Bisogna riconoscere, santi numi, che le vicende umane vanno piuttosto male. Forse sarebbe il tempo di affidarsi alla dea Cura. Divinità minore dell’Olimpo, Cura fu favoleggiata dall’autore latino Gaio Giulio Igino nel primo secolo dopo Cristo però non riuscì mai a raggiungere la notorietà. A parere del professor Mario Bencivenni, che le è ‘devoto’, il mito della dea è stato nascosto di proposito: “Fra i modelli di sviluppo che l’uomo si è dato fin dall’età antica quello della cura interessava poco, era meglio lasciarlo da parte, e ora vediamo le conseguenze drammatiche nei rapporti fra gli individui”.

L’analfabetismo della cura e l’uso di un linguaggio misero secondo Bencivenni flagellano la contemporaneità: “Le parole sono diventate qualcosa su cui pattinare come fossero dei laghi ghiacciati, dimenticando che sotto c’è un’infinità di forme di vita animali e vegetali che ci trasmetterebbero un sacco di cultura. Questo fatto è aberrante - noi abbiamo una derivazione dal latino che non è così organicamente complesso come il greco, ma che è straordinario dal punto di vista della semantica - trascurare le parole non ci fa capire la grandezza dei significati”.

Bencivenni, storico dell’architettura e dei giardini, del restauro e della tutela, è intervenuto nell’edizione 2022 del festival internazionale FloReMus (Rinascimento musicale fiorentino) creato sei anni fa dall’Homme Armé, con la conversazione Il giardino come opera d’arte a Firenze fra ‘400 e ‘500. Dall’hortus conclusus al giardino di delizia e la nascita del mito di Firenze città dei fiori.

C’era molta musica nei giardini del Rinascimento e oggi FloReMus è un ‘giardino’ dove prospera il futuro perché offre la possibilità di rinnovarsi attraverso ascolti che suscitano idee non reperibili altrove. Per esempio: dopo la Missa Maria Zart di Jacob Obrecht (1457/8-1505) eseguita dalla Cappella Pratensis, che canta dal facsimile di un manoscritto, il libro corale Codex Smijers (primi XVI secolo), il pubblico acclamante non riusciva a lasciare l’auditorium, intento a pensare e ad aspettare pensieri altrui. Dopo il concerto Salva nos… Liturgia immaginaria di fine secolo tra Firenze e Milano dell’Homme Armé (musiche di Heinrich Isaac, prediletto da Lorenzo il Magnifico, e Gaspar van Weerbeke, benvoluto da Galeazzo Maria Sforza) il pubblico, ancora una volta entusiasta, giocava a trovare un aggettivo per descrivere il concerto.

Dopo il Triste Plaisir di Alta Bellezza, che ripropone l’ensemble strumentale standard in tutta Europa nel XV secolo, ciaramella, bombarda e tromba da tirarsi, sembrava non ci fossero altri strumenti al mondo. E che dire delle suggestioni di Antonio Zachara da Teramo (1360 circa- 1416?), un nanetto con meno di dieci dita fra mani e piedi, al quale La Fonte Musica diretta da Michele Pasotti ha dedicato il programma Enigma Fortuna?

Bencivenni è partito da una sigla: “Questo festival si chiama FloReMus e lo pronuncio così perché è un acronimo, ma se io dicessi floremus sarebbe la prima persona dell’indicativo plurale del verbo florere che vuol dire fiorire, arricchirsi, essere in una condizione di bellezza, di felicità, tenuti in conto. È anche quello dal quale ha origine la parola Florentia cioè Firenze, almeno così si crede: c’è una grossa discussione sul toponimo perché, oltre ai riferimenti al fondatore, al patrizio proprietario dell’area o alla comunità, il nome di una nuova colonia poteva essere un auspicio, quindi con Florentia, dal participio presente florens, ci si augurava che il luogo fosse fertile, ridente, pieno di frutti e di risorse.

La cultura musicale si intreccia con questo fondamentale momento di pensiero e di cultura che definiamo Rinascimento e anche i giardini hanno un ruolo grazie ai sommi architetti e paesaggisti fiorentini del ‘400 e ‘500 come Niccolò Pericoli detto il Tribolo, artefice dei giardini della villa medicea di Castello. Tuttavia il disegno non basta: ci vogliono gli esperti curatori per dargli forma perché il giardino, a differenza dei palazzi, è fatto di materia viva in continua evoluzione e non nasce spontaneamente”.

Il professore ritorna, insomma, sul concetto di cura: “Vorrei mettere in chiaro che il giardino è un’opera d’arte come una pittura, una scultura. La foresta si crea da sola, è un elemento naturale e lì le piante vivono si riproducono secondo i loro criteri. Spesso ce lo dimentichiamo, ma fra l’uomo e le piante c’è una differenza temporale enorme e se i primi ominidi risalgono a qualche milione di anni fa, per i nostri veri antenati, gli uomini che hanno dato vita alla storia, si parla di qualche migliaio di anni, le piante invece si portano dietro profondità temporali di tanti milioni di anni. Le piante non verrebbero mai qui, anche se mandano segni e qualcuna riuscirebbe ad attecchire nei pochi spazi di terra della città storica.

Avere un approccio col giardino è complesso e la persona fondamentale in questo approccio è il proprio il curatore. Giuseppe Poggi stesso che era un grande progettista di giardini e paesaggista ottocentesco, come è stato Pietro Porcinai nel Novecento, diceva che se non ci fosse stato il giardiniere Attilio Pucci, il viale dei colli di Firenze non sarebbe mai esistito”.

Il professore ritorna poi anche sulle parole: “Giardino è un neologismo recente della nostra lingua, del tardo volgare. Nel primo nostro volgare non esiste perché la parola latina è hortus, di utilità se alimentare, di delizia se con i fiori, mentre se c’erano alberi da frutto si definiva un pomario. Tanto è vero che Dante nel Paradiso chiama Dio il grande ortolano dell’universo. Giardino viene dal francese jardin, dal tedesco garten, garden in inglese. Io credo che dovremmo rimanere a hortus, non per una questione formale, ma perché esprime molto bene la complessità e l’importanza dell’azione dell’uomo.

L’orto, che nasce di sicuro per l’utilità (in seguito ci si accorge che i fiori sono belli), è uno spazio di terra che l’uomo delimita per proteggerlo sia dai ladri di raccolto che dagli animali devastatori. Il limite può essere una siepe, un filare di alberi, un fossato.

Parlerei di questo argomento per giorni, invece ho quaranta minuti… Saltiamo gli inizi dove sono protagoniste le civiltà della Mesopotamia, dai Sumeri fino agli assiro-babilonesi, l’Egitto e tutti i regni ellenistici. Grazie all’impero romano e agli arabi questa tradizione che caratterizza i grandi imperi dei primi duemila anni di storia dell’umanità, fra Medio Oriente e Mediterraneo, è arrivata a noi: Roma ha recepito questi modelli e ha dato vita a sua volta a una tradizione di giardini di delizia eccezionali che hanno influenzato immensamente il Rinascimento. Fra il mondo antico e il Rinascimento c’è stato il Medioevo, un periodo non solo di tenebre, anzi. Un periodo di cambiamento con le invasioni barbariche, con una vita di crinale e non di pianura, l’abbandono dell’agricoltura: in fondo anche allora ci sono stati fenomeni di globalizzazione che hanno reso più conveniente importare i prodotti dall’Africa, dalle province, invece che produrli in Italia. Il monachesimo, soprattutto benedettino ha mantenuto la cultura del verde che è rimasta nei conventi con gli orti di utilità, elemento di rilievo la farmacopea, e di bellezza. La città antica romana o medievale è una città compatta, densa di tessuto, non c‘è il verde: le torri, gli edifici uno vicino a l’altro non fanno arrivare la luce, il sole.

La prima forma del giardino urbano dal Medioevo e fino al Rinascimento è l’hortus conclusus, delimitato da un muro, ed è un luogo ristretto. La presenza della musica sembra ricordare il famoso canto carnacialesco di Lorenzo de’ Medici che aveva come ritornello chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”.

Ai Medici e a una rete di signori si devono realizzazioni incredibili anche fuori le mura di Firenze, molte delle quali sono perdute dato che durante l’assedio del 1529 fu fatta terra bruciata, inoltre nel corso dei secoli i giardini diventavano sempre più costosi e, con la crisi dell’aristocrazia terriera nell’età dell’industria, spesso si è dovuto abbandonarli e lasciarli degradare, se non lottizzare.

Bencivenni mette in risalto anche un edificante aspetto sociale: “Nel ‘luogho di Quaracchi’ dei Rucellai, mecenati di Leon Battista Alberti e proprietari degli Orti Oricellari, il giardino pieno anche di arte topiaria con allori e bossi, terminava con un fitto bosco e chi transitava poteva stare nel parco per riprendere fiato e rinfrescarsi. Tanto era importante questa funzione pubblica che il popolo di Quaracchi approvò all’unanimità la decisione di contribuire alle spese di mantenimento. E oggi si mettono le ‘puntine’ sulle gradinate delle chiese per non far sedere la gente… È vero che la sciatteria è un problema, ma si fanno arrivare migliaia di persone e non gli si offre nulla, se non i parchi a pagamento, per avere un momento di riposo”. Ancora l’analfabetismo della cura. Del quale fa le spese anche Boboli, che fu il riferimento europeo perché è l’unico caso di giardino immenso dentro la cerchia di una città murata: il trionfo di quella natura che è opera d’arte nel contesto urbano. Versailles è fuori, come le ville dei cardinali e dell’aristocrazia romana. A osservare Boboli viene anche Le Nôtre nel Seicento, quando si metterà a progettare i giardini di Luigi XIV.

Bencivenni ce lo racconta: “Boboli nasce da una volontà tremenda di Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I, che, dal 1549 fino al ’59, anno della sua morte, è la vera protagonista. Venendo da Napoli, figlia di un viceré, bramava di avere a Firenze un grande giardino di delizia solo che a Napoli c’era lo spazio, a Firenze no. Quando vide la residenza dei Pitti, che era più piccola di Palazzo Medici, non si interessò alla dimora, ma alla vasta estensione di poderi che arrivavano fino alle mura arnolfiane. Comprarono il palazzo di Luca Pitti e i terreni sul quale affacciava e Boboli è l’unico caso nel quale fu realizzato prima il giardino e poi l’allargamento della residenza. A Eleonora in realtà Palazzo Pitti bastava e avanzava.

Quando ci vado ora mi si stringe il cuore. Il giardino avrebbe bisogno di almeno venti giardinieri fissi e oggi sapete quanti ce ne sono? Nessuno. Solo ditte esterne. Io lo trovo grave, non solo per l’affronto agli elementi estetici e monumentali ma, soprattutto perché saper vedere e curare un orto credo sia una lezione. Quando Epicuro fondò la sua scuola di filosofi volle creare un giardino e gli studi degli allievi cominciavano con la coltivazione: la cultura del giardino è il primo passo verso la conoscenza di noi stessi e il raggiungimento di quella dimensione necessaria per far sviluppare lo spirito.

Nel Settecento il Candide di Voltaire è protagonista di drammi, guerre, efferatezze che la civiltà con la C maiuscola dell’Europa del momento perpetra e finisce le sue peripezie in un orto nella penisola di Tessalonica dove un vecchio gli spiega che si nutre di quello che produce il suo appezzamento e sta benissimo. Allora in un’epoca come la nostra di enormi crisi riscoprire il giardino vuol dire riscoprire la cura di noi stessi che credo sia una delle premesse fondamentali per vivere felicemente in questa vita e non nei vari mondi futuri”.

Certo noi siamo in crisi ma, a quanto sembra, nella storia dell’essere umano la crisi è ininterrotta: con il concerto Canti per i tempi difficili. Musica per la Riforma inglese, l’Ensemble Cinquecento ha portato il pubblico di FloReMus nell’Inghilterra turbolenta di Enrico VIII.

Fabio Lombardo, direttore artistico dell’Homme Armé sottolinea, infatti, che “del Rinascimento ricordiamo in genere le stupefacenti meraviglie, ma era anche un’epoca di grandissime atrocità. Tutti i testi del programma, rivolti per lo più a Cristo o alla Madonna, in vario modo invocano protezione, pace e… dopo più di cinquecento anni a che punto siamo?”.

Siamo al punto di implorare la dea Cura.