Dobbiamo a Giuseppe Fenoglio la narrazione di un territorio italiano che oggi risulta meraviglioso nella perfezione dei filari dei vitigni, ma che al tempo dello scrittore era zona di povertà e di demoralizzazione, tanto che spesso la migliore e più nobile via d’uscita era il suicidio.

Le Langhe erano zone dove il sole non permetteva altro che tenere alcune capre, per la produzione di formaggi oggi tra i migliori del Paese; dove non si mangiava spesso e le piante venivano coltivate così in piedi da chiedersi come potessero (e come possano) fare per averne cura e raccoglierne i preziosi frutti.

Langhe territorio partigiano, oggi con percorsi che conducono dove Il partigiano Johnny cercava di nascondersi per scampare alle ricognizioni nazifasciste. Un angolo di mondo dall’immobile meraviglia, ricco ad ogni passo di scrittori noti in tutto il mondo e che è diventato universalmente riconosciuto anche grazie a loro.

Lo stile di Fenoglio, infatti, ricco di cronaca, ha permesso di conoscere perfettamente il territorio, narrato in modo epico. Figlio di un macellaio seguace delle idee di Filippo Turati, sarà un alunno modello, vorace lettore e traduttore soprattutto di libri inglesi. Al liceo avrà come insegnanti Leonardo Cocito e Pietro Chiodi, poi partigiani, che contribuiranno alle sue idee antifasciste.

Riuscì a frequentare l’Università di Torino dal 1940 al 1943, quando venne chiamato alle armi, al corso per ufficiali. Con l’8 settembre 1943, Fenoglio riuscì a scappare, a tornare in Piemonte e ad aggregarsi alle bande partigiane. Inizialmente si arruolò nelle Brigate Garibaldi delle quali non condivideva i metodi; quindi, riuscì a farsi accettare tra gli “azzurri” nel Primo Gruppo Divisioni Alpine, di stanza badogliana, che considerava meglio organizzati su modello militare, poi Seconda Divisione Langhe e lì operante, Brigata Belbo, comandata da quello che diverrà Nord nel romanzo più famoso del nostro, Il partigiano Johnny, pubblicato postumo.

La militanza tra le file dei banditi comportò il sequestro del padre per convincere Beppe ad arrendersi. Il fratello Walter si arruolò nella R.S.I., ma poi disertò e lo raggiunse. Saranno insieme nella Repubblica partigiana di Alba, quando la città venne liberata dai partigiani nel 1944, episodio narrato nel libro I ventitré giorni della città di Alba.

L’operato di Fenoglio fu fondamentale grazie alla sua perfetta conoscenza dell’inglese, che gli permise di essere collegamento con gli angloamericani. Conosciuti gli inglesi da vicino, tuttavia, ammise come fossero gli americani i veri “uomini nuovi”, mentre non aveva affatto apprezzato la decisione del generale Alexander di fare disperdere i partigiani nell’inverno 1944, dopo sacrifici e impegno.

Nel dopoguerra, si impiegò in un’azienda vinicola, così poteva avere tempo per scrivere con la sua mitica Olivetti Studio 44, e viaggiare.

Apprezzato da Italo Calvino, Natalia Ginzburg ed Elio Vittorini, pubblicò racconti, il romanzo La malora e si occupò di traduzioni (di Coleridge, Grahame), collaborando con riviste letterarie.

Accanito fumatore, morì a soli quarant’anni per cancro ai polmoni.

Nel 2005 gli venne assegnata, postuma, la Laurea Honoris Causa in Lettere dall’Università di Torino, riconoscendogli di essere stato tra i massimi autori del Novecento e dalla “grandezza assoluta”. Tuttavia, i suoi libri non vennero bene accolti alla loro uscita. Infatti, Fenoglio aveva fotografato la Resistenza in modo netto e ne aveva tratteggiato i caratteri pressapochisti che avevano comportato errori e superficialità, rivalità personali e politiche, pur nella bontà degli intenti generali. La casa editrice Einaudi, ad esempio, aveva rifiutato il titolo di Racconti di guerra civile per quello che diverrà I ventitré giorni della città di Alba: impossibile parlare negli anni Cinquanta di guerra civile, come in realtà anche fu la guerra partigiana.