Mi piace l’ipotesi che Buddha potrebbe aver influenzato Gesù, quando ancora non era riconosciuto come “il Cristo”, anche se la sua religione, quella ebraica, ancora oggi non lo riconosce come il maŝíakh, l’unto, il messia o in greco il Christós. Anzi, a sentire Tommaso, è qualcosa di più di un’ipotesi. Nel mio piccolo e nella mia ignoranza che oramai conoscete bene, ho sempre pensato che, in fondo, tutte le religioni e le filosofie orientali dicessero la stessa cosa. Mi sembrava, man mano che approfondivo la mia conoscenza di queste materie, di scorgere un filo rosso che le accomunasse. Utilizzando simboli e metafore diverse proclamavano lo stesso messaggio: tutto è uno. Cosa questo significhi non mi è del tutto chiaro, soprattutto se si osserva questa sentenza attraverso la lente della mente razionale.

Se però abbandono la logica comune devo dire che riesco a sentire come vero questo messaggio. O meglio sento che siamo tutti interconnessi (e non connessi con internet!), che tutti gli esseri viventi su questo pianeta hanno qualcosa in comune. Gli antropologi dicono che abbiamo un antenato comune ed è per questo che troviamo parti comuni di DNA con esseri che sembrerebbero alquanto diversi da noi, come per esempio il tarassaco, con il quale condividiamo il 25% del DNA, stessa cosa con i lombrichi, per non parlare del 98% che abbiamo in comune con gli scimpanzè. Può darsi che sia questa matrice comune a far sì che io mi senta in comunione con il resto del pianeta.

Però, sento che c’è qualcosa in più. Certo non riesco a provare quello che prova un albero, e lo stesso dicasi con qualunque altro tipo di essere vivente. Anzi, a dirla tutta, non riesco nemmeno a sentire i miei fratelli umani, figuriamoci se ci riesco con una formica! Ma c’è qualcosa che ronza nella mio essere e che mi fa percepire la verità di quel messaggio...non so come dire! Ecco, in questo preciso momento, io che scrivo e voi che mi leggete, stiamo sperimentando quella difficoltà che è propria del limite del nostro linguaggio e che fu l’argomento sul quale, io e Tommaso, basammo la nostra nuova conversazione.

Da diversi anni io e mia moglie facciamo parte di una fondazione che gestisce una scuola elementare a Varanasi, nello stato dell’Uttar Pradesh al nord dell’India. Dovevamo recarci alla scuola per cercare di dare una mano a risolvere gli annosi problemi finanziari. Chiesi a Tommaso se avesse tempo e voglia di accompagnarci e lui accettò molto volentieri perché era stato a Roma, Nuova Guinea, Sierra Leone, Angola e chissà in quale altro angolo della Terra, ma mai a Varanasi.

Il viaggio in treno da Cochin a Varanasi dura mediamente 50 ore, ma mi è capitato già diverse volte che un treno su una tratta simile registrasse ritardi di 24 e più ore. Pertanto direi che avevamo tempo sufficiente per le nostre riflessioni.

Siete mai andati in treno in India? No? Peccato! È un’esperienza che vi raccomando vivamente. Però prima devo fare alcune raccomandazioni. Innanzitutto viaggiate in terza classe. Vedo già che sgranate gli occhi. Sì, è dura, non lo nego, non ha i comfort della seconda, scordiamoci quelli della prima, ma ci guadagnerete in esperienza ed umanità. Mi ricordo che il primo treno sul quale salii in India era talmente pieno che molti indiani viaggiarono sul tetto dei vagoni, negli spazi tra le carrozze, aggrappati ai corrimani esterni delle porte e sdraiati sugli assi che uniscono le coppie di carrelli - sostanzialmente tra una coppia di ruote e l’altra - in bilico su un trave di pochi centimetri e quasi sfiorando il terreno. In quella posizione è meglio non addormentarsi. Quella volta ero in compagnia di un mio amico e viaggiavamo da Calcutta a Bombay, 48 ore di viaggio, se non ricordo male.

Sedevamo una panca di legno approssimativamente di quaranta centimetri di profondità per un metro di lunghezza. In terza e seconda classe non ci sono gli scompartimenti; i moduli da cui è composta la carrozza constano di una panca posta nel senso longitudinale, quella dove eravamo seduti noi, e di fronte, di due panche trasversali rispetto a noi, sulle quali prendevano posto gli altri viaggiatori, tutti rigorosamente indiani. Difficile vedere un occidentale in terza classe.

Su una di quelle panche di legno di fronte a noi si era accovacciato un vecchio indiano, piccolino, con le gambe in grembo e i piedi nudi appoggiati sulla panca, credo che, approssimativamente, occupasse uno spazio di 40/50 centimetri quadrati. Aveva una bella faccia, tranquilla, serena, un bel paio di baffoni bianchi, la sua kurta e i suoi churidar bianchi, non immacolati, ma bianchi. La kurta è un camicione di cotone con l’immancabile collo alla coreana, che arriva alle ginocchia sotto il quale si indossano dei pantaloni alquanto aderenti, i churidar, appunto.

È un abito tradizionale che viene indossato dall’Afghanistan al Bangladesh e, negli anni ’60 e ’70, anche dagli hippies occidentali. Non credo fosse amico o parente di nessuna delle persone sedute accanto a lui, perlomeno non gli rivolse mai la parola, né a loro né a nessun’altro. Stava lì, accovacciato, senza parlare, senza tradire una minima emozione, senza farsi prendere dall’irritazione ogni volta che il capotreno annunciava l’ennesimo ritardo; niente, impassibile fumava i suoi bidi e beveva il suo chai. Punto e basta. Non l’ho visto muoversi per tutto il tempo del viaggio, se non per andare in bagno. Quando la prima notte del viaggio mi addormentai ero semisdraiato sulla panca, con le gambe piegate per lasciare spazio al mio amico. Quando mi svegliai non potei credere ai miei occhi: il vagone era strapieno di persone ovunque e, sulla “nostra” panca eravamo in quattro, altri due indiani si erano uniti a noi. Come facessero a starci rimase un mistero.

Ma il vecchietto era sempre lì, nella stessa posizione, con lo stesso sguardo, fumandosi le sue foglie di tabacco arrotolate in una di bahumina racemosa o albero del bidi, appunto. Probabilmente avrebbe potuto viaggiare per altri dieci giorni senza fare una piega. Ecco, questa è la seconda raccomandazione: fate come lui, rilassatevi e godetevi il viaggio, altrimenti non avrete appreso molto dall’India e arrivereste alla vostra meta con la polizia che vi aspetta per arrestarvi per strage. Ora i sedili sono leggermente migliorati, sono quasi come quelli dei nostri treni degli anni ’70, ma le moltitudini si affollano ancora aggrappandosi dove possono. In effetti, se notate, i treni Indiani hanno le sbarre ai finestrini; servono per non far entrare eventuali viaggiatori abusivi, ma loro vi si aggrappano all’esterno.

Durante il nostro viaggio riprendemmo da dove ci eravamo interrotti, cioè dalle similitudini che uniscono la figura di Gesù a quella di Buddha. «Personalmente» riprese Tommaso «credo che, se da un lato ciò che ha fatto in modo che l’evoluzione della specie umana si discostasse così sensibilmente da quella del resto della vita su questo pianeta, cioè il linguaggio, ci ha permesso di esplorare territori inaccessibili alle altre specie e ci ha portato a riflettere sulla nostra condizione e sul senso stesso della vita, dall’altro potrebbe essere una limitazione. Quando pensiamo parliamo con noi stessi; se conosciamo poche parole il nostro pensiero sarà limitato a quello che riusciamo ad esprimere con quelle poche parole.

Di conseguenza, più vocaboli conosciamo, più possiamo ampliare il nostro pensiero. Ma sempre nell’ambito di ciò che il pensiero razionale, e quindi la parola, riescono a comprendere ed esprimere. Ma quello che ci vogliono mostrare Buddha, Cristo, Lao Tzu, Krishna e quanti altri, va al di là della mera ragione. Pertanto non è esprimibile con la parola, e quindi non è afferrabile col pensiero. Queste persone ci dicono che per comprendere bisogna lasciarsi andare, avere fede nel mondo, nella vita. Aver fede significa aprirsi all’ignoto, non credere in una sola cosa. Solo smettendo di cercare di capire il senso della vita attraverso la ragione e lasciando le nostre convinzioni, i nostri pregiudizi e abbandonando la razionalità potremmo scorgere il senso di tutto ciò. Non a caso tutte queste persone che ho citato, come tantissime altre, utilizzano modi di comunicare che sono differenti da quelli abituali. Penso alle parabole e ai koan.»

In effetti anche durante la meditazione si dovrebbero lasciare scorrere i pensieri, quasi come se non fossero i nostri. In questo modo, si dice, si dovrebbe entrare in uno stato che ci permetterebbe di andare oltre l’apparenza delle cose ed afferrare o, perlomeno, intravvedere un altro modo di intendere la realtà. «Esatto. Ma anche in questo caso ho un’idea tutta mia al riguardo...» Tommaso s’interruppe perché in quel momento passò un venditore alquanto singolare. Sui treni indiani, ma solo in terza classe, non potrete mai annoiarvi, perché vi è un passaggio continuo di persone che vendono di tutto, dal chai ai giornali, dai bidi a cibo di vario genere.

Ma vi è un tipo di commerciante che è davvero singolare: sono persone che si spostano da una carrozza del treno all’altra portando con loro una sorta di appendiabiti da loro personalizzato artigianalmente, che assolve alla funzione di espositore al quale sono appese le loro mercanzie, che vanno dalle cartoline, agli elastici per i capelli, alla bigiotteria, ai palloncini colorati, ad articoli di cartoleria, allo smalto per le unghie, alle terre colorate per i vari tilaka - quei segni che gli indiani portano sulla fronte per indicare l’appartenenza a una specifica tradizione religiosa (shivaita o visnuita) e le donne usano per dichiarare che sono sposate - ai pettini di plastica, ai flauti di bambù, a giocattoli per i bambini e chi più ne ha più ne metta. Sono incredibili da quanti prodotti multicolori riescono a trasportare su questo loro trespolo.

Queste persone, questi venditori, hanno alle loro spalle una vita che noi occidentali non riusciamo nemmeno ad immaginare. Abitano negli slum delle varie metropoli indiane, solitamente lavorano per un boss che li gestisce in tutto e per tutto, praticamente sono sua proprietà. Ci sarebbe da scrivere molto su questi argomenti.

Senti Tommaso, mi piacciono le nostre conversazioni e sento che ciò di cui stiamo parlando dovrebbero essere argomenti basilari per l’educazione, la crescita e l’evoluzione di ogni essere umano e andrebbero insegnati a partire dalle scuole elementari. Però non possiamo continuare a occupare le pagine di questo sito che ci ospita, dando vita a una saga senza fine. Siamo già alla quarta puntata e abbiamo soltanto scalfitto la superficie. Penso che sarebbe più giusto nei confronti sia dell’editore che dei lettori trattare questi argomenti in un libro. Cosa ne dici?

«Non chiederlo a me, che non ho mai scritto un libro in vita mia. Sei tu lo scribacchino, decidi tu. Per me sta bene, anche se non credo che oggi ci siano tante persone interessate a cercare il senso della vita; li vedo tutti molto occupati a far soldi o a cambiare il mondo, ma senza passare prima da loro stessi.» Si, forse hai ragione, ma non scrivo per cambiare le persone e tantomeno il mondo, ma perché non posso farne a meno. Per cui...proviamoci, scriviamo il libro, anche se non venderà una sola copia o magari non troveremo nemmeno chi ce lo pubblicherà, non importa. Come i tuoi amici mistici ci insegnano, bisogna essere distaccati dal frutto delle nostre azioni.

(Il vangelo di Tommaso: fine quarta parte)