E’ una Venezia diversa, più intima, quasi segreta all’eterogenea folla accalcata in piazza San Marco, quella riscoperta percorrendo le calli, le salizade e i rami secondari che conducono al complesso monumentale del Gran Priorato di Lombardia e Venezia del Sovrano Militare Ordine di Malta. Penetrando nella zona orientale del sestiere Castello, passo dopo passo i turisti si diradano. L’odore salmastro dell’acqua prende il sopravvento e la parlata locale si fa sempre più accentuata. Ad annunciare quanto siamo prossimi alla meta sono alcuni frammenti di storia melitense, rivelati dai toponimi Corte S. Giovanni di Malta, Ponte de la Comenda, Canale della Pietà. L’origine degli edifici che, restaurati nel biennio 2013-2014, costituiscono il Gran Priorato di Lombardia e Venezia, ritenuto la sede più antica dell’Ordine Giovannita in Italia e dalla quale si governa la circoscrizione territoriale più numerosa, -circa milleduecento membri divisi in dieci Delegazioni-, risale a una donazione fatta nel 1187. Ripercorriamone la storia.

Il 1 ottobre di quell’anno il papa Urbano III perde la Città Santa, riconquistata dal leggendario condottiero curdo Salah al-Din, Saladino. Al fine di occupare ancora Gerusalemme decide di istituire la Santa Alleanza a cui aderiscono, oltre ai maggiori regni europei, anche gli Ospedalieri di San Giovanni Battista che dal 1530, con la cessione da parte dell’imperatore Carlo V delle isole di Malta, Gozo e Cumino, si chiameranno Cavalieri di Malta.
Per il soccorso prestato, grazie all’intercessione papale, il 9 novembre del 1187 i Giovanniti, presenti a Venezia almeno dal 1144, ottengono dal vescovo di Ravenna un appezzamento di due ettari, denominato Fossaputrida, ove innalzare una domus ospitalis, destinata ad accogliere i cavalieri che sarebbero giunti dal Nord-Est dell’Europa. Il primo nucleo ad essere eretto fu quello a ovest, perché il canale della Pietà che, con un pescaggio di quattro metri, costeggia il Gran Priorato, era il corso d’acqua navigabile più vicino all’Arsenale e, di conseguenza, il più idoneo al transito e alla sosta delle imbarcazioni cariche di materiali, destinati alla costruzione.

Su questo terreno furono innalzati lo “spedale”, il chiostro, la chiesa e tutte le palazzine che prospettano sul lato destro della Corte di San Giovani di Malta, sulla Calle dei Furlani e sul Campo delle Gatte, adiacenti all’orto. Quest’ultimo, concepito nel ‘200 come hortus conclusus del convento e trasformato nel ‘600 in spazio aperto all’italiana di rappresentanza, pieno di significati allegorici storico melitensi o religiosi, ancor oggi occupa tremila e cinquecento metri quadrati ed è ritenuto la più estesa area verde privata nel centro storico di Venezia.
La fisionomia dei fabbricati nei tempi più antichi ci è perlopiù ignota.

L’attuale definizione della superba architettura sacra si delinea durante il notevole rimaneggiamento di fine ‘400, commissionato dal Priore Fra’ Sebastiano Michiel. Da allora, eccetto piccolissime modifiche, la struttura delle fabbriche è rimasta invariata. La pianta di Venezia, disegnata da Jacopo de’ Barbari nell’anno 1500, riproduce la prima immagine del Gran Priorato. Nella xilografia si osservano la chiesa e il convento di San Giovanni del Tempio, detto poi di Malta o, dai veneziani, dei Furlani (per la folta presenza in zona della comunità friulana), nell’aspetto planimetrico e volumetrico tuttora mantenuto. Di fianco alla chiesa si erge il cinquecentesco palazzo priorale, in passato sede dei ricevimenti ufficiali. Talvolta risulta indicato come palazzo ministeriale, poiché oltre ad alcuni Gran Priori, vi abitarono pure dei luogotenenti. Costoro riunivano anche le cariche di Ricevitore e di Ministro, ossia ambasciatore dell’Ordine presso la Repubblica veneta.

Tra gli ambienti più solenni del Palazzo vi è il salone in cui è collocato l’archivio, custode di oltre otto secoli di vita dell’Ordine nella Serenissima. Catalogato in trentacinque classi, probabilmente rappresenta l’unica raccolta di documenti riguardanti i Priorati, sopravvissuta alla devastazione dell’epoca napoleonica, ancora in possesso di un organismo dell’Ordine. La visita al Gran Priorato inizia dal chiostro, affacciato su una corte vasta e luminosa. Nella dimensione in alzato, minore rispetto a quella degli altri chiostri marciani, e nell’uso del colore bianco, consueto nell’architettura tradizionale mediterranea, ma insolito nello stile costruttivo veneziano, sembrerebbe richiamare stilemi d’ispirazione spagnola. Tale supposizione troverebbe riscontro nella presenza di un cavaliere spagnolo tra i fondatori del monastero. Il cortile, circondato su tre lati da portici, è decorato con una vera da pozzo che, regalata dalla famiglia Arimondo titolare della Commenda di Treviso nel 1565, a sua volta orna un sottostante pozzo duecentesco alla veneziana, costituito da una cisterna per il filtraggio e la raccolta dell’acqua piovana, posizionata a quattro metri di profondità e contenente circa seicento litri.

Un breve corridoio collega la zona porticata, dedicata alla quiete e alla meditazione, con la chiesa di San Giovanni che, confiscata da Napoleone il 30 aprile 1806, fu restituita all’Ordine di Malta nel 1839 dall’arciduca Federico d’Austria, governatore di Venezia, e riconsacrata il 24 giugno 1843.
Fra i capolavori che impreziosiscono il tempio c’è la tavola intitolata Battesimo di Cristo, realizzata da Giovanni Bellini. Il grande dipinto (cm 216 x 199), ordinato per decorare l’altare maggiore dal Priore Fra’ Sebastiano Michiel, fu consegnato dall’artista nel 1504.
San Giovanni vi è ritratto mentre battezza Gesù nelle acque del Giordano, alla presenza di un Cavaliere Giovannita e di due angeli.

Con la soppressione napoleonica del Gran Priorato il Battesimo di Cristo finì nei magazzini dell’Accademia. Nel 1822 alcuni registri lo attestano in cattivo stato di conservazione nel “deposito della Commenda di Malta”. L’opera d’arte, spedita a Vienna, nel 1838 fu esposta nel museo di Corte e riconsegnata allo Stato italiano solo nel 1919. Ricollocata nella Chiesa di San Giovanni Battista dell’Ordine di Malta, luogo di culto per cui era stata originariamente dipinta, essa è stata recentemente restaurata.

I Giovanniti, da sempre seguaci del motto: “tuitio fidei et obsequium pauperum”, testimonianza di fede e servizio ai più deboli, ospitarono nella loro chiesa anche alcune “Scuole”, sodalizi con fini cultuali, posti sotto la protezione di un santo patrono e dotati di una mariègola (= madre-regola). Una delle congregazioni che ne ottenne l’accesso fu la Scuola dalmata dei SS. Giorgio e Trifone, detta anche Scuola di S. Giorgio degli Schiavoni, poiché nel ‘400 i Dalmati erano chiamati Schiavoni (Dalmazia= Schiavonia). Si trattava soprattutto di marinai, che si stabilivano a Venezia o vi sostavano di frequente. Decora la Scuola Dalmata uno stupendo ciclo di teleri, dipinti tra il 1502 e il 1507 da Vittore Carpaccio. Una delle tele rappresenta San Girolamo, mentre conduce nel convento un leone ammansito, provocando la rapida fuga dei monaci. Secondo la tradizione sullo sfondo della raffigurazione appaiono gli edifici granpriorali, come si presentavano prima dei restauri di fine Quattrocento. Sulla sinistra si vede la chiesa preceduta da un nartece, uno spazio porticato a ridosso della facciata, ove coloro che non erano battezzati assistevano alla celebrazione della messa.

Il quadro ritrae pure un plurisecolare particolare edilizio: le pietre svuse, ossia bucate, poiché nelle antiche costruzioni veneziane, in prossimità delle finestre, erano collocate assi in legno, inserite su davanzali bucati di marmo con la biancheria stesa ad asciugare.