Siamo misteriosa alchimia, moltitudini che convergono. C'è in noi l'eco di una fierezza antica, il respiro lieve del seme che attende il richiamo dell’equinozio.

Ci sono in ogni esistenza attimi perfetti e chiari come cristallo, sospesi sull’orizzonte del tempo e delle possibilità. Un ritratto può catturare un incantesimo? Qual è la sua funzione? Interroga chi lo interpella, invita a costruire una relazione. Per carpirne i segreti occorre arrendersi all’emersione silenziosa, lasciar parlare l’immagine, come fosse uno specchio, accoglierne il baluginare di luci e ombre. È questa la consegna, il lascito dell’istante rapito.

Nel ritratto di Carlotta C., una giovane donna si riflette nello sguardo accudente di Octavia, che ha voluto essere per lei madrina e sibilla, offrendole il dono di essere guardata e riconosciuta.

Carlotta ha chiome di autunno antico che diventano tutt’uno con i boschi, e in sogno percorre a piedi scalzi le brughiere che tanto ama e la attraggono, quasi fatalmente; in un tempo dimenticato, forse il suo spirito ha abitato quei luoghi selvaggi. Sciolti i nodi da vincoli di obbedienza, ora ne diventa estensione, trama incantata, tessitura. Fra quelle chiome, una piccola civetta trova nido e ospitalità.

Carlotta ha occhi discromi: azzurro per penetrare le trasparenze, verde per le fioriture e le gemmazioni. Nelle mani custodisce le pietre delle antenate, con la loro energia di cura, e per coprirsi ha un maglioncino di pelo, a ricordarle che possiede l’intuito della lupa e l’essenza vitale e errante del femminile. Il pelo è ora morbido, per riscaldare la prole, ora ispido per istinto di difesa. Piccole sfere lo contrappuntano, simili a cellule, gemme o ampolle, e celebrano la sua natura feconda. Il velo che le circonda il collo, con lievità, rappresenta il metafisico, l’impalpabile. Quasi organico, quasi vivo e suscettibile ad ogni impercettibile alito di vento. Una chiocciola timida, che ha come casa la luna e come la luna appare e scompare, le sussurra di rispettare le spiraleggianti ciclicità, i ritmi dovuti, le incubazioni, di cercare refrigerio nei luoghi ombrosi e lasciarsi dietro strisce lucenti.

Nello sguardo impenetrabile si manifesta l’enigma del tempo che la attende, mentre intorno a lei si raccoglie un mondo animico, portatore di messaggi. Sono immagini che si condensano da un altrove, per essere eco delle note antiche che, nell’egida della luna, il sogno le ha evocato.

Un loto blu è un simbolo di possibilità perpetue di rinascita, a partire dal ventre della dea a cui lei stessa ha dato forma. Nelumbi senza petali circondano il fiore: raccontano che la vita si manifesta nella ciclicità che assume ogni aspetto, ogni manifestazione, ritmicamente. La lanterna che la guida, come quella dell’eremita nel ciclo degli Arcani Maggiori, ha forma di gatto notturno. Si accende di una luce ambrata, morbida, che illumina delicatamente, infonde una lieve luce a illuminare soprattutto ciò che Carlotta nel ritratto gli porge: le sue pietre, ciò che incontra nei suoi attraversamenti.

(Octavia Monaco)

Alla sua destra c’è una figura avvolta nel mistero, che si occulta il volto di verde foglia. Il suo sembra un invito a guardare attraverso il mondo di natura, in filigrana; chiede che i suoi misteri siano rispettati, i suoi segreti custoditi. Un’orsa è smarrita sopra una zolla di ghiaccio e sente il terrore della deriva. Queste creature invocano l’avvento di un’umanità nuova, consapevole, guidata da una generazione portatrice di un’energia femminile e accudente, in sintonia con l’anima del mondo. Nell’acqua, giocano una piccola megattera e sua madre: comunicano con un linguaggio elettivo e sono testimoni delle amniotiche radici. Il ritratto è esso stesso una consegna matrilineare, dono voluto da una madre per la figlia, per essere tessitura, guida, canto nel tempo.

A Carlotta, questo ritratto affida il compito di custodire il mondo di natura. Sorgerà sempre un astro luminoso per lei: aurora o momento crepuscolare? Gli estremi sempre si toccano e si corrispondono, confondendosi.

(Octavia Moncaco)