Dopo l’anteprima alla Festa del cinema di Roma, The Fabelmans, sbarca al 73° Festival Internazionale del Cinema di Berlino (dal 16 al 26 febbraio) che omaggia l’autore, Steven Spielberg con l’Orso d’Oro onorario alla carriera (il 21 febbraio) e con la sua ultima opera.

Un’autobiografia romanzata e intima, che il regista e sceneggiatore statunitense rivolge ai suoi genitori (entrambi di origine ebraica), in particolare a sua madre Leah Adler, a cui il film è dedicato. The Fabelmans (in sala dal 22 dicembre) racconta in modo confidenziale come si è diventati Steven Spielberg. L’autore fa un passo indietro nel tempo, alla sua infanzia e adolescenza, narrando come tutto è iniziato. Una sera di dicembre del 1952, Sammy Fabelman, sei anni (alter ego del regista), viene accompagnato dal padre, Burt (Paul Dano) ingegnere informatico, a vedere il film Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille, insieme alla madre Mitzi (Michelle Williams), pianista classica, che gli aveva assicurato che “i film sono come sogni che non dimenticherai mai”.

È davanti al grande schermo che si apre The Fabelmans con gli occhi sgranati del giovane protagonista tra stupore e paura per lo sferragliamento metallico dell’incredibile scena di un treno che ripercorre in piena corsa una vettura sui binari. Terrore ed eccitazione che segnano l'immagine primigenia della passione di Spielberg, incredibilmente associata alle origini del cinematografo stesso, basta pensare L’arrivo del treno alla stazione di La Ciotat dei fratelli Lumière. Il sogno di diventare regista, la vocazione per il cinema che Spielberg sviluppa fin da piccolo, un’arte che lo aiuta e lo difende proprio quando la sua famiglia sembra cadere a pezzi.

Il creatore di Indiana Jone s è presente nella pellicola in ogni aspetto, dalla narrazione che scrive a quattro mani con Tony Kushner (Munich, Lincoln, West Side Story) alla struttura meno fantasmagorica ma più profonda e recondita, che differisce alla funzione cucita addosso a Spielberg come uomo delle fiabe, sommo sacerdote della magia dello storytelling cinematografico.

Tra gli interpreti Michelle Williams, Paul Dano, Seth Rogen, Gabriel LaBelle e Judd Hirsch, e le musiche del fedele collaboratore John Williams. Un ritratto personale, triste e malinconico, che mostra le sofferenze della vita di Steven Spielberg (la separazione dei genitori e l’antisemitismo a cui era soggetto) e il suo approccio alla macchina da presa, una passione mai spenta a cui ha dedicato una vita intera.

The Fabelmans sembra il sogno ad occhi aperti di un adulto (il regista) che rievoca la sua fanciullezza, mettendo a nudo, i ricordi di famiglia, gli spazi domestici, i volti e situazioni che hanno contribuito alla sua formazione, il riscatto di un adolescente che richiede quel bisogno di “famiglia” che spesso ritroviamo nei suoi lavori. Un film che probabilmente lo sceneggiatore americano aveva già immaginato dagli anni Novanta ma che riteneva troppo personale e prematuro per essere realizzato, così da continuare con i classici come Jurassic Park o Salvate il Soldato Ryan prima di imbattersi in una storia confidenziale e raccontare come tutto ha avuto inizio. Ritratti e storie autobiografiche, ripresi più volte da registi, nel ricordo di infanzie, dolori, traumi esistenziali e desideri, basti pensare alle pellicole come Roma del regista messicano Alfonso Cuarón, È stata la mano di Dio, dell’italiano Paolo Sorrentino, Belfast del nordirlandese Kenneth Branagh e Armageddon Time dello statunitense James Gray, che tematizzano la saga familiare in un apprendistato dello sguardo da cui possiamo trarre alcune lezioni.

The Fabelmans è un omaggio che Spielberg fa al mezzo creativo cinematografico con i primi approcci agli esperimenti con la macchina da presa, per poi lentamente esplorare e maturare verso quell’intuizione di natura idealista, dell’assurdo quotidiano alla ricerca di quell’effetto e di quel trucco, che possa trasformare il timore in incredulità, mostrare i momenti in cui ha ideato certe ingegnosità o avuto certe visioni. Un lavoro di ricerca interiore in grado di colpire la coscienza, scuotere le emozioni fino a raggiungere le stanze segrete dell'anima. Un convergersi di memoria e immagine che sembrano posizionarsi tra la ragione e l’inconscio, tra il passato e il futuro, tra la veglia e il sonno, chiedendo inevitabilmente allo spettatore di trasformarsi in un sognatore.