Where is the Life we have lost in living? Where is the wisdom we have lost in knowledge? Where is the knowledge we have lost in information?.

In italiano questi tre versi di Eliot suonano più o meno così:

Dov’è la vita che abbiamo perso vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza? Dove la conoscenza che abbiamo perso nell’informazione?

Questi versi mi hanno convinto che uso con una certa disinvoltura i termini di conoscenza, significato, dato e informazione. Urge un approfondimento. Comincio con un esempio. Apro la pagina de Il Sole 24 Ore in cui sono riportate le quotazioni di Borsa. Le colonne di numeri sono senza dubbio dati che segnalano qualcosa a proposito delle aziende a cui si riferiscono. Ma cosa dicono di preciso? Per chi non ha dimestichezza col funzionamento della borsa sono elenchi muti. Al contrario, per chi investe in borsa, quei numeri sono estremamente significativi, ed infatti l’investitore sulla base di essi deciderà se comprare o vendere i propri titoli azionari. Solo per alcuni lettori quei dati sono significativi. Dal che deduciamo che il significato non è una proprietà intrinseca del dato. Invece, ci è lecito supporre che il significato scaturisce dalla capacità del lettore di giornale di mettere in relazione i dati del giornale con le conoscenze che possiede: l’andamento del titolo azionario nei giorni precedenti, lo stato dell’economia, le aspettative sul futuro, la composizione del proprio portafoglio di investimenti, ecc. Il dato non fa altro che segnalare un evento, una differenza nello stato del mondo. Differenza che rimane enigmatica finché non incontra un destinatario capace di decodificarla. Allora il dato si trasforma in qualcosa di significativo. Luciano Floridi suggerisce di considerare il dato in sé come una informazione priva di significato, ovvero:

Dato = informazione – significato

Da cui, con una piccola manipolazione algebrica si ottiene:

Informazione = dato + significato (1)

Il lettore noterà che ciò che lega il dato all’informazione è il significato, ma questo termine non è stato ancora definito. Lasciamolo per ora in sospensione, e andiamo avanti. Facciamo un piccolo esperimento mentale. Chiudiamo gli occhi e chiediamo al mondo “Di che colore è il cielo?” Poi apriamo gli occhi e il mondo, attraverso i sensi, ci risponde “Blu”. Chiediamoci ora “In questo scambio di domanda e risposta, dove sta l’informazione?” Non sta nella risposta, perché la riposta “Blu”, privata della domanda, non ci dice niente. È un colore che potrebbe essere associato a qualsiasi cosa, persino a un atteggiamento malinconico, come nell’espressione “I feel blue”. Non sta nella domanda, perché la domanda esprime una aspettativa da soddisfare. È un nido preparato ad accogliere la risposta del mondo. L’informazione si materializza quando mettiamo insieme domanda e risposta. Ancora una volta una formula sintetizza il ragionamento:

Informazione = domanda + risposta

A questo punto possiamo notare che la ‘risposta’ non è altro che il ‘dato’ che abbiamo visto nella prima espressione. Sostituendo, ‘risposta’ con ‘dato’ avremo:

Informazione = domanda + dato (2)

Se confrontiamo la formula (2) con la formula (1), osserviamo che i termini a sinistra sono uguali, quindi saranno uguali anche i termini a destra. Per cui, eguagliando i termini a destra di (1) e (2) avremo:

Dato + significato = domanda + dato

e, semplificando, otteniamo:

Significato = domanda

Mi scuso per l’abuso delle manipolazioni algebriche; le ho utilizzate per dare enfasi alla conclusione del ragionamento, che il significato non va cercato nel dato, ma nel contesto che la domanda costruisce per accogliere il dato. Dire che una esperienza è informativa equivale ad affermare che il soggetto è riuscito a costruire il contesto appropriato entro cui ‘intrappolare’ il dato che l’esperienza gli fornisce. Il dato fa scattare la trappola. Ovviamente, è necessario che ci sia una coerenza tra il contesto-trappola e il dato. Non posso utilizzare una trappola per topi per catturare uccelli.

La conseguenza di questa affermazione è che il significato non va cercato nel mondo, ma nel soggetto. È il soggetto che costruisce il contesto, è lui il colpevole dei significati che attribuisce al mondo. Il fatto sorprendente di questo ragionamento è che il significato esiste già prima del dato che lo attiva. Il dato non aggiunge niente in termini di significato: attiva il contesto già predisposto dal soggetto, dalla sua domanda. Ad esempio, nel caso dell’investitore, il dato sblocca la sua indecisione e lo convince a comprare azioni della Microsoft. Nel caso del cielo, il colore blu ci fa scegliere tra le varie possibilità di colore che il cielo può avere, e ci fa decidere di non prendere l’ombrello per uscire.

Se ci rendiamo conto che il significato sta nella domanda che abbiamo in testa, diventiamo consapevoli che non è prioritario cominciare a osservare il mondo, ma dobbiamo concentrare la nostra attenzione nel comprendere come siamo arrivati a formulare quella domanda, e verificare che non ci sia qualche passaggio sbagliato nel processo. La costruzione del contesto è una attività complessa, che si svolge nel tempo e all’interno di un ambiente culturale che può eludere o censurare alcune domande, ritenute non ammissibili o non significative. Talvolta il dato non riesce ad attivare il contesto, ed allora il soggetto deve sviluppare un intenso lavorio per costruire un nuovo contesto, al fine di porre la domanda appropriata. Chi opera all’interno di una azienda sa benissimo la difficoltà di sfuggire alla tirannia della cultura dominante, che rende accettabili alcune affermazioni e non altre.

La costruzione del contesto significante è particolarmente rilevante per una collettività. Se il contesto è inadeguato, i dati che l’esperienza fornirà saranno incomprensibili, fuorvianti o scadenti, e le conseguenze catastrofiche. Un esempio di contesto inadeguato è sotto i nostri occhi, e riguarda la lotta al cambiamento climatico. Dalla maggioranza delle persone è percepita come una lotta per salvare il pianeta Terra nelle sue diverse manifestazioni: salvare l’Amazzonia, salvare le grandi balene, salvare i ghiacciai, salvare i gorilla, ecc.

Non c’è niente di più fuorviante. Nei suoi 4,5 miliardi di anni di età, la Terra ha già conosciuto cinque grandi estinzioni di massa di specie viventi. Una estinzione in più o in meno, dal punto di vista della Terra, è del tutto irrilevante. La vita riprenderà il suo corso in ogni caso. Se vogliamo mobilitare le coscienze dei singoli e spingere i governi a una azione più convinta, urge modificare il contesto di significato. Bisogna drammatizzare il contesto significante, affermando con convinzione e ossessivamente che non è il pianeta Terra che va salvato, ma la specie umana e la complessa ed essenziale ecologia di cui è parte.