Affrontare il tema di cosa accade nei territori estremi del grande Nord (e per converso con prospettive certamente molto differenziate per le caratteristiche specifiche anche in quello che potremo definire grande Sud e che più semplicemente si chiama Antartide, il continente ghiacciato) ha bisogno in primo luogo di comprendere di cosa parliamo, che cosa sia questa area particolare che chiamiamo tundra e quali sono le interazioni che la sua esistenza e i grandi mutamenti in atto con il riscaldamento globale possono ora e potranno in futuro avere con l’equilibrio del sistema climatico mondiale e i suoi gravi effetti in termini di inquinamento nonché in tema di misure da adottare.

Accade che nell’immensa mole delle informazioni che ci bombardano, per chi ha un qualche interesse ci si imbatta con notizie che riguardano improvvisi rilasci di metano in atmosfera nonché aperture di profonde voragini nelle immense distese siberiane. Notizie per esperti si potrebbe dire, ma sia loro stesse che a volte anche immagini diffuse ci pongono di fronte a qualche cosa che non può che impegnare la nostra attenzione, sia per i fatti in sé sia per la sensazione che nel medio-lungo periodo che abbiamo di fronte le conseguenze di quanto accade in quelle desolate e lontane lande potrebbe riguardarci da vicino.

Che cos’è allora la tundra. L’etimologia è di derivazione lappone, quel popolo misterioso ed interessante che chiamiamo Sami che abita le zone estreme del Nord e che si è poi diffusa attraverso il russo. La tundra, del resto, costituisce una parte quasi totale della porzione più a Nord del territorio russo e siberiano. Al di là delle sue origini linguistiche il termine si è consolidato nell’uso, ci sostiene il dizionario, come denominazione geografica delle regioni circumpolari, in particolare di quelle artiche e della loro vegetazione caratterizzata dall’assenza di formazioni vegetali arboree.

Si tratta di zone dove il clima è rigido, con precipitazioni molto scarse (200-300 mm all’anno) e dove la temperatura media del mese più caldo è di 5-10 gradi centigradi. Il suolo in queste condizioni si scongela solo d’estate in superficie e il periodo vegetativo dura circa 3 mesi. La vegetazione così particolare che si manifesta in queste condizioni è fatta di piante dominanti e di altre forme vegetative. È distinta in tundra a muschi particolare nei luoghi umidi; tundra a licheni in quelle che si possono definire aree più secche. Ancora si parla di tundra ad ericacee che si caratterizza per essere formata da piccoli arbusti striscianti (come mirtilli, uva ursina, salici, ecc.) che di solito non superano i 30 cm di altezza. Poi abbiamo quella artico-alpina, propria delle dorsali montuose scandinave e degli altopiani dell’Islanda, localmente molto varia e spesso costituita da una sola specie dominante, come il camedrio alpino o il ranuncolo glaciale. Giova ricordare che frammenti di questo tipo specifico di tundra sono presenti a quote elevate sulle Alpi, e su altre catene montuose europee.

Sul fronte della fauna, quella di questo territorio è caratterizzata dall’assenza di vertebrati eterotermi, gli uccelli sono rappresentati prevalentemente da specie estivanti che migrano a Sud in inverno, come l’organetto o il girifalco e molti uccelli costieri (stercorari, piovanelli, falaropi, morette, oche, ecc.); tra i mammiferi abbondano i roditori (lemming e arvicole), che trascorrono la maggior parte dell’inverno sottoterra, il bue muschiato, la renna, l’ermellino e la volpe polare.

Insomma, da quel che possiamo dedurre in prima battuta, una terra non certo ospitale, difficile da vivere e al tempo stesso di estremo interesse sia per la sua antichità, in termini di ere, sia per i fenomeni affatto particolari che in essa si possono verificare.

È in questo solco che si situa una ricerca condotta da un team del Consiglio Nazionale delle Ricerche-IGG (Istituto di Geoscienze e Georisorse) occupandosi in particolare di cosa accade in quelle aree estreme all’anidride carbonica e che cosa dalla tundra arriva nell’atmosfera e che quindi riguarda poi tutti noi abitanti della Terra.

La domanda che i ricercatori si sono posti è essenziale: la tundra artica, è una sorgente o un pozzo di CO2? Il tema ha potuto esaminare e identificare il ruolo dei parametri climatici e della vegetazione sui flussi di anidride carbonica che lassù si producono. I risultati, ottenuti grazie a campagne di misura e modelli matematici, sono stati pubblicati per la loro importanza su Scientific Reports.

Nel concreto si è approfondito il tema delle interazioni arrivando a stabilire che non solo la radiazione solare e la temperatura agiscono sullo stato e la presenza di questo gas serra. I loro effetti si sommano e amplificano infatti per l’umidità del suolo e al tempo stesso l’abbondanza ed il tipo di vegetazione sono in grado di controllare lo scambio di CO2 tra suolo, vegetazione e atmosfera.

Questo il primo risultato della ricerca. Gli scienziati e i tecnici hanno analizzato nel corso delle loro campagne di studio, le misure di flussi di anidride carbonica nella tundra artica dell’isola di Spitzbergen (Norvegia), nel bacino del torrente Bayelva, non lontano dalla stazione artica Dirigibile Italia del CNR, identificando le variabili climatiche ed ecologiche da cui tali flussi dipendono.

“Con il nostro studio dimostriamo che, per spiegare l’intensità dei flussi di CO2, non bastano temperatura e radiazione solare”, sottolinea Marta Magnani ricercatrice del CNR-IGG e prima autrice del lavoro, che durante il suo dottorato di ricerca ha partecipato alle campagne di misura e sviluppato un modello matematico dei flussi di anidride carbonica. “L’umidità del suolo, l’abbondanza e la tipologia della vegetazione giocano un ruolo primario, aggiunge la ricercatrice. I cambiamenti climatici in atto in Artico potrebbero portare a importanti variazioni nel bilancio dei flussi di carbonio”.

Quel che si evince è importante per i suoi rilievi non solo scientifici ma anche ambientali. L’aumento delle temperature favorisce infatti una respirazione più intensa della vegetazione e del suolo, aumentando così le emissioni di CO2. Un altro non secondario effetto dalle possibili evoluzioni nel tempo è che si verifica un allungamento della stagione vegetativa e una possibile espansione di specie con maggiore capacità fotosintetica. Come sottolinea la ricerca questo potrebbe portare ad un maggior assorbimento di CO2 atmosferica e quindi una diminuzione della sua concentrazione.

Ecco, dunque, che nasce l’interrogativo principale: se la tundra artica sarà una sorgente o un pozzo di CO2. Tutto questo naturalmente dipenderà da quale dei due fattori indicati diventerà dominante.

“I dati sono stati ottenuti utilizzando uno spettrofotometro portatile chiamato IRGA (Infra-Red Gas Analyser), che grazie alla possibilità di misurare i flussi di gas in punti diversi della tundra ci ha permesso di analizzare il ruolo delle differenti specie vegetali e di confrontare i flussi delle piante vascolari (dotate cioè di un sistema di vasi per condurre l'acqua), con quelli dei muschi e dei licheni”, questa la spiegazione scientifica certo ma tutto sommato comprensibile che è stata data, ad esempio, da Mariasilvia Giamberini e Ilaria Baneschi del CNR-IGG, che hanno trascorso diversi mesi in Artico fra il 2018 e il 2021, rivestendo anche il ruolo di “station leader” della base italiana.

La sostanza delle conclusioni del lavoro è che studi come questi servono a esplorare in dettaglio i processi climatici e le loro interazioni, con il valore aggiunto di poter sviluppare modelli predittivi che valgano in ampie zone della tundra artica e permettano di stimare se il bilancio netto andrà verso maggiori emissioni o maggior assorbimento locale di CO2.

Questa la conclusione assolutamente non “conclusiva” ma stimolo alla prosecuzione di studi fatta da Antonello Provenzale, direttore del CNR-IGG. I prossimi passi del gruppo di ricerca – aggiunge - saranno l’analisi della dinamica invernale dei flussi di CO2 in Artico, con misure anche nel manto nevoso, e l’uso di dati satellitari combinati con i modelli di ecosistema per estendere le stime dei possibili cambiamenti a regioni più ampie della tundra. L’interesse del gruppo italiano è orientato specialmente sui cambiamenti che avvengono in quella che viene definita “zona critica”, quel sottile strato vitale che include il suolo, la vegetazione, il microbiota, la fauna del suolo e l’acqua superficiale e sotterranea, e che sostiene il funzionamento degli ecosistemi terrestri.

E questi cambiamenti, in modi ormai visibili ed impattanti, le dinamiche che interagiscono, avvengono proprio in quelle zone estreme o lontane come l’Artico, le alte quote alpine e le aree vulcaniche quali le pendici dell’Etna che sono e saranno sempre più oggetti di studio alla ricerca prima della conoscenza profonda dei fenomeni e poi di possibili interventi di lungo periodo per contenerne gli effetti dannosi o comunque per convivere con essi a difesa dell’ambiente.

Vale sempre la pena di ricordare che siamo tutti insieme su questa navicella preziosa dispersa nello spazio profondo e che ogni nostra azione comporta una reazione. Affermazione semplice senza scomodare la filosofia ma che si riassume nella considerazione solo in apparenza ovvia che un battito d’ali di una farfalla nel Mediterraneo può essere all’origine di uno tsunami nell’Oceano Indiano o altrove. Nessuna, nemmeno la più piccola, delle azioni dell’uomo è indifferente per l’organismo terrestre, quello che ci garantisce la vita, ci sostiene, e ogni tanto ci dà pesanti lezioni di umiltà alle quali non possiamo opporci ma solo prenderne gli effetti su di noi. Tutti gli atti dell’umanità dovrebbero rapportarsi a questa semplice verità e sapere che nulla resterà senza effetto, e se non oggi sarà domani o dopodomani. Per questo il senso di responsabilità deve prevalere nel confronto con l’ambiente e con il suo utilizzo. Utilizzo, non sfruttamento scriteriato e controproducente!