e performer pugliese, capace di riunire le diverse influenze del suo variegato universo sonoro in avvincente equilibrio fra il pensiero compositivo e il suo sviluppo declinato in un campionario di oggetti sonori e impulsi elettrici certamente non convenzionali: ne deriva una musica di notevole interesse e alto livello comunicativo.

In questo tuo disco di esordio dimostri di avere delle idee molto chiare, sicuramente evolutesi nel tempo in cui hai cercato di espandere l'espressività del flauto che è il tuo strumento principale nel fluire complessivo della musica: come lo hai calibrato considerando anche l'inclusione dei musicisti che poi hai chiamato con te?

Sì, scrivo musica a partire dal rapporto col mio strumento. Cercando nuove soluzioni espressive dei flauti (alto, soprano e ottavino), nel corso del tempo ho maturato delle intuizioni musicali a cui ho sentito la necessità di dar forma, estendendo il mio lavoro a un gruppo. Il flusso musicale si caratterizza per una certa necessità di sintesi, ci sono delle scene, uno “spazio”, oggetti e materiali organizzati secondo principi piuttosto “visivi”. È musica pensata per essere fluida, non sussistono delle gerarchie di alcun tipo, le stesse composizioni sono molto differenti tra loro e perciò anche i “ruoli” di ogni strumento possono dirsi fluidi, mutevoli. Il lavoro è orizzontale e lo spazio equamente suddiviso a seconda delle necessità musicali.

Come possiamo approfondire il significato rispetto alla parola che hai scelto per il titolo?

Fera, fiera arcaicamente, bestia. Oppure fiera, orgogliosa, ferrosa e ferita per assonanza, risponde a un’estetica maturata negli anni grazie alla passione per certa arte che considero “feroce”, da quella visiva attingendo dal cinema coreano di Kim Ki Duk alla fotografia di Ren Hang, alla poesia con Agota Kristof, Giorgio Manganelli, Amelia Rosselli per citarne alcuni, e non ultima la musica grazie a Fausto Romitelli, Mark Hollis, Christian Wallumrod, Peter Evans e molti altri.

Dall'ascolto colpisce proprio la compattezza del suono d'insieme, ovvero di un gruppo coeso e avanguardista, arrivato a scolpire sempre più la propria identità in "divenire", fino alla registrazione finale. Avete definito qualche passaggio melodico o invece è subentrata quasi del tutto l'estemporaneità durante l'esecuzione?

Ogni composizione è costruita attorno a materiali scritti, melodico-ritmici, armonici, timbri, ecc. L’improvvisazione riveste un ruolo sì centrale, ma entro dei limiti e attraverso la scelta di condotte e principi formali. Con i miei compagni ho lavorato a questi materiali intensamente nei mesi precedenti la registrazione e ciò ha portato al risultato che apprezzi. Benché avessi idee precise su quello che avrei voluto ottenere, l’aver coinvolto musicisti - Adolfo La Volpe, chitarrista e autore di due composizioni, Giorgio Distante che suona la tromba, tuba ed elettronica e Lucio Miele, impegnato alla batteria, percussioni e vibrafono - con una forte condivisione di intenti, ha reso il percorso molto naturale e profondamente arricchito e rinnovato del contributo di ognuno di loro.

Padroneggiando uno strumento del genere, la tua formazione sarà stata di certo classica, per cui come hai iniziato e cosa ha mosso la tua ispirazione strada facendo? E quali sono stati i tuoi riferimenti strumentali e stilistici?

Ho iniziato a suonare il flauto da ragazzina, a scuola. Non mi ha fatto subito simpatia, non lo conoscevo affatto. A 12 anni poi mi sono iscritta in Conservatorio, abbastanza inconsapevolmente. Solo crescendo e studiando repertori diversi, ne ho conosciuto le possibilità e ne sono stata sedotta. Parallelamente agli studi, ho sempre ascoltato e suonato molta musica diversa che in un modo e nell’altro ha influenzato quello che faccio. È stato così che ho cominciato a improvvisare. Ero attratta dai flauti in legno delle tradizioni popolari europee ed orientali, molto differenti dal mio; mi appassionavano i concerti della prima metà del ’900 e il repertorio barocco per flauto solo. L’incontro con la musica improvvisata in senso ampio è avvenuto intorno ai 20 anni, quando ho frequentato per un breve periodo il Dipartimento di nuovi linguaggi del Conservatorio di Monopoli dove ho incontrato Gianni Lenoci, grande didatta e pianista, a cui certamente devo lo sprone a diventare una musicista creativa e l’aver conosciuto molti musicisti e compositori che porto tuttora con me come Wadada Leo Smith, Eric Dolphy, Fausto Romitelli, Giacinto Scelsi, Olivier Messiaen e molti altri.

Consentimi una deviazione sul concetto di improvvisazione: quando la svolgi, quale parte della tua mente prende il sopravvento? La parte conscia o al contrario quella inconsapevole?

È una domanda non facile. A primo acchito, direi che spesso prevale la parte razionale, talvolta controllante, che ricerca una buona relazione degli elementi che emergono durante un’improvvisazione che sia collettiva o in solo. Tuttavia, non troppo di rado per fortuna, capita anche che mi lasci andare al presente e al godimento stesso della musica, e quelli quasi sempre sono i momenti migliori anche in termini di qualità dell’improvvisazione.

Espandiamo ancora il concetto precedente citando Terence Blanchard, trombettista e autore di diverse colonne sonore, che di recente ha dichiarato che sebbene l'improvvisazione nel Jazz sia sempre qualcosa che la platea di ascoltatori e critici si aspetta, non sempre è necessaria, visto che il Jazz è un linguaggio che si può utilizzare anche solo suonando una melodia... tu cosa ne pensi?

È un discorso che andrebbe forse più contestualizzato ma credo di essere in buona parte d’accordo, nella misura in cui in fondo né l’improvvisazione, né la scrittura - se con melodia ti riferisci a un tema scritto - sono strettamente indispensabili per dire quello che si vuole ottenere di dire, jazz o meno. Suonare perciò, quando e quello che si ritiene strettamente necessario, quando è urgente rispetto a sé e a quello che sta accadendo. Ma credo qui si discuta un po’ il nocciolo del senso del far musica. Quindi che cosa è necessario? Urgente può essere anche il silenzio. Nella mia esperienza, sono una musicista che tende a sottrarre più che ad aggiungere alla musica.

Qual è stato l'incrocio fondamentale della tua vita artistica sino a qui?

Non so rispondere puntualmente a questa domanda, credo di aver incontrato persone che più o meno consapevolmente e in misura differente sono state significative per me. L’incontro più recente è stato quello con Joelle Leandre, musicista il cui lavoro conoscevo bene e che stimo molto. In quell’occasione ho potuto suonare con lei e scambiare opinioni sulle responsabilità dei musicisti creativi. È un’artista “feroce”, femminista in lotta per le proprie idee, incredibilmente appassionata e profondamente onesta nel suo approccio alla musica e all’arte. Una grande fonte di ispirazione.

Cosa ti aspetta nei prossimi mesi? Hai già delle idee per altri lavori discografici?

Mi auguro di portare il lavoro di Fera sul palco il più possibile affinché evolva e cresca. Sto scrivendo nuovi materiali, magari utili per un secondo capitolo. Inoltre mi sto dedicando alla musica in solo che mi piacerebbe fissare su disco.