Amo i nomi taglienti, non facili, a cui non interessa l'appagamento di un astratto pubblico d'allevamento. "Santa Guerra" è un nome bellissimo, proprio perchè indelicato, essenziale, alieno da compromessi e facili riduzioni, urtante e oltre a questo appare quasi terapeutico in quanto ci fà riflettere su un tema esistenziale che cerchiamo spesso di dimenticare, perchè impegnativo, destabilizzante: l'esser cioè la nostra vita interiore una guerra, un conflitto sempre latente tra sogni, incubi, traumi, tensioni, paure, incomprensioni. Una guerra in cui proviamo a vivere. Santa perchè necessaria, quanto il respiro. E' la guerra del germoglio per spaccare l'asfalto, miracolo quotidiano, la guerra del passero per perpetuarsi, la guerra del giovane per farsi riconoscere, dell'anziano per sopravvivere. Samantha ci regala un film-flusso di un’ora e mezza fatto di visioni, sogni, intuizioni, ragionamenti, fughe, ritorni. Un'opera nel senso più profondo e completo del termine, e il tutto con poche voci, poche parole, assolutamente intense. L'intensività è uno dei suoi carismi. Non si può togliere nè aggiungere nulla, connotato costante delle opere d'arte. Occorre farci iniziare dall'autore stesso al proprio linguaggio immersivo, accogliendolo, facendoci passivi in esso per sentirlo risuonare e farsi nostra voce, nostra pelle. Una potenza visiva elastica, duttile, originale, metamorfica a livelli alti tanto da non temere confronti linguistici con giganti come Matthey Barney e Christy Lee Roger, ma nel contempo se ne apprezza anche la singolare dolcezza, la capacità di dinamica interstiziale, sussurrante, efficace nell’abitare aionicamente l’istante animico, nel muoversi sulla soglia fra rappresentazione e implosione del dicibile.

Samantha riesci a tenere un ora e mezza senza una logica narrativa facile o di immediata riconoscibilità. Come sviluppi la struttura? Ti aiuta una segnaletica simbolica che spargi?

Diciamo che l’assenza di una logica narrativa deriva principalmente dal fatto che la struttura del film avviene nel subconscio della protagonista, ossia in un luogo disconnesso, completamente dissociato dalla realtà. La presenza di diversi elementi simbolici mi ha permesso di creare una sorta di logica, seppure essa proceda su un terreno dissestato, perché questa donna è rimasta incastrata in un “non luogo” rappresentato dal trauma che non riesce a superare.

Questa segnaletica, molto suggestiva, parla spesso di acqua, serpenti, cerchi, nuvole, fiori, tutte immagini femminili. Come agisce il femminile dentro questa tua opera?

Parto dal presupposto che “Santa Guerra” è un film molto personale, posso dire che avvolge interamente la mia persona e il fatto che io sia una donna ha certamente influito ad accarezzare determinati elementi. Si è comunque trattato di una conseguenza imprevista, il punto di partenza era legato a elementi primordiali e spesso alcune scene rappresentavano un rafforzativo delle emozioni messe in scena dalle interpreti. Poi certamente il simbolo dell’uroboro e di conseguenza della circolarità del tempo sono diventati veri motivi portanti, intrecciati alla trama.

Si percepisce anche un senso del mito quale risonanza ancestrale, disinvoltura onirica nel ricomporre segni antichi, anche se presentati in un aura fresca, giovane, vibrante. Il tuo rapporto con la dimensione del mito.

A me la mitologia affascina da sempre e ammetto di non conoscerla tanto quanto vorrei. Eppure, non per giustificare la mia superficialità in materia, credo che livello cinematografico questa conoscenza non proprio accademica mi permette di riadattare certi pilastri alla mia sensibilità, alle mie corde emotive.

La tua protagonista, interpretata dalla bravissima Eugenia Costantini, sembra paralizzata dentro un incubo o un trauma che appare anche come un enigma filosofico. Il film inizia e finisce con lei stesa viva su un letto d'ospedale. La vita è cancerogena, come diceva Woody Allen in Stardust Memories?

Questa scena è un omaggio a “Persona” di Ingmar Bergman, il regista che amo maggiormente insieme a David Lynch e Terrence Malick. L’atmosfera evocata è quella di un obitorio invaso da una luce potente. La mia intenzione era quella di illuminare il suo subconscio, far luce sul suo trauma. A volte si dice: “vedere una luce in fondo al tunnel”; ecco la mia intenzione era quella. Quanto al fatto che la vita sia cancerogena, sinceramente non lo so, temo che siamo noi ad esserlo nei confronti della vita.

Ci sono tre personaggi femminili, oltre a te come personaggio che sembri uno spettro ma uno spettro carnale, credibile, vivo, non morale nè effettistico. Che rapporto fra le tre donne? Sono la stessa donna in tre dimensioni differenti? E le tre figure incappucciate? L'ultima taglia un filo rosso, come una Parca.

Andando per ordine, tutti i personaggi, per quanto diversi sono collegate da un filo comune che spesso coincide con l’essere tre cose diverse. Le tre donne sono la stessa donna, ognuna impegnata in una ricerca interiore in modo da elaborare il trauma. Io rappresento la necessità (Ananke), il senso di colpa della protagonista, e uno spettro. Mentre le tre donne incappucciate sono esattamente le parche, o moire che dir si voglia.

Mi ha affascinato la scena in cui la donna versa del latte su delle rose rosse appassite come pure quella in cui viene forzata a bere del latte. Il tuo utilizzo del bianco e del rosso appare molto efficace, eloquente, allusivo.

Per me avevano significati precisi: il bianco significa far luce sull’oscurità che grava sulla protagonista e il latte, che la riconduce al trauma che la schiaccia. Il rosso è chiaramente il sangue. Vita e morte mescolate insieme.

La tua intensività si può apprezzare anche quale verticalità e focalizzazione. Nel tuo film ricordo cascate viste dall'alto e acque colte dal fondo. Sei un'artista viscerale, che sembri muoverti sempre dentro mondi che frequentemente abiti e non lascia mai del tutto.

Penso che certe immagini scaturiscano dal profondo rispetto che ho per la natura che per me sovrasta e al tempo stesso smuove l’essere umano.

Quando affronti il tema del senso dell'esistenza e del rapporto fra necessità non scelta di vivere e libero arbitrio sono felice di assistere ad un tuo originale e coraggioso cogliere l'essenza senza tempo del tragico, uno dei compiti naturali dell'artista di ogni tempo ma oggi nella società dello spettacolo è sfida molto difficile da vivere e trasmettere. Questa tua opera è un enigma, una matrioska che moltiplica i veli e i percorsi?

A me le tue parole onorano. Il fatto stesso che il mio sia un film di nicchia, che obiettivamente non può interessare una moltitudine di persone non è un qualcosa dettato da una scelta, semplicemente io riesco a fare solo ciò che sento vicino. In questo momento la mia sensibilità e le mie esperienze di vita mi hanno portato tra le braccia di “Santa Guerra”. Ecco, io credo che questo piccolo film sia una mia creatura, ma anche io sia allo stesso tempo una sua creatura. L’enigma parte da questo enigma probabilmente, ed è qualcosa di leggermente tragico.

Nel tuo film compaiono più volte opere d'arte: statue, un quadro, un dipinto parietale e vari oggetti che possono che sono o possono essere opere d'arte come una piroga, un ouroboros, delle forme circolari concentriche. L'arte si nutre di arte? Cosa ti attrae? la fisicità di queste opere e la loro allusività simbolica o sono servite come medium?

Le opere d'arte che attraversano il film sono esse stesse dei personaggi, perché molto spesso sono funzionali alla storia a livello simbolico. La barca di Giovanni Scardovi, guidata da un serpente e un Caronte che trasportano l'ouroboros, le statue classiche ed esasperatamente espressive di Federico Severino, la Madonna di Bacco Artolini, lo studio con le sculture di Sergio Monari, ma anche il dipinto di Giovanni Bubani e le riproduzioni di Schiele, Boklin e Corot realizzati da mia madre, sono amalgamati alla storia, a quella sorta di negazione della vita che affligge la protagonista e che è la base dell'arte: un corpo morto, fissato su una tela o scolpito per l'eternità. Un attimo reso immobile, così come immobile è diventato il tempo per la protagonista.

Ci dici qualcosa sulla tua prima esperienza al Festival del Cinema di Venezia? Ti aspettavi di ricevere ben due premi per “Santa Guerra”?

Portare il proprio film al Festival del Cinema di Venezia è un’esperienza difficile da spiegare… Dal giorno dell’arrivo al Lido tutto ha iniziato a scorrere a una velocità surreale e mai mi sarei aspettata tanta attenzione nei confronti del film, né tante recensioni positive, ancor meno mi sarei aspettata due premi; di cui ringrazio Franco Arcoraci e Giusy Venuti di Cinema Italiano e Tangoo nelle persone di Gaetano Polignano e Claudia Mammarella. Inoltre; e ringrazio anche in modo speciale Chiara Modica Donà dalle Rose per avermi accolta nel suo palazzo per una seconda consegna del premio Tangoo. È stato bello aver condiviso certi momenti insieme alle attrici, al produttore, ma anche ai miei genitori e a tre donne che si sono rivelate veri angeli custodi ossia Francesca Rettondini che mi ha guidata dentro a questa avventura e a Francesca Polici e Licia Gargiulo, preziosissime press agent che mi hanno sostenuta minuto per minuto. Mi sono sempre ritenuta una persona fortunata, tutte queste cose mescolate insieme lo hanno confermato per l’ennesima volta.